Della pittura e della statua/Della pittura - Libro terzo
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Traduzione dal latino di Cosimo Bartoli (XVI secolo)
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DELLA PITTURA
di
LEONBATISTA ALBERTI.
libro terzo.
Ma per ordinare un perfetto Pittore,
talmente ch’ei possa acquistarsi tutte quelle
lodi che si sono racconto, ci restano ancora
a dire alcune cose, le quali io non
penso che si debbino lasciare in questi miei
commentari indietro: le racconterò più brevemente
che mi sarà possibile. L’officio
del Pittore è, dileguare e colorire qualunque
gli si proponghino corpi in una superficie
con linee, e colori di maniera, che
mediante un certo intervallo, ed una certa
determinata positura del razzo centrico, tulle
le cose, che si vedranno dipinte, appariscano
di rilievo, e somigliantissime alle proposteci cose. La fine del Pittore è, cercar
di acquistarsi lode, grazia, e benevolenza,
mediante le opere sue, piuttosto che
ricchezze. Ed otterrà questo mentre la sua
pittura intratterrà, e commoverà gli occhi
e gli animi de’ riguardanti. Le quali cose
come si possino fare, e per qual via, si
disse quando si disputò del componimento,
e del ricevimento de’ lumi. Ma io desidero
che il Pittore, acciocchè ei sappia ed intenda
bene tutte queste cose, sia uomo e
buono, e dotto delle buone arti. Imperocchè
ei non è alcuno che non sappia
quanto la bontà possa assai più che la maraviglia
di qualsivoglia industria o arte,
ad acquistarsi la benevolenza de’ cittadini.
Oltra questo non è alcuno che dubiti che
la benevolenza giova ad un maestro grandissimamente
ad acquistarsi laude, ed a
procacciarsi ricchezze. Perciocchè da questa
benevolenza avviene, che talvolta i ricchi,
sono mossi a dar guadagno principalmente
a questo modesto, e buono, lasciando da
parte un altro che ne sa più, ma che è
forse manco modesto. Le quali cose essendo
così, il maestro dovrà aver gran
diligenza a’ costumi, ed alla creanza, e
massimamente all’umanità ed alla benignità,
mediante le quali cose ei possa procacciarsi
e la benevolenza fermo presidio contra
alla povertà, e guadagno ottimo ajuto
a poter condur le opere a perfezione. Desidero
veramente che il Pittore sia quanto ei più può dotto, in tutte le arti liberali,
ma principalmente desidero che ei sappia
geometria. Piacemi quel che diceva Panfilo
antichissimo, e nobilissimo Pittore, dal
quale i giovanetti nobili primieramente impararono
la Pittura; imperocchè egli diceva,
che nessuno poteva mai essere buon.
Pittore, che non sapesse geometria. Veramente
i nostri primi ammaestramenti, dai
quali si cava tutta l’assoluta e perfetta arte
della Pittura, sono facilmente intesi dal
Geometra. Ma chi non ha notizia di essa,
non posso io credere che intenda i nostri
ammaestramenti, nè abbastanza ancora alcune
regole della Pittura. Adunque io affermo
che i Pittori non si hanno a far
beffe della geometria. Di poi non sarà fuor
di proposito, se noi ci diletteremo de’ Poeti,
e de’ Rettorici. Imperocchè costoro hanno
molti ornamenti a comune con i Pittori.
Nè veramente gli gioveranno poco per ordinare
eccellentemente il componimento dell’istoria,
quei copiosi letterati che avranno
notizia di molte cose, la qual lode consiste
tutta principalmente nell’invenzione. Conciosiachè
ella ha questa forza, che essa
sola invenzione, senza la Pittura, diletta.
