Il secolo che muore/Capitolo VI

Capitolo VI

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Capitolo V Capitolo VII

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Capitolo VI.

IL GIORNALISTA.

Immensa folla si accalca alla porta del teatro della Scala, dentro e fuori folgoreggiante di lumi; il fiore di quanto Milano in sè raccoglie di nobilea e di eleganza si vede stipato nell’atrio, e diviso in due ale nel cui mezzo le donne leggiadre ed anche le non leggiadre hanno a passare por sostenere il bersaglio delle occhiate ardenti, delle parole accese o mordaci; imitatrici profane di quel gran santo che fu San Pietro Igneo, il quale traversò due cataste di legna infiammate senza che paresse fatto suo, anzi, si dice, che giunto a mezzo, aprisse la scatola e pigliasse una presa di tabacco.

Sospiri tagliati co’ denti non anco finiti di nascere, ammicchi concordevoli o concordati, la famiglia [p. 172 modifica] infinita dei sorrisi, o tutti agri, o tutti dolci, ovvero agrodolci e la non meno infinita famiglia degli sguardi quale foggiato a punto interrogativo e quale ad esclamativo; insomma di quanto ci aveva da essere non ci mancava nulla. Allo aspetto di tanta giocondità avresti giurato che Venere ci avesse portato non già il suo cinto, bensi sovvenuta dalle tre Grazie, una balla dei suoi suoi doni, ed ora ognuna di esse preso il pellicino ce lo scotesse fino all’ultimo vezzo. Delizie, venustà, lusinghe, allettamenti, carezze turbinavano insieme confusi, come gli atomi traverso i raggi del sole.

Tra gli spettatori primeggia il cav. Faina, messo di tutto punto; abito nero, guanti periati, panciotto bianco come la sua coscienza e cappello nuovo di zecca: ogni cosa a credenza, e così gli stivali inverniciati, e le calze, e la camicia altresì: costui coccoveggiava allungandosi, ripiegandosi, facendo lazzi, saltetti e smorfie a modo di civetta quando chiama le lodole sul vergone: questo appellava per nome, quell’altro stringeva pel braccio, a tutti dava del tu, usava ed abusava della pazienza altrui ostentando una familiarità alla quale egli non aveva certamente diritto, sfacciato come.... un giornalista sfacciato (che più in là non si può ire). Nello apogeo della sua gloria, ecco, pari allo spettro della maga di Endor al Ee Saulle, sorgergli davanti improvviso Omobono, il quale aveva potuto giungere [p. 173 modifica] inosservato fin presso a lui, nascosto dietro unmi sacramento di matrimonio diviso in due grossi volumi, moglie e marito. Egli primo, stese la mano ad Omobono, gli augurò la buona sera e gli chiese:

— Come stai? — e qui gli diede un colpetto sulla pancia, e sorridente soggiunse: — Non ti si vede mai, che saresti innamorato? Caso mi apponessi, confidati allo amico, che Tito nol saprà; ti servirò di coppa e di coltello: tu sai, che io con gli amici non bado a buttarmi nel fuoco.

— E’ vero, natura il fece e poi ruppe la stampa; giusto, avevo bisogno di confidarle qualche cosa.

— Eccomi qua ai tuoi comandi.

E così favellando entrambi si fecero fuori della folla. Allora Omobono, con voce mite ed umile sembianza, cominciò a dire:

— Caro mio, non più tardi di stamani gli amici miei mi hanno fatto conoscere come la S. V. da un pezzo in qua si pigli il capriccio di lacerare a morsi la mia reputazione e, non contento della mia, laceri quella di tali che per dovere e per amore a me premono troppo più di me.

— Tattere! Tattere! amico mio.

— Tali non paiono agli amici, e veramente nè manco a me, ne credo che la madre mia ed io possiamo averle somministrato motivo di conciarci come ella fa.

— Ma qui non c’entra nè morso, nè strazio. Noi [p. 174 modifica] altri pubblicisti possediamo a titolo di arte gli universi dominii del cielo e della terra, ed anco dello inferno: o che vuoi tu mettere i confini al pianto ed al riso? Noi ridiamo di tutto, noi facciamo ridere di tutto, e voi, o squallidi mortali, esaltateci, imperciocchè, senza di noi, voi fiottereste perpetuamente come bambini sculacciati.

— E di questo disegno, signor cavaliere, che avrei io da pensare?

— Prima di tutto ch’egli è un disegno, e poi o che ti frullerebbe il grillo d’immaginare che fosse stato fatto per te? Già le persone disegnate non rassomigliano punto te, nè il tuo onorevole avo, al quale prego presentare i miei cordiali saluti, e dire che domani o posdomani passerò da lui per proporgli un negozio.... un negozio grosso da piantarci in mezzo la forchetta ritta.... come nel rosbiffe, che si ammirava l’altra sera al buffet del principe Parpaglione.... Che festa! caro mio, che festa! E tu non c’eri.... caro mio... dove diavolo ti ficchi? Tu bello, tu ricco, nato vestito per far furore, ma non ti si vede mai....

— Signor cavaliere, andiamo al grano, come diceva l’ebreo Marini, di questo disegno che cosa devo pensare?

— O non te l’ho detto, che tu sia santo; il disegno non fu fatto per te; non ti rassomiglia per nulla; se taluno te lo afferma, ti dà la baia; e puta [p. 175 modifica] il caso che qualche rassomiglianza ci fosse, sarà tutto per accidente.... non ti basta? A sorte saresti di quelli che vogliono la botte piena e la moglie briaca?

