Della pittura e della statua/Della pittura - Libro secondo

Della pittura - Libro secondo

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Leon Battista Alberti - Della pittura e della statua (1804)
Traduzione dal latino di Cosimo Bartoli (XVI secolo)
Della pittura - Libro secondo
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DELLA PITTURA

di

LEONBATISTA ALBERTI.


libro secondo.

Ma perchè questo studio dello imparare potrà forse parere troppo faticoso a’ giovani, perciò mi par da mostrar in questo luogo quanto la Pittura sia non indegna da potervi mettere ogni nostro studio ed ogni nostra diligenza. Conciossiachè ella ha in se una certa forza divina tal che non solo ella fa quel che dicono, che fa l’amicizia, che ci rappresenta in essere le persone che sono lontane, ma ella ci mette innanzi agli occhi ancora coloro, che già molti e molti anni sono son morti, talchè si veggono con grandissima maraviglia del Pittore, e dilettazione di chi li riguarda. Racconta Plutarco che Cassandro uno de’ Capitani di [p. 37 modifica]Alessandro nel vedere la effigie del già morto Alessandro, conoscendo in essa quella maestà regale cominciò con tutto il corpo a tremare. Dicono ancora che Agesilao Lacedemoniese sapendo di esser bruttissimo, non volle che la sua effigie fosse veduta da’ descendenti, e perciò non li piacque mai esser nè dipinto, nè scolpito da nessuno. Sicchè i volti de’ morti vivono in un certo modo una lunga vita, mediante la Pittura. E che la Pittura ci abbi espresso gli Dii, che sono reveriti dalle genti, è da pensare che ciò sia stato un grandissimo dono concesso a’ mortali. Conciossiachè la Pittura ha giovato troppo grandemente alla religione, mediante la quale noi siamo principalmente congiunti agli Dii, ed al perseverare gli animi con una certa intera religione. Dicono che Fidia fece in Elide un Giove, la bellezza del quale aggiunse assai alla già conceputa religione. Ma quanto la Pittura giovi agli onoratissimi piaceri dell’animo, e quanto ornamento ella arrechi alle cose, si può d’altronde e da questo principalmente vedere, che tu non troverai quasi per lo più cosa alcuna benchè preziosa, che per l’accompagnatura della Pittura non diventi molto più cara, e molto più pregiata. L’avorio, le gemme, e le così fatte cose pregiate, diventano, mediante la mano del Pittore, più preziose. L’oro stesso ancora adornato dalla Pittura, è stimato molto più che l’oro. Anzi non [p. 38 modifica]che altro il piombo più di tutti gli altri metalli vilissimo, se Fidia o Prassitele ne avessero con le lor mani fatto una statua, saria per avventura tenuto più in pregio, che non sarebbe altrettanto argento rozzo e non lavorato. Zeusi Pittore aveva incominciato a donare le sue cose, perchè come ei diceva, elle non si potevano pagare con qualsivoglia prezzo. Conciossiachè egli giudicava che non si potesse trovar prezzo alcuno, che potesse soddisfare a colui che nel dipignere, o scolpire gli animali, fosse quasi che uno altro Dio infra i mortali. Ha queste lodi adunque la Pittura, che coloro che ne sono maestri, non solamente si maravigliano delle opere loro, ma si accorgono essere similissimi agli Dii. Che dirò io che la Pittura è o la maestra di tutte le arti, o almanco il principale ornamento? Imperocchè lo Architettore, se io non m’inganno, ha preso dal Pittor solo le cimase, i capitelli, le base, le colonne, le cornici, e tutte le altre così fatte lodi degli edifizj. Imperocchè il Pittore mediante la regola e l’arte sua ha insegnato, e dato modo agli scarpellini, agli scultori, ed a tutte le botteghe de’ fabbri, de’ legnajuoli, e di tutti coloro che lavorano di fabbriche manuali, talchè non si ritroverà finalmente arte alcuna, benchè abiettissima, che non abbi riguardo alla Pittura, onde io ardirò di dire che tutto quel che è di ornamento nelle cose, sia cavato dalla Pittura. Ma [p. 39 modifica]principalmente fu dagli antichi onorata la Pittura di questo onore, che essendo stati chiamati quasi la maggior parte degli altri arteficiFonte/commento: Pagina:Alberti - Della pittura e della statua, Milano, 1804.djvu/172 Fabbri appresso de’ Latini, il Pittor solo non fu annoverato infra i Fabbri. Le quali cose essendo così, io son solito di dire infra gli amici miei che lo inventore della Pittura fu, secondo la sentenza de’ Poeti, quel Narciso che si convertì in fiore. Perciocchè essendo la Pittura il fiore di tutte le arti, ben parrà che tutta la favola di Narciso sia benissimo accomodata ad essa cosa. Imperocchè, che altra cosa è il dipingere, che abbracciare e pigliare con l’arte quella superficie del fonte? Pensava Quintiliano che i Pittori antichi fossero soliti a disegnare le ombre, secondo che il Sole le porgeva, e che poi l’arte sia di mano in mano con aggiugnimenti accresciuta. Sono alcuni che raccontano che un certo Filocle Egizio, ed un Cleante, nè so io quale, fossino i primi inventori di quest’arte. Gli Egizj affermano che appresso di loro era stata in uso la Pittura sei mila anni prima che ella fosse trasportata in Grecia, ed i nostri dicono che ella venne di Grecia in Italia dopo che Marcello ebbe le vittorie di Sicilia. Ma non importa molto il sapere i primi Pittori, o gli inventori della Pittura. Conciossiachè noi non vogliamo raccontare l’istoria della Pittura come Plinio, ma nuovamente trattare dell’arte. Della quale sino a questa età non ce n’è [p. 40 modifica]memoria alcuna lasciataci che io abbi vista dagli scrittori Antichi: Ancor che ei dicono che Eufranore Ischimio scrisse non so che delle misure e de’ colori: E che Antigono e Xenocrate scrissono alcune cose delle Pitture, e che Apelle ancora messe della Pittura alcune cose insieme, e le mandò a Perseo. Racconta Laerzio Diogene che Demetrio Filosofo ancora scrisse alcuni commenti della Pittura. Oltra di questo io stimo ancora che essendo da’ nostri passati state messe in scritto tutte le buone arti, che la Pittura ancora non fosse stata lasciata in dietro da’ nostri scrittori Italiani. Imperocchè furono in Italia antichissimi gli Etruschi, valorosissimi più di tutti gli altri nell’arte della Pittura. Crede Trimegisto antichissimo scrittore che la Pittura e la Scoltura nascessero insieme con la religione, imperocchè egli disse così ad Asclepio: La umanità ricordevole della natura e dell’origine sua, figurò gli Dii dalla similitudine del volto suo. E chi fia quello che nieghi, che la Pittura non si sia attribuita a se stessa in tutte le cose, così pubbliche, come private, così secolari, come religiose, tutte le più onorate parti? talchè non troverò artificio alcuno appresso de’ mortali che da ciascuno ne sia fatto conto maggiore. Raccontansi pregi quasi incredibili delle tavole dipinte. Aristide Tebano vendè una Pittura sola, cento talenti, cioè, sessanta mila fiorini. Raccontano che la tavola di [p. 41 modifica]Protogene fu cagione che Rodi non fosse abbruciato dal Re Demetrio, perchè non voleva che detta tavola ardesse. Possiamo adunque affermare, che Rodi fu riscattato dagli inimici per una sola Pittura. Sonosi messe insieme, oltre a queste, molte altre cose simili, per le quali potrai comodamente intendere, che i buoni Pittori sono stati sempre grandemente lodati, ed avuti in pregio da ciascuno, talchè nobilissimi, e prestantissimi Cittadini, ed i Filosofi, ed i Re si son dilettati non solo delle cose dipinte, ma del dipignere ancora. Lucio Manilio Cittadino Romano, e Fabio in Roma uomo nobilissimo furono Pittori. Turpilio Cavaliere Romano dipinse in Verona. Sitedio Pretore, e Proconsole si acquistò nome con il dipingere. Pacuvio Poeta Tragico, nipote di Ennio Poeta, nato della figliuola, dipinse nella piazza Ercole. Socrate, Platone, Metrodoro, e Pirro filosofi, furono eccellenti nella Pittura. Nerone, Valentiniano, ed Alessandro Severo Imperatori, furono studiosissimi del dipingere. Saria cosa lunga raccontare quanti Principi, e quanti Re sono stati inclinati a questa nobilissima arte. E non è ancora ragionevole stare a raccontare tutta l’infinita moltitudine de’ Pittori