Lodasi mentre che si legge, quella descrizione
della Calunnia, che Luciano racconta
essere stata dipinta da Apelle, ed il raccontarla
non credo che sia fuor di proposito,
per avvertire i Pittori, che ci bisogna
che ei vegghino, in trovare e metter insieme così fatte invenzioni. Eravi veramente
un uomo che aveva duo grandissimi orecchi,
intorno al quale stavano due donne,
la Ignoranza, e la Sospizione; dall’altra
parte arrivando essa Calunnia, che aveva
forma di una donnetta bella, ma che in
volto pareva pur troppo maliziosa, ed astuta,
teneva nella man sinistra una face accesa,
e con l’altra mano tirava per i capelli
un giovanetto, il quale alzava le mani al
Cielo. La guida di costui era un certo
uomo pallido, e magro, brutto, e di aspetto
crudele, il quale tu assomigliaresti ragionevolmente
a coloro che la lunga fatica
avesse consumati in un fatto d’arme, e
meritamente lo chiamarono il Livore. Eranvi
ancora due altre donne compagne della
Calunnia, le quali accomodavano gli ornamenti
alla padrona; la Insidia, e la Fraude.
Dopo questa vi era la Penitenza vestita
di una veste oscura, e sordidissima,
che si stracciava, e graffiava se stessa,
seguendole appresso la pudica, e vergognosa
Verità. La quale istoria ancor che
intrattenga gli animi mentre che ella si
racconta; quanto pensi tu che ella desse
di se diletto, e grazia a vederla in essa
pittura fatta da eccellente maestro? Che
direm noi di quelle tre fanciullette sorelle,
alle quali Eisiodo pose i nomi, chiamandole
Aglaja, Eufrosina, e Talia, che furon
dipinte presesi per le mani, e che ridevano,
ornate di una transparente e sciolta veste, per le quali vollono che si intendesse
la Liberalità, perciocchè una delle sorelle
dà, l’altra piglia, e la terza rende il benefizio;
le quali condizioni veramente hanno
da ritrovarsi in ogni perfetta liberalità.
Vedi quanta gran lode arrecano al maestro
così fatte invenzioni? E però consiglio io
lo studioso Pittore che si doni quanto più
può a’ Poeti, ed a’ Retori, ed agli altri
dotti nelle lettere, e si facci loro famigliare,
e benivolo. Imperocchè da così fatti
intelligenti ingegni ne caverà ed ottimi ornamenti,
e sarà da loro ajutato veramente
in queste invenzioni, le quali nella Pittura
non hanno poca lode. Fidia Pittore eccellente,
confessava avere imparato da Omero
il modo come avesse principalmente a dipignere
Giove con maestà. Io penso che i
nostri Pittori si faranno ancora più copiosi,
e più valenti nel leggere i Poeti, purchè
ei sieno più studiosi dello imparare, che
del guadagno. Ma il più delle volte i non
meno studiosi che desiderosi d’imparare,
si straccano, più perchè ei non sanno la
via nè il modo dello imparare la cosa, che
ei non fanno per la fatica dello imparare.
E perciò cominciamo a dire, in che modo
noi possiamo in quest’arte diventar buoni
maestri. Sia il principio questo: tutti i
gradi dello imparare dobbiamo noi cavare
da essa natura, e la regola del far l’arte
perfetto acquistisi cou la diligenza, con lo
studio, e con l’assiduità. Io veramente vorrei che coloro che incominciano a voler
imparare a dipignere, facessero quei che
io veggo che osservano i maestri dello scrivere.
Imperocchè costoro insegnano la prima cosa
fare separatamente tutti i caratteri
delle lettere, di poi insegnano far le sillabe,
e dopo questo insegnano a mettere insieme
le parole. Tenghino adunque i nostri nel
dipignere questa regola: insegnino la prima
cosa i dintorni delle superficie, quasi che
ei sieno l’a b c della Pittura. Di poi insegnino
i congiugnimenti delle superficie.
