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capitolo vii. 213


natura alla setta di coloro che dicono: pochi ma subito. Andando giù in fretta ed alla spensierata avvenne che di uno sconcio spintone urtasse nella spalla destra di un che saliva.

Que diable! si esclamò da una parte: — Pardon, monsieur, dall’altra. — Ma tanto presto non potè comporsi cotesta faccenda, che urtante ed urtato non avessero agio di considerarsi bene al lume del lampione.

Omobono vide un cosaccio mal tagliato, creatura da caserma, fatto a tacche col coltello; di colore del vino puro, co’ pomelli delle gote rilevati a mo’ del cane da presa, e il naso in su come cane da fermo, il quale fiuti per l’aria l’onore militare: difatti cotesta attitudine gli veniva dal collare rigido ed alto, il quale costumano cani e soldati; gli enormi baffi su ritti per le guancie parevano due granatini di stipa, e la barbetta una coda di cavallo da barroccio cresciutagli sul mento, gli occhi tondi e strabuzzanti da destare nei bambini una sedizione di vermini: insomma un orco. Vestiva soprabito, secondo il costume soldatesco, abbottonato fino alla gola, dall’ultimo occhiello del quale un nastro rosso, forse per la vergogna, si affacciava peritoso quasi dicesse fra se: Mi mostro, o non mi mostro? Di vero egli era, a modo della testuggine, destinato a uscire dal guscio ovvero a ritirarcisi dentro: però a lode del nastro vuoisi confessare