antichi, la quale quanto sia stata grande, si può vedere da questo; che in manco di quattrocento giorni furono del tutto finite a Demetrio Valerio figliuolo di Fanostrate, trecento sessanta [p. 42 modifica]statue, parte sopra i lor cavalli, parte sopra i carri, e parte sopra i cocchi. E se in quella Città fu tanto il gran numero degli Scultori, staremo noi in dubbio che non vi fossero Pittori infiniti? Sono veramente la Pittura e la Scoltura arti congiunte insieme di parentado, e nudrite da un medesimo ingegno. Ma io anteporrò sempre l’ingegno del Pittore, come quello che si affatica in cosa molto più difficile. Ma torniamo a proposito. Infinita fu la moltitudine de’ Pittori, e degli Scultori in quei tempi, conciossiachè i Principi, ed i plebei, i dotti, e gli ignoranti si dilettavano della Pittura. E costumandosi infra le prime prede che essi conducevano delle Provincie, a metter in pubblico nel Teatro le tavole, e le statue, la cosa andò tanto innanzi, che Paulo Emilio, ed alcuni altri non pochi Cittadini Romani, fecero insegnare ai figliuoli per bene, e beatamente vivere insieme con le buone arti, la Pittura. Il quale ottimo costume appresso de’ Greci si osservava grandissimamente, che i giovanetti nobili e liberi bene allevati, imparavano insieme con le lettere la geometria, e la musica, e l’arte ancora del dipignere. Anzi la facoltà del dipignere fu ancora cosa onorata alle donne. È celebrata dagli Scrittori Marzia figliuola di Varrone, perchè ella seppe dipignere. E fu certamente in tanto pregio, e degna di tanta lode la Pittura appresso de’ Greci, che ei vietarono [p. 43 modifica]per pubblica deliberazione, che non fosse lecito a’ servi imparare la Pittura; nè questo veramente senza ragione, imperocchè l’arte del dipignere è veramente degnissima degli animi liberali e nobilissimi: e quanto a me è paruto sempre uno indizio di ottimo ed eccellente ingegno quello di colui che io ho saputo che si diletti grandemente della Pittura. Ed è questa arte sola quella che parimente diletta grandemente ed a’ dotti ed agli ignoranti, la qual cosa non occorre mai in alcun’altra arte, che quella cosa che diletta a quei che sanno, commuova ancora gli ignoranti. E non troverai nessuno che facilmente non desiderasse grandemente di aver fatto profitto nella Pittura. Ed è manifesto ch’essa natura si diletta nel dipignere. Conciossiachè noi veggiamo che la natura figura ne’ marmi i centauri, ed i volti de’ Re con le barbe. Anzi dicono che in una gioja di Pirro, vi fur dipinte dalla natura stessa le nove Muse con le loro insegne. Aggiugni a queste cose che ei non è quasi arte nessuna, nella quale gli uomini che sanno, e quei che non sanno, nell’impararla e nell’esercitarla si affatichino con tanto diletto tutto il tempo della vita loro, più che in questa. Siami lecito di dire quel che interviene a me: se mai accade che per mio piacere e per mio diletto io mi metta a dipignere, il che io fo’ molto spesso, quando mi avanza tempo dalle altre faccende, io sto fisso [p. 44 modifica]con tanto mio piacere a far quell’opera che a gran pena posso credere che io vi sia stato tanto che sieno già passate tre o quattro ore: sicchè quest’arte apporta seco diletto, mentre che tu la onorerai, e lodi e ricchezze, e fama perpetua mentre che tu la farai eccellentissimamente. La qual cosa essendo così, poi che la Pittura è un ottimo ed antichissimo ornamento delle cose, degna d’uomini liberi, grata a’ dotti ed agli indotti, conforto quanto maggiormente posso gli studiosi giovani, che per quanto ei possono, diano grandemente opera alla Pittura. Dipoi avvertisco coloro che sono studiosissimi della Pittura, che vadino dietro ad imparare essa perfetta arte del dipignere, non perdonando nè a fatica, nè a diligenza alcuna. Siavi a cura, voi che cercate esser eccellenti nella Pittura, la prima cosa, il considerare che nomi e che fama si acquistarono gli antichi. E vi gioverà di ricordarvi che sempre l’avarizia è stata inimica alla lode ed alla virtù. Conciossiachè l’animo intento al guadagno, rare volte acquisterà il frutto della posterità. Io ho veduti alcuni quasi in su ’l bello dello imparare, subito essersi dati al guadagno, e perciò non hanno poi acquistatosi nè ricchezze nè fama alcuna, i quali se avessero con lo studio avvezzato l’ingegno, sarebbon facilmente diventati famosi, laonde ne avrebbon cavato ricchezze e diletto: pertanto sia di loro insino a qui detto abbastanza. Or [p. 45 modifica]torniamo a proposito. Noi dividiamo la Pittura in tre parti, la qual divisione abbiamo cavata da essa natura. Imperocchè ingegnandosi la Pittura di rappresentarci le cose vedute, consideriamo in che modo, esse cose venghino alla veduta nostra. Principalmente quando noi squadriamo qualche cosa, noi veggiamo quella cosa esser un certo che, che occupa luogo. E il Pittore circonscriverà lo spazio di questo luogo; e questo modo del tirare i dintorni con vocabolo conveniente chiamerà circonscrizione. Dopo questo nel guardare noi consideriamo in che modo si congiunghino insieme le diverse superficie del veduto corpo infra di loro, e disegnando il Pittore questi congiugnimenti delle superficie a lor luoghi, potrà e bene chiamarlo il componimento. Ultimamente nel guardare noi discerniamo più distintamente i colori delle superficie, e perchè il rappresentamento di questa cosa nella Pittura, riceve quasi sempre tutte le sue differenze dai lumi, comodamente noi potremo ciò chiamare il ricevimento de’ lumi. I dintorni adunque, il componimento, ed il ricevimento de’ lumi fanno perfetta la Pittura. Restaci adunque a trattare di quelle cose brevissimamente, e prima de’ dintorni, ovvero della circonscrizione, la quale è quel tirare che si fa con le linee a torno a torno de’ dintorni, da’ moderni detto disegno. In questo dicono che Parrasio Pittore, quello che [p. 46 modifica]Senofonte introduce a parlare con Socrate, fu eccellentissimo. Perciocchè ei dicono ch’egli considerò sottilissimamenle le linee. Ed in questo disegno penso che principalmente si abbia a procurare, ch’egli si faccia con linee sottilissime, e che al tutto non si discernino dall’occhio, siccome dicon che soleva fare Apelle Pittore nello esercitarsi, e combattere a chi più sottili le faceva, con Protogene. Imperocchè il disegno non è altro, che il tirare de’ dintorni; il che se si farà con linee che apparischino troppo, non parranno margini delle superficie in essa Pittura, ma parranno alcune fessure. Dipoi io desidererei che nel disegno non si andasse dietro ad altro che al circuito de’ dintorni. Nel qual disegno io affermo che ei bisogni esercitarvisi veementemente. Conciossiachè nessuno componimento, nessuno ricevimento di lumi mai sarà lodato se non vi sarà disegno. Anzi il disegno solo, il più delle volte, è gratissimo. Diasi adunque opera al disegno, e ad imparar benissimo questo non credo che si possa trovar cosa alcuna più accomodata, che quel velo che io infra gli amici miei soglio chiamare il taglio, il modo dell’usare il quale sono stato io il primo che lo abbi trovato, ed è così fatto. Io tolgo un velo di fila sottilissime, tessuto rado, e sia di qualsivoglia colore, questo divido io di poi con fila alquanto più grosse, facendone quadri quanti mi piace sopra un te[p. 47 modifica]lajo tutti uguali, e lo metto infra l’occhio e la cosa da vedersi, acciò che la piramide visiva penetrando passi per le rarità del velo. Ha veramente questo taglio del velo in se non poche comodità: la prima cosa, egli li rappresenta sempre le medesime superficie immobili, conciossiachè postivi una volta i termini, troverai subito la primiera punta della piramide, con la quale tu incominciasti; il che senza questo taglio del velo è cosa veramente difficilissima. E sai quanto sia impossibile nel dipignere, mutarsi rettamente alcuna cosa, perchè non mantiene perpetuamente a chi dipigne il medesimo aspetto e veduta: e da questo avviene che più facilmente si assomigliano quelle cose che si ritraggono dalle cose dipinte, che quelle che si ritraggono dalle