— Per me, la si figuri, sarebbe proprio un gusto rimettermene al suo savio parere, ma gli amici miei non la intendono a questa maniera; guardi un po’ se le sovvenisse qualche ragione di quelle buone che valesse a persuaderli, che io ho un diavolo per capello, e darei a patto una mano per uscire da questo ginestraio; — e tutto ciò Omobono profferiva ad occhi dimessi, e con voce tremante.

L’altro, pensando averla a fare con mi giovane dal sangue di piattola, rispondeva smargiasso:

— La stampa è libera come l’acqua del mare, come l’aria del cielo: palladio della libertà e della civiltà la stampa; guai a cui la tocca! Ci si ruppero i denti principi grandi e teste da corona: cannoni Krupp, mitragliatrici, schioppi dreyse, remington, chassepot, armi ed armati che ci urtarono dentro ci s’infransero come onda fra gli scogli. Da Dio e dalla nostra coscienza noi altri giornalisti abbiamo ricevuto un mandato sacro; a noi, sacerdoti delle sorti umane, e non ad altri, spetta il giudizio del come lo dobbiamo eseguire e del limite estremo dove possiamo spingere il dileggio, il biasimo, la rampogna e l’accusa per la tutela della pubblica virtù. Che se il privato cittadino si [p. 176 modifica] arrogasse la facoltà di mettere i cancelli alle nostre prerogative, a seconda dei fumi del suo orgoglio, dei ghiribizzi del suo amor proprio, o del bisogno di tenere le sue colpe celate, allora potremmo sonare l’agonia alla libera stampa. Queste sono le ragioni, che offro a te, e se non ti garbano rincarami il fitto, e incaricandoti di presentarle anco agli amici comuni aggiungerai che se si sentono far male si scingano.

— Mi scusi, cavaliere, ma non mi quadra; ella ha troppo ingegno per non comprendere che l’uomo non può costituirsi giudice e parte. La giurisdizione che si arroga il giornalista sarebbe eccessiva, si figuri un momento che io non ci volessi sottostare, allora?

— Io ti ho già chiarito: chi non la vuole la sputi.

— Ecco in questo caso mi parrebbe che la questione si avesse a definire così: in libera stampa schiaffo libero.

E ratto levando la mano gli lasciò andare sopra la faccia il più solenne musone che mai sia stato dato al mondo, dopo che ci nacquero una guancia sinistra e una mano destra; subito al cavaliere si tumefece la gota, sotto l’occhio il sangue gli diventò nero, e tinta in bel vermiglio sopra la pelle gli rimase la impronta delle cinque dita: accecato di rabbia e di vergogna, vinta su quel subito la paura, il Faina si avventò al collo di Omobono, se non che questi [p. 177 modifica] prevenendolo, forte lo abbranca pel petto, e con impeto irresistibile lo scaraventa contro la parete: il cavaliere pubblicista fu visto, dimenando le braccia a guisa di ale, correre presto presto sulle calcagna allo indietro, finchè perduto lo equilibrio stramazzò supino al pavimento, dove scivolando sul dorso non si ristette se prima non ebbe battuto una sconcia capata nel muro, con danno irrimediabile del cappello preso a credenza, il quale gli si rincalzò fino al mento.

Comecchè sbalordito dallo inopinato accidente, tuttavia aiutandosi con le braccia si mise subito a sedere, tentando rabbiosamente tirarsi su il cappello, ma o sia che lo facesse senza discrezione, o fosse debole la stoffa, la tesa gli si strappò nelle mani e il cilindro gli rimase sempre ficcato nel capo, e di più ardua estrazione. Fra i tanti che sghignazzavano si trovò un pietoso il quale, desiderando che cotesto strazio cessasse, si mise a cavalcione sul capo del Faina, e preso con due mani il cilindro s’industriò a cavarlo fuori; in cotesto atto ei presentava la figura del servo il quale, stretta fra le cosce la bottiglia, si sforza ad estrarne il turacciolo; sicchè quando il Faina, rimosso il cappello, tornava a rivedere le stelle, ovvero i lumi, udì dintorno queste voci di scherno commiste alle risa universali: — Non lo sturare, che altro che veleno non ne può uscire.... [p. 178 modifica]

— L’hai tu visto? Egli era proprio dodici once buon peso.

— Altro che dodici once! Per me lo giudico pesato sulla stadera dell’Elba, che ha la prima tacca sul mille.

— A quest’ora il vangelo dei cinque santi lo ha da sapere a mente; ne porta impressa la effigie sul muso.

Sovvenuto, il Faina si rimise in piedi; il suo cuore zufolava di rabbia peggio di un gruppo di vipere in amore, se accada che taluno con sasso, o con bastone le disturbi: gli occhi aveva pregni di lacrime lì lì per isgorgare, ma l’ira glie le teneva sospese, così talora la tramontana impedisce alle nuvole ammassate dallo scirocco rovesciare sulla terra l’acquazzone; ma uscito appena dal teatro egli pianse.

Che pianse egli mai? Pianse il cappello nuovo nabissato, pianse il corpetto, la veste e la camicia ridotti in brandelli, e intanto più amaramente pianse, quanto non avendoli pagati dubitò poterne ormai sostituirne altri a credenza; pianse i pranzi pericolanti e le cene che dubitò perdute, e soprattutto pianse la cessata o per lo manco diminuita facoltà di frecciare gli amici... insomma ogni cosa pianse eccetto l’onore defunto; e a diritto, che non avendo avuto occasione di celebrarne il battesimo, nè meno poteva lamentarne i funerali. [p. 179 modifica]

Frattanto non trovando meglio a fare mandò giù un paio di ponci, e si mise a letto.

