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208 | il secolo che muore |
ferite, diventò il Saracino di piazza, o, come oggi si
dice, il Lione. La fama, volando, portava il suo nome
di bocca in bocca, senza stancarsi mai, anzi ci prendeva
balia per volare più lontano; l’avo Omobono ne
andava in visibilio, o ne faceva le viste; voglioso poi
che il figliuolo della sua predilezione non iscomparisse
rimpetto agli altri giovani incliti per censo o
per lignaggio, volle che il nipote accettasse eleganti
carrozzini e cavalli magnifici, così da tiro, come da
sella, il groom e il tigre insieme alle altre diavolerie
con le quali la dissipazione insapona le scale
al fallimento: e per dire il vero, non ebbe a insistere
troppo presso al nipote, ond’ei si lasciasse
fare, che la vanità ha il sonno più leggero della
lepre, che per poco stormire di frasca si risveglia;
so l’avo si mostrava disposto a largire con una
mano, l’altro era li pronto ad agguantare con due.
Se si conoscessero tutti i danni e i fastidi che partorisce la celebrità, io per me credo che non vi sarebbe uomo al mondo, il quale incontrandola per la via non fuggisse peggio di un cane arrabbiato. Ognuno sa dove gli fa male la scarpa. La fama è una croce come lo altre, e chi l’ha sulle spalle deve portarla fino al sommo del monte. Adesso continuiamo a raccontare di Omobono.
Certa sera, mentre egli se ne tornava placidamente a casa, ecco sente toccarsi sopra una spalla; si volta risoluto e vede davanti a sè mia donna ai-