sculture. Sai ancora oltra di questo, quanto essa cosa veduta, paja alterata, mediante il mutamento dell’intervallo, o della positura del centro. Pertanto il velo o la rete li arrecherà questa non piccola utilità che la cosa sempre li si appresenterà alla vista la medesima. L’altra utilità, è che tu potrai collocare facilmente nel dipignere la tua tavola, in luoghi certissimi, i siti de’ dintorni, ed i termini delle superficie. Imperocchè vedendo tu in quella maglia della rete la fronte, ed in quella che li è a canto, il naso, e nella più vicina poi le gote, in quella disotto il mento, e tutte le altre cose così fatte, disposte a’ loro [p. 48 modifica]luoghi; potrai medesimamente collocarle bellissimo sulla tua tavola o nel muro scompartiti ancor essi con una rete uguale a quella. Ultimamente questa rete o velo porge grandissima comodità ed ajuto a dar perfezione alla Pittura; perciocchè tu vedrai essa cosa rilevata e gonfiata disegnata, e dipinta in quella pianura della rete. Mediante le quali cose, possiamo facilmente e per il giudizio e per l’esperienza conoscere, quanta utilità ne presti essa rete, a bene e perfettamente dipignere. Nè mi piacciono coloro che dicono che ei non è bene che i Pittori si assuefaccino a queste cose, le quali sebbene arrecano grandissimo ajuto al dipignere, sono nondimeno tali, che senza esse, un Pittore a gran pena potrà mai far da se stesso cosa alcuna. Conciossiachè noi non ricerchiamo che il Pittore, se io non m’inganno, abbi a durare una fatica infinita; ma lodiamo quella Pittura che ha gran rilievo, e che ci paja molto simile a’ corpi che ella ha a rappresentare. La qual cosa certamente non so io vedere in che modo possa riuscire ad alcuno pur mediocremente senza l’ajuto della rete. Servinsi adunque di questo taglio, cioè di questa rete coloro che si affaticano di far profitto. Che se pure saranno alcuni che senza rete si dilettin di esperimentare l’ingegno, procaccinsi con la vista questa stessa regola delle maglie, tal che sempre quivi si immaginino esser [p. 49 modifica]tagliata una linea a traverso, da un’altra fatta a piombo, laddove essi statuiranno il termine guardato nella Pittura. Ma perchè il più delle volte a’ Pittori non pratichi appariscon dubbj ed incerti i dintorni delle superficie, come interviene ne’ volti, ne’ quali non discernono talvolta in qual luogo principalmente sieno terminate le tempie della fronte, perciò bisogna insegnar loro, in che modo e’ possino imparare a concoscere questa cosa. La natura veramente ce lo insegna benissimo. Perciocchè, siccome noi veggiamo nelle superficie piane, che son belle quando elle hanno i loro propri lumi, e le loro proprie ombre, così nelle superficie sferiche e concave ci pare che elle stieno bene quando che elle quasi divise in più superficie hanno diverse macchie di ombre e di lumi. Tutte le parti adunque ciascuna da per se che hanno differenti lumi e differenti ombre, si hanno a considerare come altrettante superficie; che se una veduta superficie continuerà dalla sua ombra mancando a poco a poco sino al suo maggior lume, si deve allora segnare con una linea il mezzo che è infra l’uno spazio e l’altro, acciò che si abbi manco dubbio della regola che tu avrai a tenere nel colorire lo spazio. Restaci a trattare ancora qualche cosa del disegno; il che si aspetta non poco veramente al componimento: però è ben sapere, che cosa sia il componimento nella Pittura. È [p. 50 modifica]veramente il componimento quel modo o regola nel dipignere, mediante la quale tutte le parti si compongono insieme nell’opera della Pittura. Grandissima opera del Pittore è l’istoria: le parti dell’istoria sono i corpi: le parti del corpo sono le membra: le parti delle membra, sono le superficie. Ed essendo il disegno, quella regola o modo del dipignere, mediante il quale disegnano i dintorni a ciascuna delle superficie, e delle superficie essendone alcune piccole, come quelle degli animali, ed alcune grandissime come quelle de’ colossi e degli edificj; del disegnare le superficie piccole bastino quegli ammaestramenti che si son detti sino a qui. Conciossiachè ei si è dimostro come elle si disegnano bene con la rete. Ma nel disegnare le superficie maggiori ci bisogna trovare altra regola. Per il che ci bisogna ridurre alla memoria tutte quelle cose che si sono insegnate di sopra delle superficie, de’ razzi, della piramide, del taglio. Finalmente tu ti ricordi di quel che io dissi delle linee paralelle, dello spazzo o pavimento, e del punto centrico, e della linea. Sopra del pavimento adunque disegnato con le linee paralelle, si hanno a rizzare le alie de’ muri, e qual altre cose simili si vogliano, che noi chiamiamo superficie ritte. Dirò adunque brevemente quel che io fo nel rizzare queste cose. La prima cosa io mi incomincio da essi fondamenti, e disegno nel pavimento [p. 51 modifica]la larghezza e la lunghezza delle mura; nel disegnare la qual cosa io ho imparato dalla natura, che da una veduta sola non si può vedere più che due superficie congiunte insieme ritte dal piano di qualsivoglia corpo quadrato fatto ad angoli a squadra. Nel disegnare adunque i fondamenti delle mura, io osservo questo di tirare solamente quelle facce o lati, che mi si appresentano alla veduta. E la prima cosa io comincio dalle superficie che mi sono più vicine, e da quelle massime che sono parimente lontane dal taglio. Pertanto io disegno queste innanzi alle altre, e delibero mediante esse linee paralelle disegnate nel pavimento, quanto io voglio che esse mura sieno lunghe e larghe. Imperocchè io piglio tante paralelle quanto io voglio che elle siano braccia, e piglio il mezzo delle paralelle della scambievole intersegazione di ciascun diametro di esse paralelle. Sicchè per questa misura delle paralelle, io disegno benissimo la larghezza e la lunghezza in esse mura che si rilevano di sul piano. Di poi conseguisco da questo non difficilmente ancora l’altezza delle superficie. Imperocchè quella misura che è infra la linea centrica e quel luogo del pavimento d’onde incomincia a rilevarsi la quantità dell’edificio, tutta quella quantità osserverà la medesima misura. E se tu vorrai che cotesta quantità che è dal pavimento alla cima, sia per quattro tante quanto la [p. 52 modifica]lunghezza dell’uomo dipinto, e la linea centrica sarà posta all’altezza dell’uomo, saranno veramente allora dalla più bassa parte della quantità insino alla linea centrica tre braccia. Ma tu che vuoi che questa quantità cresca sino alle dodici braccia, tira allo in su per tre volte quella quantità che è dal da basso sino alla linea centrica. Possiamo adunque mediante le regole addotte del dipignere, disegnare bene tutte le superficie angolari (Tav. II. Fig. 5.). Restaci a trattare del disegnare con i loro dintorni le superficie circulari. Le superficie in cerchio veramente si cavano dalle angolari; il che io fo in questo modo. Io disegno dentro ad un quadrangolo di lati uguali, e di angoli a squadra un cerchio, e divido i lati di questo quadrangolo in altrettante parti, in quante fu divisa la linea di sotto del quadrangolo in la Pittura, e tirando le linee delle divisioni da ciascun punto di esse all’altro a lui opposto, riempio quello spazio di piccoli quadrangoli, e sopra vi disegno un cerchio quanto io lo voglio grande, di maniera che esso cerchio e le paralelle scambievolmente si interseghino insieme, e noto i luoghi di tutti i punti delle intersegazioni, i quai luoghi segno ancora in esse paralelle del pavimento disegnato in Pittura, o Prospettiva. Ma perchè sarebbe una fatica estrema intersegare con spessissime, e quasi infinite paralelle tutto il cerchio, fino a [p. 53 modifica]tanto, che con un numeroso segnamento di punti si continuerebbe il dintorno del cerchio; e però io noto solo con otto, o con quante più mi piaceranno intersegazioni, e dipoi tiro mediante l’ingegno la circonferenza o ambito del cerchio alli già segnati termini. Forse sarebbe strada più breve, disegnar questo dintorno all’ombra di lucerna, pur che