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capitolo vii. | 233 |
— Come! Come sta questa faccenda?
— Tal’è qual’è, come dice il cane quando lecca l’acqua; la si chiarifichi da sè; venga si accomodi, che lo potrà fare ad agio.
Il conte, che ormai aveva gli occhi tra i peli, leggeva e rileggeva e non si addava; il sangue gli era salito al capo, sicchè delle lettere del pagherò, parte gli sembravano scritte di rosso e parte di fuoco. Allora il Nassoli, pensando, che dai ma’ passi, quanto più presto si esce, e meglio egli è, notò:
— Osservandissimo padrone mio, favorisca leggere bene il millesimo, miri (e ci metteva il dito sopra) ci sta scritto tre marzo millenovecento sessantasei, la quale cosa, come vostra signoria può insegnarmi, significa, che se si compiacerà ripassare alla cassa da qui a cento anni, in questo giorno otto marzo, ella verrà puntualmente pagato....
— Ma questo e tradimento.... questo si chiama assassinare la gente.... io voglio il mio denaro.... il mio denaro: — e qui voltosi furibondo ad Omobono, continuava: — e voi signore, che me lo avete carpito, non dite nulla? Vi costringerò a parlare bene io, vi schiafferò in piazza.... vi strapperò il cuore dal petto e ve lo sbatterò in faccia....
— Queste cose, signor conte, una volta usavano in Inghilterra, e le faceva il boia coi traditori; e qui siamo a Milano — rispose Omobono, guardandolo fisso senza punto alterarsi, e poi: — il pagamento