— Magari! — esclamò svegliandosi di soprassalto il cavaliere Faina, il quale sul far del giorno si era sognato come Omobono trito e contrito si fosse recato a casa sua per chiedergli scusa, e profferirgli generoso risarcimento dei danni: in sostanza se la fosse andata a finire così, avrebbe raggiunto lo scopo propostosi, allorquando aveva preso a sputizicchiarlo col giornale, con uno schiaffo di giunta, non previsto nel programma, ma si sa, le faccende non riescono a pelo, e i prudenti si contentano riceverle a taccio. Adesso vedremo se il fatto rispondesse alle fantasie del cavaliere Faina.

La prima visita fu, spuntato appena il giorno, degli interessati nel giornale il Gingillino, amicissimi suoi, i quali gli spiattellarono crudamente come essi non lo potrebbero più oltre tenere collaboratore nel giornale, dove egli non avesse vendicato lo insulto patito nella sera antecedente; certo, poco loro premevano le bazzecole di soddisfazione e di onore, e capivano che al Faina doveva importarne anche meno, ma tanto egli quanto gli amici suoi non potevano rimanere indifferenti alla certezza che, senza un giusto riparo il giornale sarebbe caduto in tal discredito da non poterne vendere da ora in poi ne manco una copia. Per queste ragioni fu deliberato che il Faina manderebbe un cartello di sfida ad [p. 180 modifica] Omobono, e quanto più presto meglio, affinchè nel pubblico si bociassero in un medesimo punto la ingiuria, e il risarcimento, e s’imparasse da tutti che con gli scrittori del Gingillino non si giocava di noccioli. Il Faina con la guancia che pareva una melanzana si lasciava fare, stillando ragioni nel suo cervello per persuadersi che Omobono fosse un poltrone: gagliardo senza dubbio egli era, e la sua gota ne sapeva qualche cosa; ma siamo giusti, lo schiaffo a fin di conto glielo aveva dato a tradimento e dietro provocazioni che avrebbero tratto fuori dai gangheri anco Giobbe, e poichè gli tornava credere che Omobono si sarebbe mostrato di facile contentatura, così lo credè.

Pertanto i suoi testimoni, o padrini, o secondi che si abbiano a chiamare, si condussero a casa di Omobono, il quale, udito appena chi fossero e perchè venuti, disse loro:

— Sta bene; fra un’ora i miei amici verranno a conferire con le signorie vostre. — E senz’altre parole li accomiatò; senonchè sul punto che essi stavano per uscire li interrogava:

— Chiedo perdono, signori, ma dove i miei testimoni avranno l’onore di trovarli fra un’ora?

— All’uffizio del nostro giornale.

— Davvero, avrebbero potuto indicarmi luogo meno indecente; ma non fa caso, a rivederci fra un’ora. [p. 181 modifica]

I padrini sentirono la trafitta, ma riputarono conveniente dissimularla, por non accendere una seconda querela. Non che un’ora, ma appena n’era trascorsa mezza, che eglino videro comparirsi davanti il marchese Sagrati, colonnello di cavalleria riposato, e il contino Anafesti, ambedue in fama di solenni amatori di simili scontri; dalla quale cosa i testimoni del Faina non trassero favorevole augurio. Ricambiatisi i saluti, più che con le parole col capo, gli uni contro gli altri piegandolo a modo dei montoni, che si accingano a cozzare fra loro, il signor Pancrazio, come il più anziano dei secondi del Faina, pigliandola alla larga per iscoprire marina, incominciò a deplorare la barbara costumanza del duello, alla quale è forza, che anco il buon cittadino si sottoponga come a giogo odiatissimo per colpa di non avere o voluto, o saputo, o potuto fin qui istituire un tribunale di onore, che possedesse tale reputazione da fare regola nel mondo; e via e via sopra questo metro sciorinando tutti gli argomenti, i quali per essere stati detti e ridetti hanno messo la barba bianca; e i padrini di Omobono zitti.

Allora il signor Pancrazio, che la pretendeva a sottile, si provò a stringere il cerchio aggimigendo: che gli andava proprio il sangue a catinelle, nel considerare come si trovassero al cimento di tagliarsi la gola due egregi cittadini, fiori di galantuomo, l’uno pubblicista, che tanti servigi ha resi. [p. 182 modifica] e potrebbe tuttavia rendere alla causa della libertà e della civiltà, nonchè della umanità, padre di famiglia, servizievole, letizia delle liete brigate; r altro giovane erede d’immense ricchezze, alacre, solerte, stoffa da cavarne un finanziere coi fiocchi, destinato a sostenere una brillante carriera in Società; e a come a me cuoce il presagio di tanto guaio, vado persuaso, che cuocerà anche ad altri»; ed i padrini di Omobono duri.

E poichè, tastato il terreno il signor cav. Pancrazio Luridi (che tale aveva nome e cognome il padrino del Faina, ed era cavaliere anch’egli), conobbe come bisognasse venire addirittura a mezzo ferro, onde non senza un qualche impeto esclamò:

— Debito sacrosanto dei padrini, imposto non solo dalla religione, ma eziandio da ogni norma del vivere onesto, è procurare con ogni estremo conato, comporre gli screzi ed impedire lo spargimento del sangue e la perturbazione delle famiglie. Tale almeno fu sempre lo scopo che si proposero tutti quelli che si vituperano col soprannome ignominioso di moderati, epperò non dubitare che i democratici volessero rimanersi da seguitarli sopra questo sentiero..... ma come dic’egli il proverbio? Alla svolta ti provo.

— Questa è una botta diritta per noi — masticò fra i denti il giovane conte, e si accingeva a rendergli pan per focaccia, quando il compagno lo [p. 183 modifica] trattenne osservandogli che a lui come più attempato stava rispondere: e ciò fece con bellissimo garbo, levatasi prima una carta di tasca:

— Voi dite unicamente, cavaliere Luridi, e tanto io partecipo i vostri degni sensi che nel presagio, che o da voi o dal vostro egregio compagno mi sarebbero tenuti siffatti propositi, aveva preparato un bocconcino di dichiarazione, la quale, dove il vostro signor primo non trovi difficoltà a sottoscrivere, darà di un tratto sopita ogni querela.