il corpo, che causasse l’ombra, ricevesse il lume con regola certa, e fosse posto al suo luogo (Tav. II. Fig. 6.). Sicchè noi abbiam detto, come mediante gli ajuti delle paralelle si disegnino le superficie maggiori angolari, e circolari. Finito di trattare adunque di ogni sorte di disegno ci resta a trattare del componimento. È veramente il componimento quella regola del dipignere, mediante la quale le parti si compongono insieme nel lavoro della Pittura. La maggior opera che faccia il Pittore, non è una statua grande quanto un colosso, ma è una istoria: conciossiachè si trova maggior lode d’ingegno in un’istoria, che in un colosso. Le parti dell’istoria sono i corpi, le parti de’ corpi sono le membra, e le parti delle membra sono le superficie, perchè di queste si fanno le membra, delle membra i corpi, de’ corpi l’istoria, della quale si fa quell’ultima, veramente e perfettamente finita opera del Pittore. Dal componimento delle superficie, ne nasce quella leggiadria e quella grazia, che costoro chiamano bellezza. [p. 54 modifica]Conciossiachè quel viso che avrà alcune superficie grandi e alcune piccole, che in un luogo eschino troppo infuori, e nell’altro si nascondin troppo addentro, come si vede ne’ visi delle vecchie, sarà questo a vedersi certamente cosa brutta. Ma in quella faccia, nella quale le superficie saranno di maniera congiunte insieme, che i dolci lumi si convertino a poco a poco in ombre soavi, e non vi saranno alcune asprezze di angoli, questa chiameremo noi a ragione faccia bella, e che ha venustà. Adunque in questo componimento delle superficie bisogna andar investigando grandemente la grazia e la bellezza. Ma in che modo noi possiamo ottener questo, io non ho trovata via più certa, che andar a considerare la natura stessa, e però guardiamo diligentissimamente e per lungo tempo, in che modo la natura maravigliosa artefice delle cose, abbi composte le superficie nelle bellissime membra. Nello imitare la quale bisogna esercitarsi con tutti i pensieri e diligenze nostre, e dilettarsi grandemente, come dicemmo della rete. E quando noi avremo poi cavate le superficie da bellissimi corpi, e le avremo a mettere in opera, delibereremo sempre la prima cosa i termini, mediante i quali noi possiamo tirare le linee a’ luoghi loro destinati. Basti aver detto infino a quì del componimento delle superficie (Tav. II. Fig. 7.). Resta che noi diciamo del componimento de’ membri. [p. 55 modifica]Nel componimento de’ membri la prima cosa bisogna procurare che tutte le membra fra loro sieno proporzionate. Dicesi che elle sono bene proporzionate, quando esse corrispondono e quanto alla grandezza, e quanto all’officio, e quanto alla specie, e quanto a’ colori, ed alle altre cose simili, se alcune più ce ne sono, alla bellezza ed alla maestà. Che se in alcuna figura sarà un capo grandissimo, un petto piccolo, una mano molto grande, un piè enfiato, un corpo gonfiato, questo componimento in vero sarà brutto a riguardarlo. Bisogna adunque, quanto alla grandezza, tenere una certa regola nel misurare, la quale giova molto nel dipignere gli animali; andar la prima cosa esaminando con l’ingegno, quali sieno l'ossa, che essi hanno, imperocchè queste, perchè elle non si piegano, occupano sempre una sede e luogo certo: dipoi bisogna porre a’ luoghi proprj i nervi, ed i muscoli loro, ed ultimamente vestire di carne, e di pelle le ossa, ed i muscoli. Ma in questo luogo ei saranno forse di quelli che mi riprenderanno, perchè io ho detto di sopra, che al Pittore non si aspetta alcuna di quelle cose, che non si veggono. Diranno veramente costoro bene; ma come nel vestire bisogna disegnar prima sotto l’ignudo, il qual poi noi vogliamo involger a torno di vestimenti, così nel dipignere uno ignudo, bisogna prima disporre e collocare a’ luoghi loro le ossa [p. 56 modifica]ed i muscoli, quali tu abbi poi per ordine a coprire di carne e di pelle talmente, che non difficilmente si abbi a conoscere in qual luogo sieno situati essi muscoli: ma perchè avendo essa natura esplicate tutte queste misure e postecele innanzi agli occhi, lo studioso Pittore troverà non piccola utilità in riconoscere quelle medesime con la fatica sua da essa natura. E però gli studiosi piglino questa fatica, acciocchè tutto quel che di studio e di opera essi avranno posto in riconoscere la proporzione delle membra, ei conoschino avergli giovato a tenere ferme nella memoria quelle cose che essi avranno imparate. Avvertiscoli nondimeno la prima cosa di questo, che nel misurare lo animale ci si pigli qualcuno de’ membri di esso stesso animale, per il quale si misurino tutte le altre membra. Vitruvio Architettore misura la lunghezza dell’uomo con i piedi. Ma io penso che sia cosa più degna, se le altre membra si rapporteranno alla quantità del capo. Ancor che io ho considerato che per lo più è quasi comune negli uomini, che tanta è la misura del piede, quanto è dal mento a tutta la testa: sicchè preso uno di questi membri, tutte le altre si hanno ad accomodare a questo; talmente che non sia membro alcuno in tutto lo animale, che per lunghezza, o larghezza non corrisponda agli altri. Oltra di questo si ha ad aver cura, che tutte le membra faccino gli [p. 57 modifica]officj loro, per quel che elle son fatte. È conveniente ad un che corre, pittar le mani non meno che i piedi, ma un Filosofo che facci un’orazione, vorrei io che in ogni suo membro fosse più modesto, che un giuocatore. Demon Pittore espresse Oplicite in un combattimento talmente che tu diresti che egli sudasse, ed un altro che posava talmente le armi, che tu diresti, ei ripiglia a pena il fiato. Fu ancora chi dipinse Ulisse di maniera, che tu riconosceresti in lui non la vera, ma la finta, e simulata pazzia. Lodasi, appresso de’ Romani, l’istoria nella quale Meleagro è portato via morto, e coloro che lo portano, pajono che si dolghino, e con tutte le membra si affatichino, ed in colui che è morto, non vi è membro alcuno, che non appaja più che morto, cioè ogni cosa casca, le mani, le dita, il capo, ogni cosa languida ciondola. Finalmente tutte le cose convengono insieme ad esprimere la morte del corpo; il che è la più difficile di tutte le cose. Imperocchè il rassimigliare le membra oziose in ogni parte in un corpo, è cosa di eccellentissimo maestro, siccome è il far che tutte le membra vive faccino qualche cosa. Adunque in ogni Pittura si deve osservare questo, che qualunque si sieno membra taccino di maniera l’officio per il che esse son fatte, che nessuna arteria, ben che minima, manchi dell’officio suo, talmente che le membra de’ morti paino a [p. 58 modifica]capello tutte morte, e quelle de’ vivi tutte vive. Allora si dice che un corpo vive, quando da sua posta ei faccia qualche moto. E morto dicono che è quando le membra non posson più esercitare gli officj della vita, cioè il moto ed il senso. Adunque quelle immagini de’ corpi che il Pittore vorrà che apparischino vive, farà che in queste tutti i membri mettino in atto i loro moti, ma in ogni moto bisogna andar dietro alla bellezza ed alla grazia. E sono grandemente vivaci e gratissimi quei moti de’ corni, che alzandosi vanno verso l’aria. Oltra di questo dicemmo che nel comporre le membra bisognava aver riguardo alla specie. Imperocchè saria cosa molto disconveniente, se le mani di Elena o di Ifigenia apparissino mani di vecchie o di contadine; o se a Nestore si facesse un petto da giovane, o una testa dilicata; o se a Ganimede si facesse una fronte piena di crespe, o le gambe da un giocatore di braccia; o se a Milone robustissimo più di tutti gli altri si facessero i fianchi smilzi e sottili. Oltra di questo ancora in quella immagine che avrà il volto pieno e grassotto come si dice, sarà cosa brutta far che se li vegga le braccia e le mani strutte e consumate dalla fame. E per il contrario chi dipingesse AchemenideFonte/commento: Pagina:Alberti - Della pittura e della statua, Milano, 1804.djvu/172 in quel modo e con quella faccia che Virgilio dice esser stato trovato da Enea