Dopo questo le forme di tutti i membri
distintamente e separatamente, ed imparino
a mente tutte le differenze che posson essere
ne’ membri. Imperocchè elle sono e
molte, e notabili. Sarannovi di quegli che
avranno il naso gobbo, altri che lo avranno
stiacciato, torto, largo, altri sporgono
la bocca innanzi, come che ella gli caschi,
altri pajono ornati mediante lo aver le
labbra sottili, e finalmente tutte le membra
hanno un certo che di loro proprietà, il
che se vi si ritroverà, o un poco più o
un poco meno, varierà allora grandissimamente
tutto quel membro. Anzi veggiamo
oltra di questo come le medesime membra
ne’ putti ci pajono tonde, e per modo di
dire fatte a tornio, e pulite, e cresciute
poi mediante l’età ci pajono più aspre e
più terminale. Tutte queste cose adunque
lo studioso Pittore caverà da essa natura,
ed esaminerà assiduamente da se stesso come ciascuna di esse sia, e continuerà con
gli occhi e con la mente tutto il tempo
nella vita sua in questa investigazione. Conciossiachè
egli considererà il grembo di coloro
che seggono e le gambe quanto dolcemente
piegandosi in un certo modo caschino.
Considererà la faccia, e tutta l’attitudine
di quel che starà ritto. Nè sarà
finalmente parte alcuna della quale ei non
sappi quale sia l’officio e la proporzione
di essa, ed ami di tutte le parti non solo
la simiglianza, ma principalmente essa bellezza
delle cose. Demetrio quel Pittore
antico fu molto più curioso nello esprimere
la somiglianza delle cose, che ei non fu
nel conoscere il bello. Dunque si debbe
andare scegliendo da corpi bellissimi le più
lodate parti. Per tanto bisogna porre ogni
studio ed industria principalmente in conoscere,
imparare, ed esprimere il bello.
La qual cosa ancorchè sia più di tutte
l’altre difficilissima, perchè non si trovino
in un luogo solo tutte le lodi della bellezza,
essendo esse rare e disperse, si debbe
nondimeno esporre qualsivoglia fatica in
investigarla, ed in impararla. Imperocchè
chi avrà imparato le cose più importanti,
e saprà esercitarsi in esse, potrà poi costui
molto più facilmente trattar a suo piacere
le cose di minor importanza. Nè si trova
finalmente cosa alcuna tanto difficile, che
non si possa e con lo studio, e con l’assiduità
metter ad effetto. Ma acciò che il tuo studio non sia disutile, nè indarno,
bisogna guardarsi da quella consuetudine o
usanza di molti, che da loro stessi con
l’ingegno loro vanno dietro ad acquistarsi
lode nulla Pittura, senza volere nè con gli
occhi, nè con la mente ritrarre cosa alcuna
dal naturale. Imperocchè costoro non
imparano a dipignere bene, ma si assuefanno
agli errori. Conciossiachè quella idea
della bellezza non si lascia conoscere dagli
ignoranti, la quale a pena si lascia discernere
da quei che sanno. Zeusi Pittore eccellentissimo
e più di tutti gli altri dottissimo,
e valentissimo, quando ebbe a fare
la tavola che si aveva pubblicamente a
mettere nel tempio di Diana in Crotone,
non si fidando dell’ingegno suo, come
fanno quasi in questi tempi tutti i Pittori,
non si messe pazzamente a dipignerla, ma
perchè ei pensò che per ritrovare tutto
quel che ei cercava per farla quanto più
si poteva bella, non poterlo ritrovar con
l’ingegno proprio, ma ritraendole ancora
dal naturale non poter ciò ritrovare in un
corpo solo: perciò scelse cinque fanciulle
di tutta la gioventù di quella città, le più
belle di tutte le altre, acciocchè egli potesse
metter poi in Pittura quel che più
di bellezza muliebre egli avesse cavato da
loro. E fece veramente da savio. Imperocchè
a’ Pittori quando non si mettono
innanzi le cose che ei vogliono ritrarre, o
imitare, ma cercano sol con l’ingegno loro trovando il bello acquistarsi lode, accade
spesso che non solo non s’acquistano con
quella fatica quella lode che ei cercano,
ma si assuefanno ad una cattiva maniera
di dipiguere, la qual poi non posson lasciare
se non con gran fatica, benchè lo
desiderino. Ma chi userà a ritrar ogni cosa
dal naturale, costui farà la mano tanto
esercitata al bene, che lutto quel che egli
si sforzerà di fare, parrà naturale. La qual
cosa veggiamo quanto nella Pittura sia da
esser desiderala. Imperocchè se in un’istoria
vi sarà ritratta la testa di alcun uomo,
che noi conosciamo, ancorchè vi sieno alcune
altre cose di più eccellenza di maestro,
nondimeno il riconosciuto aspetto di
qualcuno, lira a se gli occhi di tutti i
riguardanti. Tanta è e la grazia e la forza
che ha in se per esser ritratto dal naturale.