— Sentiamo, sentiamo, e quando sia osservato il decoro...... la convenienza del mio signor primo, non mi tirerò certamente indietro dallo adoperarmi perchè venga da lui accettata.

Così il Luridi cavaliere e l’altro secondo, che non era cavaliere, ma meritava esserlo, ribadivano il chiodo:

— Certo s’intende, salvo onore del nostro signor primo, e senza pregiudizio delle dovute riparazioni.

— «Io sottoscritto (dopo avere spiegato il foglio, lesse pacato il Sagrati) cavaliere Luigi» Credo?

— Appunto, Luigi.

— Figlio?

— Di Ambrogio.

— Morto, o vivo?

— Morto.

— «... del fu Ambrogio Faina, nella mia qualità di gerente responsabile del giornale intitolato il ' [p. 184 modifica] Gingillino, di mia certa scienza, e libera volontà, dichiaro avere ingiuriato villanamente, ed a torto, il signor Omobono, del vivente Marcello Onesti, e sua famiglia con disegni e scritti nel mentovato giornale più volte; lo prego a volermi perdonare come cristiano e come cittadino, e lo supplico inoltre, nonostante la mia provocazione, di mandare a monte il mio cartello di sfida, considerandolo come non avvenuto ad ogni effetto di ragione. Milano questo

di, ecc» — Dopo che voi, signori, lo avrete fatto segnare da lui.....

— Basta, basta, che ce n’è d’avanzo. Comprendo, signor colonnello, che a voi è piaciuto divertirvi alle nostre spalle.

— Mi maraviglio di voi, signor cavaliere; io non ho la pessima usanza di pigliarmi gioco di chicchessia, massime in occasioni tanto solenni. E poichè vi abbiate pegno che io parlo da senno, vi accorto addirittura, che non sarò mai per accettare dichiarazione, la quale anche di una sola virgola differisse da questa.

— Com’è così andiamo innanzi: rimane inteso, che al mio primo appartiene la scelta delle armi.

— Adagio, che ho fretta, cavaliere — soggiunse il colonnello — la scelta delle armi al contrario spetta al mio.

— Oh! quanto a questo poi non cedo.... — esclamò vivacemente il Luridi, lieto nella speranza gli si [p. 185 modifica] parasse davanti un attaccagnolo, onde uscirne pel rotto della cuffia, e l’altro:

— La è chiara come l’acqua. scusi, chi provocò il primo? Chi toccava il cavaliere Faina? Chi gli badava? non dettò egli le ingiurie? non consentì egli che l’infame disegno nel suo giornale si pubblicasse?

— Questo non è provato, mentre lo schiaffo è chiaro e lampante; inoltre se le cose allegate costituiscano o no ingiuria vorrebbesi discutere e provare, mentre lo schiaffo è schiaffo in tutte le cinque parti del mondo.

— Eh! in coscienza non potrei dire diversamente, ma tanto è, la provocazione mosse dal cavaliere Faina, tutto al più potrei, sebbene a malincuore, convenire per la parte del mio primo esservi corso eccesso; ora voi, signor cavaliere Luridi, che siete versatissimo in questa maniera negozi, voi sapete come si proceda in simili casi; se ne rimette la scelta alla sorte.

— No davvero, qui non ci cade dubbio; la scelta dell’arme va de jure al mio primo.

— Cavaliere, pigliate un granchio.

— Marchese, prendete un marrone.

— Io insisto.

— Ed io non mi ricredo.

— Io pure — aggiunse facendo bordone il compagno del cavaliere Luridi. [p. 186 modifica]

Allora il contino Anafesti, impetrata licenza di parlare, disse:

— Per commissione speciale del mio primo, cedo all’avversario la elezione dell’arme.

— Dunque la spada.

— E la spada sia.

— A tutto sangue; — rincalza il Luridi — importa che una buona volta si sappia che i duelli per burla si hanno a smettere.

— Voi avete un sacco eduna sporta di ragioni; tale fu la usanza dei nostri vecchi, e perciò essi nei duelli facevano portare le bare.

— I riposi poi....

— Che riposi? Di riposi non si ha neanche a parlare.... finchè hanno fiato stieno col ferro in mano.

— Pure se volessero sostare....

— A che prò? Tanto il duello non è all’ultimo sangue? — Più presto si ammazzano, e più presto finisce la storia.

— Ma gli è di rubrica....

— Non si stia a confondere, tanto alle prime botte s’infilano ambedue, come succede fra quelli che non sanno maneggiare la spada....

— Non sa maneggiare la spada? Avverta bene, marchese, che il cavaliere Faina ha fatto stare al canapo anco il Parise di Napoli....

— Tanto meglio; ammazzerà più presto il suo avversario. Dunque lo scontro a domani.... [p. 187 modifica]

— Domani è troppo presto....

— Le cose lunghe diventano sempre serpi; e lo indugio piglia sempre vizio.

— Domani è presto; vogliano rammentare che il cavaliere Faina giace tuttora infermo a letto.

— A cagione dello schiaffo?

— A cagione dello schiaffo, che in breve, non dubitino, sarà lavato col sangue...,

— Potrei sbagliare, vehli! ma per mio giudizio, — osservava il colonnello, gli farebbe meglio uno empiastro di semi di lino. Basta, fissiamo senz’altro sabato mattina: allo spuntare del giorno, se me lo permettete, manderò la mia carrozza a pigliarvi, e lo credo prudente, per non mettere tanti a parte del segreto: noi staremo ad aspettarvi faori di porta Ludovica. Le armi troveremo nella villa dello amico il quale ce la presta volentieri per terminare la contesa, procurerò ci si trovi anco un cerusico, e se volete condurne un altro di vostra fiducia anche voi, padroni. Sta bene così?