nell’Isola, se le altre membra non corrispondessero a quella magrezza, [p. 59 modifica]sarebbe certo tal Pittore ridicolo e pazzo. Oltra di questo vorrei che si corrispondessero fra loro ancor di colore. Imperocchè quelle immagini che hanno i volti a guisa di rose, bellissimi, e rugiadosi, non è conveniente che abbino i petti e le altre membra scure ed orribili. Adunque nel componimento de’ membri abbiamo detto abbastanza quel che si deve osservare quanto alla grandezza, all’officio, alla specie, ed a’ colori. Conciossiachè ei bisogna che ogni cosa corrisponda, secondo la verità della cosa. E non è conveniente fare una Venere, o una Minerva vestita di pitocco; nè fare un Giove, o un Marte vestiti di una veste da donna, saria conveniente. I Pittori antichi nel dipignere Castore e Polluce avvertivano che oltre a che e’ paressero nati ad un corpo, in uno nondimeno si scorgesse una natura più robusta, nell’altro una più agile. Oltra di questo volevano che Vulcano sotto le sue vesti apparisse zoppicante. Tanto era lo studio che essi ponevano nello esprimere le cose secondo l’officio, la specie, e la dignità loro. Seguita il componimento de’ corpi nel quale consiste tutto l’ingegno e tutta la lode del Pittore; del qual componimento si son dette alcune cose attenenti al componimento de’ membri. Imperocchè ei bisogna che quanto all’officio ed alla grandezza tutti i corpi si accordino insieme nell’istoria. Conciossiachè se tu dipignessi in un convito i [p. 60 modifica]Centauri che tumultuassero insieme, sarebbe cosa da pazzi, in tanto sfrenato e bestiale tumulto che vi fosse alcuno che addormentato mediante il vino diacesse. Oltra di questo sarebbe ancora difetto se gli uomini in uguale distanza apparissero maggiori questi che quelli, come che se in pittura si facessero i cani grandi quanto i cavalli. E non sarebbe ancor poco da vituperare, che io veggo il più delle volte dipinti in uno edificio gli uomini come che rinchiusi in un forziere, nel quale cappiono a gran pena a sedere, o ristretti in un cerchio. Tutti i corpi adunque debbon confarsi, mediante la grandezza e mediante l’officio, a quella cosa per la quale son fatti. Ma l’istoria che ragionevolmente sia da lodare e guardare con maraviglia, bisogna che sia tale che con alcuni allettamenti si dimostri esser tanta dilettevole ed ornata, che intrattenga lungamente gli occhi di coloro che sanno, e di quei che non sanno, con piacere, e con dilettazione dell’animo. La prima cosa che nell’istoria arreca, e ti porge piacere, è essa copia e varietà delle cose. Imperocchè siccome ne’ cibi, e nella musica sempre la nuova ed inusitata abbondanza, sì forse per le altre cose, sì ancora diletta non senza maraviglia per quella causa che è diversa, e differente dalle cose antiche e consuete; così in ogni varietà di cose, ed in ogni abbondanza l’animo si compiace, e diletta. E perciò [p. 61 modifica]nella Pittura la varietà de’ corpi, e de’ colori è gioconda. Io dirò che quell’istoria è copiosissima nella quale a’ lor luoghi saranno mescolati insieme vecchi uomini, giovani, putti, matrone, fanciulle, bambini, animali domestici, cagnoletti, uccelletti, cavalli, pecore, edificj, e provincie; e loderò qualsivoglia abbondanza, pur che ella si confaccia alla cosa che quivi si vuol rappresentare. Conciossiachè egli avviene che riguardando, nel considerar le cose, consuman ivi più tempo, e l’abbondanza e ricchezza del Pittore acquista grazia. Ma io vorrei che questa abbondanza fosse adorna, e prestasse di se una certa varietà, grave, e moderata, mediante la dignità, e la reverenza. Io non lodo quei Pittori i quali per parere copiosi, e perchè non voglion che nelle cose loro vi rimanga punto di voto, perciò non vanno dietro a componimento alcuno, ma seminano ogni cosa scioccamente e confusamente, per il che non par che l’istoria rappresenti quel che ella vuol fare, ma che tumultui: e forse che per la dignità dell’istoria si avrà da imparar principalmente la solitudine. Imperocchè siccome in un Principe il parlar poco arreca maestà, pur che s’intendino i sensi delle parole, ed i comandamenti, così in un’istoria un ragionevol numero di corpi arreca dignità, e la varietà arreca grazia. Io ho in odio nell’istoria la solitudine, nientedimeno non lodo anco l’abbondanza che disconvenga alla [p. 62 modifica]dignità. Anzi nell’istoria solo grandemente quel che io veggo esser stato osservato da’ Poeti, tragici e da’ Comici, ei rappresentino con manco numero di persone la favola loro: e veramente secondo il giudizio mio non bisognerà riempire un’istoria di tanta varietà di cose, ch’ella non possa degnamente esser composta di nove o dieci uomini. Siccome io giudico che a questo si appartenga quel detto di Varrone, il quale volendo schifare nel convitare il tumulto, non invitava mai più che nove. Ma essendo in qualunque istoria, gioconda la varietà, quella Pittura nondimeno è grata a tutti, nella quale le positure e le altitudini de’ corpi sono fra loro molto differenti. Stieno adunque da essere sguardati tutti in faccia, con le mani alte, e con le dita risplendenti, posati sopra uno delli piedi. Altri stieno con la faccia in profilo, e con le braccia a basso e con piedi del pari, e ciascuno abbia da per se i suoi piegamenti e le sue attitudini. Altri stieno a sedere o inginocchioni, o quasi a diacere: sieno alcuni ignudi se ciò è convenienteFonte/commento: Pagina:Alberti - Della pittura e della statua, Milano, 1804.djvu/172; alcuni altri per il mescolamento dell’una e dell’altra arte vi siano parte ignudi e parte vestiti, ma abbisi sempre cura all’onestà ed alla reverenza. Conciossiachè le parti vergognose del corpo, e le altre simili che hanno poco del grazioso, cuoprinsi o con panni, o con frondi, o con le mani. Apelle dipigneva solamente quella parte della faccia di [p. 63 modifica]Antigono, dalla quale non appariva il difetto dell’occhio. Ed Omero quando desta Ulisse nel naufragio dal sonno, per non fare che egli andasse ignudo per la selva dietro alla voce delle donne, si legge, che diede a quell’uomo una delle fronde degli arbori, acciò che si coprisse le vergogne. Raccontano che Pericle aveva un capo lungo e brutto, e però da’ Pittori, e da’ Scultori non fu fatto mai a capo scoperto, come gli altri, ma sempre con la celata in testa. Oltra di questo Plutarco racconta che i Pittori antichi usavano nel dipignere i Re, se egli avevano difetto alcuno quanto alla forma loro, non volevano che ei paresse che essi lo avessero lasciato indietro, ma salvata la somiglianza lo emendavano quanto più potevano. Questa modestia e questa reverenza, desidero io che in tutta l’istoria si osservi, acciò che le cose oscene o si lassino da parte, o si emendino. Finalmente come io dissi penso che sia da affaticarsi che in nessuna immagine si vegga il medesimo gesto, o la medesima attitudine. Farà oltra di questo l’istoria stare gli spettatori con gli animi attenti, quando quegli uomini che vi saranno quieti, rappresenteranno grandissimamente i moti degli animi loro. Imperocchè ei avviene dalla natura, della quale non si trova cosa alcuna che sia più capace, nè che ci tiri più delle cose simili, che noi piangiamo con chi piange, ridiamo con chi ride, e ci [p. 64 modifica]condogliamo con chi si rammarica. Ma questi moti dell’animo si conoscono, mediante i moti del corpo. Imperocchè noi veggiamo, come i melanconici, perchè ei sono afflitti dai pensieri e stracchi dalla infermità, come ei sono per modo di dire aggranchiati di tutti i sensi e forze loro, e come ei si stanno lenti lenti con le membra pallide e che quasi cascano loro. Imperocchè coloro che si rammaricano, hanno veramente la fronte bassa, il capo languido, e tutte le altre membra finalmente come stracche, ed abbandonate gli cascano. Ma gli stizzosi perchè gli animi se gli accendono per la stizza, e la faccia e gli occhi gli gonfiano, e gli diventano rossi; ed i moti di tutti i membri, mediante il furore della stizza, sono velocissimi e fieri. Ma quando noi siamo lieti ed allegri, allora abbiamo