Tutte quelle cose adunque che noi avremo
a dipignere, ritraghiamole dal naturale, e
di queste sciegliamo quelle che son le più
belle, e le più degne, ma bisogna guardarsi
da quel che fanno alcuni, cioè che
noi non dipinghiamo in tavole troppo piccole.
Io vorrei che tu li assuefacessi alle
imagini grandi, le quali però si accostino
per grandezza il più che si può a quel che
tu vuoi fare. Imperocchè nelle figure piccole
i difetti maggiori maggiormente si nascondono,
ma nelle figure grandi, gli errori
ancor che piccoli, si veggono grandemente.
Scrisse Galeno aver visto scolpito in un anello Fetonte tiralo da quattro cavalli,
i freni e tutti i piedi, e tutti i petti
de’ quali si vedevano distintamente. Concedino
i Pittori questa lode agli intagliatori
delle gioie, ed esercitinsi essi in maggior
campi di lode. Imperocchè coloro che sapranno
dipignere, o far di scultura le figure
grandi, potranno facilmente c con
un solo tratto far ottimamente le piccole.
Ma coloro che avranno assuefatto la mano
e l’ingegno a queste cose piccole, facilmente
erreranno nelle maggiori. Sono alcuni
che copiano e ritraggon le cose degli
altri Pittori, e cercano acquistarsi in quella
cosa lode. 11 che dicono che fece Camalide
Scultore, il quale fece due tazze di
scultura, imitando talmente Zenodoro, che
non si discerneva in esse opere differenza
alcuna. Ma i Pittori sono in grandissimo
errore, se ei non conoscono, che coloro
che son stati veri Pittori, si sono sforzati
rappresentare quella figura tale, quale noi
la veggiamo dipinta dalla natura in essa
rete, o velo. E se ei ci gioverà ritrarre
le opere degli altri, come quelle che mostrino
di se stesse più ferma pazienza che
le vive, io vorrei che noi ci mettessimo
innanzi una cosa mediocremente scolpita,
più presto che una eccellentemente dipinta,
imperocchè a ritrarre alcuna cosa dalle
Pitture noi assuefacciamo la mano a presentare
una qualche somiglianza. Ma
dalle cose di Scultura noi impariamo a la similitudine, ed i veri lumi; nel metter
insieme,i quai lumi, giova molto, ristrignere
con i peli delle palpebre l’acutezza
della vista, acciocchè allora pajono i lumi
alquanto più scuri, e quasi velati. E forse
ci gioverà più esercitarsi nel far di Scultura
che nell’adoperare il pennello. Conciossiachè
la Scultura è più certa, e più
facile che la Pittura. Nè mai avverrà che
alcuno possa dipigner bene alcuna cosa che
non sappia di essa bene lutti i rilievi, ed
i rilievi più facilmente si trovano nella
Scultura che nella Pittura. Imperocchè
facci questo non poco a nostro proposito,
che ei si può vedere, come quasi in qualunque
età si sono trovati alcuni mediocri
Scultori, e Pittori quasi nessuno che non
sieno da ridersene, ed ignoranti. Finalmente
attendasi o alla Pittura, o alla Scultura,
sempre ci dobbiamo metter innanzi alcuno
eccellente e singolare esempio da riguardarlo
e da imitarlo: e nel ritrarlo credo
che talmente bisogni congiugnere la
diligenza con la prestezza, che il Pittore
non levi mai o il pennello, o il disegnatojo
dal lavoro fino a tanto che egli non sì sia
prima risoluto, e non abbi ottimamente
determinato con la mente, quel ch’egli sia
per fare, ed in che modo egli lo possa
condurre a buon fine. Conciossiachè è cosa
più sicura emendare con la mente, che
scancellar poi dal lavoro fatto gli errori.