— Approviamo.

— A rivederci a sabato.

— Maledetta questa vita da cane! — esclamò il questore cavaliere Speroni, svegliato innanzi l’alba dal suo cameriere, e pieno di rovello gli domandò:

— Che ci è egli di nuovo?

— Ecci un signore che ha il nastro di cavaliere [p. 188 modifica] sul petto ed uno empiastro al viso, il quale fa istanza per parlare a vostra signoria per cosa di grandissima premura; da questa carta vedrà di che si tratta.

— Ho capito — soggiunse il questore, gettato apjpena l’occhio sulla carta, la quale per ogni buona cautela era stata posta dentro una bolgetta sigillata; — digli che passi.

— O cavaliere, siete voi? Che novità ci portate? Accomodatevi e informatomi presto di che cosa si tratti.

Qui il Faina prese ad esporre a modo suo il caso successogli con Omobono, ed il questore, che già lo sapeva a mena dito, gli diede spago e lo lasciò dire. Quanto la calunnia sa immaginare di più sfrontato nei suoi parossismi di rabbia, e la perfidia di maligno il Faina s’ingegnò insinuare nell’animo del questore a danno di Omobono e dei suoi secondi: si chiamò vittima d’infame tranello; i suoi padrini soperchiati avere dovuto accettare per arme la spada, nel maneggio della quale andava celebre il rompicollo del suo avversario: così tramato il suo assassinio, dov’egli non ci avesse posto riparo, avrebbe avuto il suo compimento.

Allora il questore, senz’altro parole, preso il suo stratto segnò dietro dettatura del cavaliere Faina: sabato.... all’alba.... porta Ludovica.... carrozza.» Scritto ch’egli ebbe, aggiunse:

— Vedete, cavaliere, per riconoscere meglio la [p. 189 modifica] carrozza, procurate abbassare le tendine da ambe le parti; sarebbe bene, che portaste con voi qualche arme, così piglierebbe più colore il negozio, e porgerebbe ragionevole appiglio alla polizia per procedere allo arresto: andate e vivete tranquillo, che alle mie mani non succederanno guai: però da quello amico che mi professo esservi vi avviso a temperare la vostra penna; il troppo stroppia, e il Governo va servito discretamente; ecco voi avete preteso farmi apparire i signori dei quali testè mi favellaste come demagoghi e sovvertitori della monarchia, mentre questo non è ed io li so indifferenti, e a noi ci basta: intanto da parecchie settimane mi avevate promesso mettermi in mano la trama di una setta repubblicana, e fin qui menate il can per l’aia, esponendomi al rischio di scomparire col prefetto e col ministro.

— Eh! caro mio, io l’ho da fare con merli accivettati

però sto lì lì per gettare il giacchio, e farne

una retata.

— Orsù via sbrigatevi, che ben per noi; comecchè questi benedetti deputati sembra che vogliano rubare agli ebrei il mestiere di tosare le monete, pure i fondi segreti bastano sempre a ricompensare i servizi importanti. Ed ora, cavaliere, lasciatemi riposare un altro poco, che stanotte non ho chiuso un occhio. Addio, cavaliere.

— Cavaliere, addio. [p. 190 modifica]

Nel riferire, che i testimoni fecero ad Omobono il successo e i patti del duello, i quali furono da lui facilmente approvati, tanto non si potè tenere Ludovico, che non gli dicesse:

— Sentimi, amico, Dio sa se ti abbiamo servito e ti serviremo di cuore, ma a favellarti aperto ci tormenta mi rimorso, ed è di avere accettato con troppa correntezza la spada per arma della sfida, perchè micidialissima se la tratta il coraggio, © peggio se la paura: spinta dal braccio e abbrivata dal moto della persona trapassa come ago, e poco ferro nel cavo del corpo basta ad operarvi ferite insanabili: ora per nostra quiete dimmi, a parare ti senti capace?

— Tra bene e male spererei. Un dì mi dilettai a tirare, e il maestro Filippo mi assicurava trovarmici disposto, ma il maestro, come capisci, era interessato a che non ismettessi; pure, che io deva avere disimparato affatto non crederei.

— Proviamo un po’ se ti piace; hai in casa i fioretti?

Omobono andò pei fioretti, e ritornato ne presentò uno a Ludovico, il quale con elegante prestanza si pose in guardia aspettando lo assalto; ma Omobono avendogli giustamente osservato che, se voleva provarlo alle parate, toccava a lui essere assalito, non già assalitore, Ludovico prese ad [p. 191 modifica] investirlo con impeto. Le industrie del gioco egli adoperò tutte; anzi un cotal poco stizzito per incontrare maggiore contrasto che non aspettava, raddoppiò di solerzia, e di ardore: però invano, tantochè rifinito di forza voltò la punta del fioretto a terra esclamando:

— Ma siamo a cavallo, laudato Dio... tu sei un Marte..... un professore proprio di cartello.

— O non potrebbe darsi, scusa ve’ Ludovico — osservò il marchese Sagrati — che a te ne avessero insegnato di molto, ma tu ne avessi appreso poco?

— Bene, fa una cosa, lascialo riposare e poi prova tu?

— Oh! io non mi sento stanco — disse Omobono, ponendosi nuovamente in guardia. — Colonnello, ai vostri ordini.

Ma il colonnello si era dimenticato dei suoi anni, mentre questi non si erano punto dimenticati di lui; però m breve soffiava come un mantice, e si sentiva bagnato fino alla camicia; comecchè dallo assalto passasse con molta disinvoltura alle parate, pure in un bacchio baleno fa toccato due volte.