i moti sciolti e grati mediante alcune attitudini. È lodato Eufranore, che in Alessandro egli dipinse talmente il volto di Paride, e la faccia, nella quale tu facilmente potevi riconoscerlo e giudice delle Dee, ed innamorato di Elena, ed insieme ammazzatore di Achille. Maravigliosa lode è ancora quella di Dacmone Pittore, che nelle sue tavole potevi riconoscere esservi l’iracondo, l’ingiusto, l’incostante, e insieme ancora l’esorabile ed il clemente ed il misericordioso ed il glorioso e l’umile, ed il feroce. Ma infra gli altri raccontano che Aristide Tebano pari ad Apelle, espresse [p. 65 modifica]grandemente questi moti dell’animo: i quali è cosa certa che noi ancora potremo molto ben fare quando noi porremo in questa cosa quello studio e quella diligenza che ci si conviene. Bisogna adunque che il Pittor sappia eccellentemente le altitudini ed i moti del corpo, i quali io giudico che si abbino a cavare dal naturale con infinita diligenza. Imperocchè la cosa è difficilissima mediante gli infiniti moti dell’animo, per i quali si variano ancora i moti del corpo. Oltre di questo chi credeia, se non chi ne ha l’atto l’esperienza, che egli è difficilissimo quando tu vorrai dipignere un viso che rida, schifar quello per il quale egli parrà più tosto piangere che ridere? Oltra di questo chi sarà quello che possa senza grandissimo studio e diligenza esprimere i volti, ne’ quali e la bocca, ed il mento, e gli occhi e le guance e la fronte e le ciglia si confrontano ed uniscono insieme ed al pianto ed al riso? E perciò bisogna diligentissimamente andarle ritrovando dal naturale, ed imitar sempre le cose più pronte. E principalmente si debbon dipignere quelle cose le quali lascino agli animi più da pensare, che quelle che si veggon dagli occhi. Ma raccontiamo noi alcune cose, che noi abbiamo fabbricate con il nostro ingegno quanto alle attitudini, e parte ancora imparate da essa natura. La prima cosa io credo che ei bisogni che tutti i corpi infra di loro si muovino, [p. 66 modifica]con una certa grazia e convenienza, verso quella cosa della quale si tratta. Oltre di questo mi piace che nell’istoria sia qualcuno che avvertisca gli spettatori chiamandogli con la mano a vedere quelle cose che quivi si fanno, ovvero come che ei voglia che quel negozio sia segreto, minacci con volto crudele e con occhi spaventosi che tu non ti accosti là, o li dimostri quivi essere qualche gran pericolo, o qualche cosa maravigliosa; o che con i suoi gesti li inviti o a ridere seco, o forse a piangere. Finalmente egli è di necessità che tutte quelle cose che essi fanno infra di loro, e con coloro ancora che le guardano, concorrino a fare ed a dimostrare l’istoria. È lodato Timante di Cipro in quella tavola, nella quale ei vinse Colloteico, perchè avendo fatto Calcante melanconico, fece più melanconico Ulisse: e perchè nel dipignere Menelao addoloratissimo egli vi aveva posto tutto l’ingegno e consumata tutta l’arte sua, avendo consumati tutti gli affetti, non trovando modo da poter dipignere il viso dell’addoloratissimo padre, involse il capo di quello in un panno per lasciare in lui più di quel se li potesse discernere nel viso, del dolore che aveva nell’animo. Lodasi la nave in Roma, nella quale Giotto nostro Pittore Toscano, espresse talmente gli undici spaventati, e stupefatti discepoli, mediante il compagno che camminava sopra le onde del mare, che ciascuno da per se [p. 67 modifica]dava particolare indizio del turbato animo suo, e con le attitudini del corpo ancora tali che ciascuno rappresenta variamente spavento che essi hanno. Ma è conveniente trapassar via brevemente tutto questo luogo de’ moti. Imperocchè dei moti ne sono alcuni dell’animo, i quali dai dotti son chiamati passioni, come è l’ira, il dolore, l’allegrezza, il timore, il desiderio e simili: ne sono ancora degli altri che sono de’ corpi. Imperocchè ei si dice che i corpi si muovono in molti modi, cioè quando ei crescono, o quando egli scemano, ovvero quando essendo sani cascano in infermità, o quando dalle infermità ritornano alla sanità; quando anco si mutano di luogo, e per simili altri casi si dice che si muovono i corpi. Ma noi Pittori che mediante i moti de’ membri vogliamo esprimere gli affetti degli animi, lasciate tutte le altre dispute da parte, tratteremo solo di quel moto, che noi diremo che si sia fatto quando si sarà mutato il luogo. Tutte le cose che si muovono di luogo, hanno sette viaggi da muoversi; imperocchè o elle si muovono allo in su, o allo in giù, o verso la destra, o verso la sinistra, o discostandosi o avvicinandosi a noi, ed il settimo viaggio è quando elle si muovono girando a torno. Tutti questi moti adunque desidero io che sieno nella Pittura. Sianvi alcuni corpi che venghino in verso noi, alcuni altri se ne discostino, [p. 68 modifica]verso la destra ed altri verso la sinistra. Oltra di questo mostrinsi alcune parti di essi corpi a rincontro di chi le riguarda, alcune tornino indietro, alcune si alzino allo in su, alcune si abbassino. Ma perchè nel disegnare questi moti si passa alcuna volta la regola e l’ordine, mi piace in questo luogo raccontare alcune cose del sito e de’ moti de’ membri, che io ho cavate dal naturale, acciocchè si vegga manifesto con che modestia ci abbiamo a servire di essi moti. Io certamente ho veduto nell’uomo, che in ogni sua attitudine egli sottopone tutto il corpo al capo, membro più di tutti gli altri gravissimo. Oltra di questo se uno si reggerà con tutto il corpo sopra di un piede solo, sempre esso piede, come se fosse basa della colonna, viene a piombo sotto al capo, e quasi sempre il volto di colui che sta sopra un piè, guarda in quella parte verso la quale è a diritto il piede. Ma i movimenti del capo ho io avvertito che mai sono a gran pena tali verso una delle parti, che egli non abbia sempre sotto di se alcune parti del resto del corpo, dalle quali sia retto il gran peso, ovvero che ei non distenda verso l’altra parte qualche altro membro a guisa di una parte della bilancia che lo contrappesi. Imperocchè noi veggiamo il medesimo quando qualcuno distesa la mano sostiene qualche peso, che con l’altro piede come che si sia fermo il fuso della bilancia, si [p. 69 modifica]ferma all’incontro con tutta l’altra parte del corpo per contrappesar il peso. Io ho avvertito che il capo di uno che sta ritto in piede, non si volta mai più su, che per quanto ei vegga con gli occhi il mezzo del cielo, nè si volge anco mai in alcun degli lati più che tanto quanto che il mento gli batterà sopra le ossa delle spalle; ed in quella parte del corpo che noi ci cinghiamo, a gran pena ci volgiamo mai tanto che la spalla venga per diritta linea sopra il bellico. I moti delle gambe e delle braccia sono alquanto più liberi, purchè non impedischino le altre oneste parti del corpo, ed in queste ho considerato nella natura che le mani per lo più non si alzano sopra il capo, nè il gomito sopra le spalle, nè si alza il piede sopra il ginocchio, nè il piede si allontana mai dal piede, se non per lo spazio di un piede. Ho veduto oltra di questo, che, se noi alzeremo in alto alcuna delle mani, tutte le altre parti di quel lato insino al piede van seguitando quel moto, talchè sino al calcagno di quel piede si rileva dal pavimento, mediante il moto di esso braccio. Sono infinite cose simili a queste, le quali avvertirà il diligente maestro, e forse quelle che io ho racconte insino a qui, sono così manifeste insino ad ora, che possono parere superflue. Ma non le ho lasciate indietro perchè io ho visti molti errare in [p. 70 modifica]questa cosa grandemente. Le attitudini ed i moti troppo sforzati esprimono e mostrano in una medesima immagine, che il petto e le reni si veggono in una sola veduta, il che essendo impossibile a farsi, è ancora inconvenientissimoFonte/commento: Pagina:Alberti - Della pittura e della statua, Milano, 1804.djvu/172 a vedersi. Ma perchè questi tali senton che quelle immagini pajono maggiormente più vive, quanto più fanno sforzate attitudini di