Jam fuimus Troës! — tra sorridente e mesto disse il dabbene uomo, abbassando il fioretto — però ti esorto ad esercitarti con Ludovico fino a sabato; e se allora il Faina non manca, vivi tranquillo, che tu gli darai la giunta della derrata. [p. 192 modifica] — Come, colonnello, — interrogò Omobono — dubitereste voi che egli venisse?

— Eh! caro mio, a questi lumi di luna non per nulla si è cavaliere.

Il tempo, di cui il bulimo non si attuta mai, divorato appena il venerdì, si era messo in tavola il sabato, ed a stento un po’ di bruzzo faceva capolino dalla parte di oriento, quando la carrozza, giusta il convenuto, si fermò all’uffizio del Gingillino; salirono in essa il Faina (nonostante ogni dimostrazione degli amici, carico di un fascio di spade e di sciabole avute in presto dalla questura) e i suoi padrini: prima cura del pro’ cavaliere fu abbassare le stole, e ciò fa notato anco dal cocchiere, il quale eoi capo accennò di approvare; chiuso lo sportello, via a corsa. Adesso parve al Faina, che s’ingegnava sbirciare gli oggetti dalle tendine scostate, di essere giunto alla porta, e si apponeva in questo, che ad una porta egli era, sicchè con un gran battere di cuore aspettava la fermata, la intimazione dello arresto et reliqua: pareva a lui cotesto suo tiro magnifico, come quello che lo cavava fuori dallo impiccio anco con onore agli occhi dei suoi testimoni, tenuti al buio di quella tale sua visita al questore.

— Carrozza Sagrati! — gridò il cocchiere passando di tutta corsa sotto la porta. [p. 193 modifica]

— Lascia passare, — rispondeva lo ispettore dal casotto delle guardie doganali: e il cocchiere fasciando di una brava frustata il collo dei cavalli, proseguiva più veloce che mai.

— Come! Come! Come! — guaiava il Faina. — Che tradimento è questo?.... non dovevano fermare la carrozza? Non frugarla? Massime così di mattino?

Ed il Luridi a posta sua osservava:

— Certo, fa specie anche a me, ma lo ispettore sarà stato imbeccato dal marchese.

— Non si doveva lasciare imbeccare: qui sotto gatta ci cova: gli ordini erano precisi..... m’informerò bene io dello ispettore..... lo perseguiterò a morte nel giornale e fuori, e giuro a Dio non mi fermerò finchè non lo abbia ridotto ad accattare insieme alla sua famiglia.

— Lascia stare il cane che dorme; come sai, danno del pubblico non ce n’è stato, che roba da gabella non portiamo noi; e badiamo a non farci altre stincature, — parlava il Luridi, fiutando l’aria, ormai ritroso di spencolarsi più oltre pel Faina; il quale si coperse con le mani la faccia bagnata di freddo sudore, e maligno com’era incominciò a sospettare della fede dei compagni: — Poveri (egli abbacava nel suo cervello) crivellati da debiti, essi si vendono per necessità, ed anco per boria di comparire, però che essi si sentano così abbietti, che quando taluno li ricerca in compra, se ne tengano [p. 194 modifica] come di onore. Ah! li disegnava a pennello colui che disse: «Giuda vendè un Cristo per trenta denari, ed essi per un denaro solo venderebbero trenta Cristi: dove mai salissero sur un fico, non ci monterebbero già, come Giuda, per impiccarcisi, bensì per cogliervi i fichi maturi e mangiarseli.» E così avrebbe chi sa por quanto continuato, se la coscienza, come il cane da pastore insegue il lupo, non gli correva dietro gridando: e tu, mascalzone, non sei dei loro?

— Bono arrivati! — disse il marchese tacendosi allo sportello, il quale aperto, ed aiutati i sopraggiunti a scendere, soggiunse: — Favoriscano qui in casa; l’aria pungo stamane, e penso non tornerà loro sgradevole confortarsi lo stomaco con una refezioncella.

Assentirono, in silenzio si ristorarono, ed in silenzio si condussero poi sopra un prato dietro la villa. Il Faina ed i compagni suoi non si diedero altramente pensiero delle armi che avevano seco loro portate, onde il colonnello si trasse innanzi con un mazzo di fioretti senza bottoni, forbiti e nuovi, affinchè i testimoni scegliessero o facessero scegliere al Faina; scelsero essi, che costui se ne stava come una cosa balorda; poi uniti insieme esaminarono il pratello cosparso di uno strato di finissima sabbia; e comecchè ogni sassolino ne fosse stato [p. 195 modifica] remosso, pure ne scansarono qualche altro che parve loro malo sopra gli altri sporgente: ancora si condussero in certa stanza terrena per assicurarsi se il cerusico si fosse ammannito per ogni evento, e trovarono com’egli avesse disteso sopra una tavola il sua armamentario, sarracchi, seghe, di più maniero coltelli, pinzette e pistorini1 di varie dimensioni, viti da comprimere, fila, fasce, cerotti, in un catino apparecchiato il diaccio, in un rammo acqua calda; insomma ogni cosa in punto da morire nelle regole per le mani del cerusico, caso mai non avesse stecchito il duellante sul colpo una botta diritta.

Lieta commedia presentava in cotesto momento il Faina, ora ritirando la gamba dostia od ora la sinistra, quasi avesse sotto i piedi carboni accesi; apriva e chiudeva a vicenda l’uno e l’altro occhio, con le mani annaspava, contorcevasi in atti convulsi, per modo tu lo avresti reputato colto dal male di san Vito.

I padrini di ciò non si accorsero, o, come credo, piuttosto non so no vollero accorgere, e molto gravemente si condussero sul campo: non tirava un alito; il muro della villa, volto ad occidente, rimaneva parato dal sole che allora spuntava, sicchè non ci era da far quistione sul giusto reparto di vento e di luce; Omobono ed il Faina furono posti [p. 196 modifica] una ventina di passi distanti fra loro; il primo con una pace da mettere il ribrezzo della quartana addosso al suo avversario, cavatosi il cappello, la veste e il corpetto, ripiegò tutto per bene; il Faina intirizzito non aveva balìa di moversi; solo ad ogni tratto sbadigliava. Allora il Luridi gli si fece da lato, e non senza durezza gli disse:

— Ed ora che gingilli? Sbrigati a buttare giù i panni e vieni a batterti.

— Io non mi batto.... non mi vo’ battere.... — borbottava fra i denti il Faina come invaso da improvviso furore. — Birboni!... traditori!... lo vedo bene che m’avete tratto alla mazza.... per invidia.... perchè non vi sentite, quanti siete capaci di legarmi le scarpe....

— Per Dio! sei ammattito Faina.... abbassa la voce.... Oh! che vergogna.... che vergogna!....

— Che credete, che io non abbia capito? Voi mi volete arraffare il giornale.... voi ci volete rimanere soli per beccarvi il mensuale delle spese segrete.... soli a godervi le mance del prefetto.... soli, i toccamano del ministro....

— Ma Faina.... via.... senti.... ormai ci siamo tutti per la pelle.... calmati.... piglia il fioretto in mano, dopo due botte o tre, confidati in me, io ti prometto di fare in modo di aggiustare il negozio.... Diavolo! o ch’egli ti abbia ad ammazzare alle prime quattro o sei stoccate! [p. 197 modifica]

— Quattro.... o sei! — continuava a digrignare fra i denti il Faina — alla prima mi passa da parte a parte... Io non mi batto... non mi voglio battere... Sono un vile.... datemi del poltrone, non me ne importa un accidente....

E qui un profluvio di altre parole turpemente smaniose.

Il Luridi, tuttochè luridissimo fosse, stomacato della abiezione di costui, gli ordinò con mal piglio di tacere, e quindi s’incamminava verso i secondi di Omobono per tentare di mettere uno empiastro qualunque sopra tanta bruttezza. Di vero, chiesta ed impetrata nuova conferenza, propose che i duellanti si toccassero la mano, e così s’intendesse senza altro da entrambe le parti rimessa ogni ingiuria: venne scartato il partito; allora il Lurìdi uscì fuori con un’altra composizione; lasciassero andare il Faina pei fatti suoi, e chi ha avuto ha avuto.

— Che sono tutte queste giammengole? — proruppe il colonnello con una faccia, che parea Longino. — Qui non si fila, nè si tesse; voi sapete il debito vostro, o costringete il vostro primo a battersi, od uno di voi, o, so volete, ambedue, padrini del Faina, disponetevi a battervi con noi altri, padrini di Omobono.... a meno che, come già vi dichiarai, il querelante non sottoscriva senza tanti gingilli la scusa che io vi lessi.

— E non cred’ella, signor marchese, nella sua [p. 198 modifica] nerosità, che non avanzi altra via per assettare meno ignominiosamente questa faccenda.

— Veruna.

— E non consentirebbe a modificare in parte i termini della dichiarazione?

— Se si muta una virgola, mi chiamo sciolto da qualunque impegno.

Allora il Luridi, non dandosi per inteso di quella parte del discorso del Sagrati che chiamava i secondi del Faina a sostenere la sua querela, rispose:

— Questi signori ci vorranno essere cortesi di dispensarci dal presentare noi la loro formula di dichiarazione al Faina.

— Volentieri lo faremmo, ma noi non possiamo. Noi non lo conosciamo, e nè lo vogliamo conoscere: voi accettaste il suo mandato, e non vi è concesso ricusarne lo conseguenze: chiamatelo voi, ed al cospetto nostro ditegli il patto col quale gli consentiamo il recesso dalla querela.

— Faina, venite qua — disse il Luridi vòlto a cotesto sciagurato — udite a quali condizioni questi signori renmiziano a mandare innanzi il duello.... voi avreste a sottoscrivere questa dichiarazione. E qui gli pose in mano il foglio, che gli aveva dato il marchese, il quale con mal piglio gli ordinò:

— Leggete forte, che possano sentire tutti.

E il cavaliere Faina lesse tutto di un fiato, senza stringere ciglio, il terribile scritto. [p. 199 modifica] — Ebbene, siete voi disposto a segnarlo?

— Sì, solo vi supplico di una grazia, signori, promettetemi di non pubblicarlo; sarei rovinato, pensate che ho famiglia.

— Noi non promettiamo nulla, anzi protestiamo di volerci valere di questo documento nel modo che ci parrà più vantaggioso agli interessi del nostro signor primo.

Allora il Faina si strinse nello spalle e segnò,

— Potete andare. — E con queste parole e più col cenno il marchese gli fece capire, che si doveva immediatamente levare loro dinanzi. Al Faina pertanto toccò tornarsene pedestre in città; le strade erano tutte motose por una pioggerella caduta nella notte, ed egli diguazzava nel fango inzaccherandosi dietro fino al codione: a vederlo trottare in mezzo alla melma, concio in cotesta maniera, borbottante, gesticolante come matto, i villani, che dal contado venivano in città al mercato, lo straziavano con motti uno più pungente dell’altro.