membra, però sprezzata ogni dignità della Pittura, vanno imitando in ciò quei moti de’ giocolatori. Laonde non solo le opere loro sono ignude, e senza grazia, o leggiadria alcuna, ma esprimono ancora il troppo ardente ingegno del Pittore. Debbe la Pittura aver moti soavi e grati, e convenienti a quel che ella vuole rappresentare. Apparisca nelle fanciulle il moto e l’abitudine venerabile, l’ornamento leggiadro e semplice condecente all’età, la positura sua abbi piuttosto del dolce, e del quieto, che dell’atto all’agitazione; ancor che ad Omero dietro al quale andò Zeusi, piacque ancora nelle femmine una bellezza gagliardissima. Apparischino ne’ giovanetti i moti più leggieri e più giocondi, che dien segno di animo e di forze valorose. Apparischino negli uomini i moti più fermi, ed attitudini belle, atte ad un veloce menar di braccia. Ne’ vecchi apparischino tutti i moti tardi, e siano esse attitudini stracche, talchè non solo si regghino [p. 71 modifica]sopra amendue i piedi, ma si appoggino a qualche cosa con le mani: e finalmente riferischinsi secondo la dignità di ciascuno tutti i moti del corpo a quegli affetti degli animi, che tu vorrai rappresentare. Dipoi finalmente egli è di necessità che le significazioni delle grandissime passioni degli animi apparischio e si esprimino grandissimamente in essi corpi. E questa regola de’ moti, e delle attitudini, è molto comune in qualsivoglia sorte di animali. Conciossiachè non sta bene, che un bue che serve ad arare, faccia le medesime attitudini, che il generoso cavallo di Alessandro, Bucefalo. Ma quella tanto celebrata figliuola di Inaco, che fu convertita in Vacca, dipigneremo forse noi comodamente, come che ella corra con la testa alta, con i piedi alzati, e con la coda torta. Basti avere scorse queste cose brevemente de’ moti degli animali. Ma perchè io penso, che tutti questi moti, de’ quali abbiamo parlato, sieno ancora necessarj quanto alle cose inanimate, nella Pittura, io penso che sia bene trattare in che modo esse si muovono. Imperocchè i moti e de’ capelli, e delle chiome, e de’ rami, e delle frondi, e delle vesti espressi nella Pittura dilettano ancora essi. Io certamente desidero, ch’essi capelli rappresentino tutti sette quei moti che io ho racconti. Imperocchè avvolghinsi in giro facendo un nodo, sparghinsi in aria imitando le fiamme, [p. 72 modifica]vadino ora serpeggiando sotto altri capelli, ora si rilievino in verso questa e quell’altra parte. Sieno ancora i piegamenti de’ rami ed i lor concavi con arco verso l’alto; parte ritornino in dentro, parte si avvolghino a guisa di fune. E questo medesimo accaggia nelle pieghe de’ panni, che siccome da un troncone di un albero nascono in diverse parti molti rami, così da una piega naschino molte pieghe, come dal troncone i rami, ed in queste medesimamente si vegghino tutti i moti, talchè non vi sia alcuna piega di panno nella quale non si ritrovino quasi tutti i detti moti. Ma sieno tutti i moti, il che io avvertisco spesso, moderati e dolci, e mostrino piuttosto di loro grazia che maraviglia della fatica. Ma poi che noi vogliamo che i panni sieno atti a’ moti, ed essendo i panni di lor natura gravi, e che continuamente cascando piombano a terra, e perciò sfuggono ogni piegamento; bene perciò si porrà nella Pittura, la faccia di zefiro o di austro, che soffi infra i nugoli ad una punta dell’istoria, dalla quale tutti i panni venghino spinti verso la contraria parte: dalla qual cosa ne verrà ancor quella grazia che quei lati de’ corpi, che saranno battuti dal vento, perchè i panni si accosteranno per il vento a’ corpi, essi corpi appariranno quasi ignudi sotto il velamento del panno: e dalle altre parti i panni agitati dal vento faranno pieghe, inondando [p. 73 modifica]nell’aria, bellissime. Ma in questo battimento del vento bisogna guardarsi, che nessun moto di alcun panno venga contro al vento, e che le pieghe non sieno troppo taglienti, nè troppo rotte. Queste cose adunque che si son dette de’ moti degli animali, e delle cose inanimate, si debbono grandemente osservar da’ Pittori, e mettersi tutte l’altre cose ancora diligentemente ad esecuzione, che si son dette di sopra del componimento delle superficie de’ membri, e de’ corpi. Sicchè noi abbiam determinate due parti della Pittura, il disegno, ed il componimento. Restaci a trattare de’ ricevimenti de’ lumi. Ne’ primi principj si dimostrò abbastanza che forza abbino i lumi in variare i colori. Perciocchè stando fermi i generi de’ colori, noi insegnammo in che modo essi parevano ora più chiari, ed ora più scuri, secondo l’applicamento de’ lumi, o delle ombre, e che il bianco ed il nero erano quei colori, mediante i quali noi nella Pittura esprimiamo i lumi e le ombre: e che gli altri colori sono da essere stimati per la materia, con i quali si aggiunghino le alterazioni de’ lumi, e dell’ombre. Adunque lasciate le altre cose a dietro dobbiamo dichiarare in che modo il Pittore si ha da servire del bianco, e del nero. Maravigliaronsi i Pittori antichi che Polignoto e Timante si servissero solo di quattro colori, e che Aglaofone si dilettasse di un solo colore, come che se in [p. 74 modifica]tanto numero che ci pensava essere dei colori, fosse poco che quegli ottimi Pittori ne avessero messi sì pochi in uso, dove giudicano che ad un copioso maestro si appartenga metter in opera qualsivoglia moltitudine di colori. Io veramente affermo, che la varietà e l’abbondanza de’ colori arreca molta grazia, e molta leggiadria alla Pittura. Ma io vorrei che i valenti Pittori giudicassero che si debbe porre ogni industria ed ogni arte nel disporre e collocar bene il bianco ed il nero, e che in collocar questi bene, e ben accomodargli, si deve por tutto l’ingegno, e qualsivoglia estrema diligenza. Imperocchè siccome l’avvenimento de’ lumi e dell’ombre fa che ei si vede in qual luogo le superficie si rilievino, ed in quali elle sfondino, e quanto ciascuna delle parti declini, o si pieghi; così l’accomodar bene del bianco e del nero fa quello che era attribuito a lode a Nizia Pittore Ateniese, e quel che la prima cosa ha da desiderare il maestro, che le sue Pitture apparischino di gran rilievo. Dicono che Zeusi nobilissimo ed antichissimo Pittore, fu quasi il primo che seppe tener questa regola de’ lumi e delle ombre. Ma agli altri non è attribuita questa lode. Io certamente non penserò che nessuno sia, non che altro Pittore mediocre, che non sappia molto bene che forza abbi ciascuna ombra e ciascun lume in tutte le superficie. Io loderò quei volti dipinti, con [p. 75 modifica]buona grazia de’ dotti e degl’ignoranti, i quali come che di rilievo paja che eschino fuori di esse tavole, e per il contrario biasimerò quegli ne’ quali non si vedrà forse punto di arte, se non ne’ dintorni. Io vorrei che il componimento fosse ben disegnato ed ottimamente colorito. Adunque perchè ei non sieno vituperati, e perchè ei meritino di esser lodati, la prima cosa debbono segnare diligentissimamente i lumi e le ombre, e debbono considerare che in quella superficie sopra la quale feriscono i razzi de’ lumi, esso colore sia quanto più si può chiaro e luminoso, e che oltra di questo mancando a poco a poco la forza de’ lumi vi si metta a poco a poco il colore alquanto più scuro. Finalmente bisogna avvertire in che modo corrispondino le ombre nella parte contraria a’ lumi; che non sarà mai superficie di alcun corpo che sia per lumi chiara, che nel medesimo corpo tu non ritrovi la superficie a quella contraria che non sia coperta, e carica di ombre. Ma per quanto appartiene imitare i lumi con il bianco, e le ombre con il nero, io ti avvertisco che tu ponga il principale studio in conoscere quelle superficie che son tocche o dal lume, o dall’ombra. Questo imparerai tu bene dalla natura e dalle cose stesse: e quando finalmente tu conoscerai benissimo queste cose, altererai il colore entro a’ suoi dintorni al suo luogo quanto più parcamente potrai con [p. 76 modifica]pochissimo bianco, e nel luogo suo contrario aggiugnerai parimente