Il marchese dopo avere trattenuto certo spazio di tempo il Luridi e il suo compagno, porse loro (per volere espresso di Omobono) la dichiarazione sottoscritta dal Faina, ammonendoli severamente:

— Signori, prendete, queste sono carte le quali recano infamia, e molta, a cui le fa, ma non apportano onore a chi lo riceve; e noi non ci gioviamo a valercene. Permettete però che io vi avverta di [p. 200 modifica] procedere un’altra volta più cauti prima di prendere queste gatte a pelare. A noi non piacque in— sistere perchè da voi si adempisse il debito assunto di dare fine colla vostra persona alla sfida, e da questo lato voi siete fuori di pericolo, ma a noi non istà salvarvi dal discredito che vi siete tirato addosso col sostenere le parti di soggetto sì indegno.

Ringraziarono, scusaronsi, e inchinandosi con tutte le curve immaginabili, cotesti secondi, che valevano il loro primo, uscirono di casa dove li attendeva la carrozza: invitati a salire da un servo, salirono, ne ebbero scorso gran tratto di cammino che scopersero da lontano il Faina in contrasto con la belletta; quanto più poterono si trassero indietro nascondendosi per non essere obbligati, almeno per convenienza, ad- accoglierlo in carrozza: egli però, che andava come cane arrabbiato privo di lume, non li scorse, e fu ventura, che altrimenti chi sa che razza di maledizioni avrebbe avventato contro di loro.

Quando Omobono e gli amici suoi tornarono in città non si ricambiarono una sola parola, molto più che videro il colonnello immerso in profonda meditazione, e per quanto pareva, ad argomentarne dai segni esterni, penosa: sul punto di separarsi però, sembrando ad Omobono poterlo fare senza indiscretozza, gli domandò se si sentisse indisposto; alla quale interrogazione il colonnello rispose:

— Di spirito, sì, imperciocchè io pensassi: se tu [p. 201 modifica] scarpicci uno scorpione tutti ti battono le mani e dicono: bravo! Mentre se tu avessi scarpicciato il cavaliere Faina, a questa ora magistrati e sbirri ti correrebbero dietro, come cani da caccia, per agguantarti e conciarti pel dì delle feste. Pensava altresì che se tu ammazzavi il Faina forse ti aspettava la medesima pena che se tu avessi levato dal mondo Cesare Beccaria. Su quale fondamento sputiamo sentenze noi? E sentenze che importano fama, vita e sostanze? Se giudichiamo pel danno che sente la società dalla morte di un suo membro, ci hanno casi nei quali il municipio avrebbe a instituire un premio a cui li leva di mezzo, come fa con gli uccisori del lupo; se invece pigliamo a norma della sentenza la intenzione dell’agente, io davvero sarei lieto di sapere in grazia di quali arnesi un uomo mi apre il cuore e vi legge dentro. Questa nostra società è una campana fessa; così non può andare.

I nostri gentiluomini tacquero, interrogati, risposero ambigui come quelli che andavano convinti davvero veruna gloria venire ad essi da cotesta avventura, e tuttavolta non potè rimanere occulta; troppe le persone che ci avevano preso parte. All’osso dalli addosso: il Faina bandirono da ogni casa, da ogni ritrovo; lo sfuggirono i buoni ed i tristi: i buoni per naturale repugnanza, che volentieri rendono manifesta quante volte lo possano [p. 202 modifica] fare senza fastidio e senza pericoli; i tristi perchè la società loro è società di lupi; finchè sani si aiutano, feriti si mangiano. Ma costui, fasciato, anzi corazzato di sfrontatezza, non lasciava presa; a mo’ che una pianta vecchia schiantata dal torrente, si drizza talora in mezzo del fiume, e par che sfidi le acque grosse che la strascinano, così egli presumeva atteggiarsi a Capaneo della opinione pubblica, e male gl’incolse, ch’egli ebbe a patire le ultime ingiurie per parte dei monelli di piazza, terribili giustizieri di tutte quelle sentenze di morte, le quali invece che con la mannaia si eseguiscono co’ torsoli di cavolo. Non ne potendo proprio più, il cavaliere Faina si raccomandò al questore, perchè lo allontanasse da Milano, o quegli gli rispose come gli antichi baroni agli ospiti, passati i giorni di corte bandita, cioè che stava in potestà sua l’andare e lo stare; ma l’altro diceva:

— E come camperò io, dopo che per servire il Governo mi sono chiusa la via di presentarmi ai galantuomini?

Il questore, consultati in proposito i suoi superiori, gli offerse mandarlo a Trapani guardia di sicurezza.

— A me cavaliere questo oltraggio sanguinoso? urlò il Faina, guai, disse cose da chiodi, minacciò darsi al disperato, avrebbe scoperto gli altarini; teneva buono in mano per far conoscere a insinuazione [p. 203 modifica] di cui aveva calunniato Tizio e messo in mala voce Sempronio. Fatto un po’ di riscontro di cassa, giudicarono prudente evitare gli scandali; quindi gli proposero mandarlo vice-direttore in un penitenziario; anche qui il Faina andò sui mazzi, o finse; taluno gli bisbigliò negli orecchi; ricordasse colui, che per troppo volere, ebbe un carpiccielo di bastonate; il Faina si consolò con lo esempio di Scipione, e nel ridursi in un angolo remoto d’Italia a rodere quella crosta di pane esclamò a sua posta: ingrata patria, non avrai le mie ossa!

GH altri proprietari collaboratori del Gingillino, per quanto si affannassero, tanto non poterono fare che il contágio del Faina anco sopra di loro non si appiccasse. Giornale non letto è ranocchia crepata; il Gingillino uscito dalla mota ritornò nella mota; ma senza pro della morale piubblica, chè di simili giornali non ci ha penuria mai; fecondati dalla malignità umana, come l’ortica nascono, giungono e muoiono per riprodursi più fitti.




Note

  1. Quegli arnesi che si chiamano bistourì si hanno a dire pistorini perchè prima inventati e fabbricati a Pistoia.