in quello istante un poco di nero. Imperocchè con questo bilanciamento, per dir così, del bianco e del nero, il rilievo apparisce maggiore. Dipoi continua con gli accrescimenti con la medesima parsimonia sino a tanto che tu ti conosca aver guadagnato tanto che basti. E ti sarà veramente a conoscer questo un ottimo giudice lo specchio. E non so io in che modo le cose dipinte abbino una certa grazia nello specchio, purchè elle non abbino difetto. Oltra di questo è cosa maravigliosa, quanto ogni difetto nella Pittura apparisca più brutto nello specchio. Emendinsi adunque le cose ritratte dal naturale, mediarne il giudizio dello specchio. Ma siami qui lecito raccontare alcune cose che io ho tratte dalla natura. Io ho veramente considerato, come le superficie piane mantenghino in ogni luogo di loro stesse uniforme il loro colore; ma le tonde e le concave variano i colori; perciocchè dall’una parte son chiare, e dall’altra scure, ed in un altro luogo mantengono un colore mezzano. E questa alterazione del colore nelle superficie non piane, arreca difficoltà a’ Pittori infingardi: ma se il Dipintore segnerà bene, come dicemmo, i dintorni delle superficie, e separerà, le sedie de’ lumi, gli sarà facile allora il modo e la regola del colorire. Imperocchè egli da prima andrà alterando o con il bianco o [p. 77 modifica]con il nero quella superficie secondo che bisognerà, insino alla linea della divisione, quasi come che sparga una rugiada: dipoi spargerà per dir così un’altra rugiada oltre alla linea, e dopo questa un’altra oltre a questa, e dopo quella aggiugnendovene sopra un’altra, gli verrà fatto che il luogo del lume sarà illuminato di più chiaro colore, e dipoi il medesimo colore, quasi come fumo sfumerà nelle parti che gli sono contigue. Ma bisogna ricordarsi che nessuna superficie si debbe far mai tanto bianca, che tu non possa far la medesima più candida. Nello esprimere ancora esse vesti bianche bisogna ritirarsi molto dall’ultima candidezza. Imperocchè il Pittore non ha cosa alcuna eccetto che il color bianco, con il quale ei possi imitare gli ultimi splendori delle pulitissime superficie, ed ho trovato solamente il negro, con il quale egli possa rappresentare le ultime tenebre ed oscurità della notte. E però nel dipignere le vesti bianche, bisogna pigliare uno de’ quattro generi de colori, che sia aperto e chiaro: e per il contrario far quel medesimo nel dipignere un panno nero, servirsi dell’altro estremo, perchè non è molto lontano dall’ombra, come se noi pigliassimo del profondo e negreggiante mare. Finalmente ha tanta forza questo componimento del bianco e del nero, che fatto con arte e con regola dimostra in Pittura le superficie d’oro e d’argento, e di vetro [p. 78 modifica]splendidissime. Sono adunque da esser grandemente vituperati quei Pittori che si servono del bianco intemperatamente, e del nero senza alcuna diligenza. E per questo vorrei io che dai Pittori fosse comperato il color bianco più caro che le preziosissime gemme. Sarebbe veramente bene che il bianco ed il nero si facesse di quelle perle di Cleopatra, che ella inteneriva con l’aceto, acciocchè essi ne diventassero più avari. Imperocchè le opere sarebbono più leggiadre, e più vicine alla verità: nè si può così facilmente dire, quanto bisogna che sia la parsimonia ed il modo nel distribuire il bianco, ed il nero nella Pittura. Per questo soleva Zeusi riprendere i Pittori, perchè ei non sapevano che cosa fosse il troppo. Che se ei si debbe perdonare alli errori, son manco da esser ripresi coloro che troppo profusamente si servon del nero, che quegli che troppo intemperatamente usano il bianco. Noi abbiamo imparato mediante l’uso del dipignere che essa natura ha in odio l’un di più che l’altro la oscurità e l’orrido, e continuamente quanto più sappiamo, tanto più rendiamo la mano inchinata alla grazia ed alla leggiadria. Così naturalmente tutti amiamo le cose chiare, ed aperte. Adunque ci bisogna riserrar la strada da quella banda donde la via del peccare ci è più aperta. Queste cose bastino che insino a qui si son dette del servirsi del bianco, e del nero. [p. 79 modifica]Ma quanto a’ generi de’ colori bisogna ancora avervi una certa regola. Seguita adunque che si raccontino alcune cose de’ generi de’ colori. Non come diceva Vitruvio Architettore, racconteremo dove si trovi il buon cinabro o i colori lodatissimi; ma in che modo gli sceltissimi, e ben macinati colori si abbino a mescolare e farne le mestiche nella Pittura. Dicono che Eufranore Pittore antico scrisse alcune cose de’ colori; ma questi scritti non ci sono. Ma noi che abbiamo renduta alla luce quest’arte della Pittura, o come descritta già da altri, richiamatala dagli dii infernali, o come non mai descritta da nessuno, condottala con l’ingegno nostro insin qui dal Cielo, tiriamo dietro secondo l’ordine nostro, siccome abbiamo fatto sin qui. Io vorrei che i generi, e le spezie de’ colori, per insino a quanto si potesse fare, si vedessero con una certa grazia, e leggiadria nella Pittura. Allora vi sarà la grazia quando i colori saranno presso a’ colori posti con una certa estrema diligenza; come che se tu dipignessi Diana che guidasse un ballo, saria cosa conveniente vestir la Ninfa che le fosse più appresso, di panni, o drappi verdi, l’altra di bianchi, l’altra poi di rossi, e l’altra di gialli. Ed oltra questo, che mediante la diversità di così atti colori elle sieno vestite talmente, che sempre i colori chiari si congiunghino con alcuni colori oscuri di diverso genere da [p. 80 modifica]quello con cui si congiungono. Imperocchè quel congiugnimento de’ colori, si procaccia mediante la varietà, maggior vaghezza, e mediante la comparazione maggior bellezza. Ed è veramente infra i colori una certa amicizia, che congiunti l’un con l’altro accrescono la vaghezza, e la bellezza. Se si mette il color rosso in mezzo allo azzurro ed al verde, sveglia all’uno, ed all’altro un certo scambievole decoro: il color candido non solamente posto al lato al cenerognolo, ed al giallo, ma quasi arreca a tutti i colori allegrezza. I colori oscuri stanno non senza dignità infra i chiari, e medesimamente i chiari si collocano bene infra gli oscuri. Disporrà adunque il Pittore per l’istoria quella varietà di colori che noi abbiam detta. Ma ci sono alcuni che si servon dell’oro senza alcuna modestia, perchè ei pensano che l’oro arrechi una certa maestà all’istoria: io veramente non gli lodo. Anzi se io vorrò dipignere quella Didone di Virgilio, che aveva la faretra d’oro, e le chiome legale in oro, e la veste con i legami, e con lo cinto d’oro, e che era portata da cavalli con freni d’oro, e che tutte le cose risplendevano d’oro; io nondimeno m’ingegnerò d’imitare con i colori piuttosto che con l’oro quella grande abbondanza de’ raggi d’oro, che percuota da ogni banda gli occhi de’ riguardanti. Imperocchè essendo maggior la lode, e maggior la maraviglia del [p. 81 modifica]maestro ne’ colori, si può ancora vedere che messo l’oro in una tavola piana, come la maggior parte delle superficie che ci bisognava rappresentarle chiare e splendenti, appariscano a’ riguardanti oscure, ed alcune altre che forse doveriano esser più adombrate, ci si mostrano più luminose. Gli altri ornamenti de’ maestri che si aggiungano alla Pittura, come sono le colonne, le base, e le cornici che se li fanno attorno di scoltura, non biasimerò io, se elle non che altro saranno d’argento o d’oro massiccio, o almanco molto pulito. Imperocchè una perfetta, e ben condotta istoria, sarà degnissima pegli adornamenti delle gemme. Insino a qui abbiamo brevissimamente dato fine alle tre parti della Pittura. Noi abbiam trattato del disegno delle superficie minori, e maggiori. Abbiam detto del componimento de’ membri e de’ corpi, e de’ colori ancora quel tanto che abbiamo giudicato appartenersi all’uso del Pittore. Essi adunque dichiarata tutta la Pittura, la quale abbiam detto di sopra che consiste in queste tre cose, nel disegno, nel componimento, e nel ricevimento de’ lumi.