Oltra di questo quando noi ci saremo assuefatti a ritrarre ogni cosa dal naturale,
ci avverrà, che noi diventeremo molto migliori
maestri di Asclepiodoro, che dicono,
che fu il più velocissimo di tutti i maestri
nel dipignere. Imperocchè in quella cosa
in che noi ci saremo esercitali più volle,
l’ingegno si fa più pronto, più alto, e più
veloce, e quella mano sarà velocissima, la
quale sarà guidala dalla certa regola dell’ingegno.
E se alcuni maestri sono pigri,
non avviene loro da altro, se non che ei
sono tardi, e lenti In tentare quella cosa
della quale essi non hanno prima chiaramente
impadronitasi, mediante lo studio,
la mente. E mentre che si esercitano in
quelle tenebre degli errori, vanno tentando,
e ricercando come timorosi, e meri
ciechi la strada con il pennello, come l’anno
i ciechi le vie, o le uscite ch’essi non
sanno con i loro bastoncelli. Non metta
alcuno dunque mai mano al lavoro se non
con la scorta dell’ingegno, e faccia ch’ei
sia molto esercitato ed ammaestrato. Ma
essendo la principale opera del Pittore l’istoria,
nella quale si deve ritrovare qualsivoglia
abbondanza, ed eccellenza delle cose,
bisogna avvertire che noi sappiamo dipignere
eccellentemente, per quanto può fare l’ingegno,
non solamente l’uomo, ma il cavallo
ancora, ed il cane, e gli altri animali,
e tutte le altre cose degnissime da
esser vedute; acciò che nella nostra istoria
non si abbia a desiderare la varietà, e l’abbondanza delle cose, senza le quali nessun
lavoro è stimalo. È cosa veramente
grande, ed appena concessa ad alcuno degli
Antichi, l’essere stato non vo’ dire eccellente
in tutte le cose, ma nè anco mediocre
maestro; nondimeno io giudico che
sia bene sforzandosi porre ogni studio che
per nostra negligenza non ci abbi a mancare
quel che ci può arrecare grandissima
lode, e grandissimo biasimo ancora se noi
ce ne facessimo beffe. Nicia Pittore Ateniese
dipinse le donne diligentissimamente.
Ma Zeusi nel dipignere il corpo delle donne
dicono che avanzò tutti gli altri. Eraclide
fu eccellente nel dipignere le navi.
Serapione non sapeva dipignere gli uomini,
e nondimeno dipigueva tutte le altre cose
molto bene. Dionisio non sapeva dipignere
altro che gli uomini. Alessandro quel
che dipinse la loggia di Pompeo, faceva
eccellentemente tutte le bestie di quattro
gambe e massime i cani. Aurelio come
quello che era sempre innamorato, godeva
sommamente di dipignere le Dee,
ed esprimere ne’ suoi ritratti gli’ amati
volti. Fidia si affaticava più in dimostrar
la maestà degli Dii, che la bellezza degli uomini.
Eufranore aveva talmente fantasia di
rappresentar la dignità degli Eroi, che in
quella cosa fu più eccellente degli altri. E
così non seppon tutti far bene tutte le
cose, conciossiachè la natura scompartì a
ciascuno ingegno la proprietà delle sue doti, alle quali cose noi non dobbiamo
acquietarci tanto, che noi abbiamo a pretermetter
di lasciar cosa alcuna non tentata
in dietro. Ma le doti dateci dalla natura
dobbiamo noi reverire ed accrescerle con
l’industria, con lo studio, e con l’esercizio.
Oltra di questo non dobbiamo parere
di pretermettere per negligenza cosa alcuna
che appartenga alla lode. Ultimamente quando
noi abbiamo a dipignere un’istoria,
andremo la prima cosa lungamente pensando
con che ordine, o con quai medi
noi possiamo fare il componimento che sia
bellissimo, e facendone schizzi c modelli
su per le carie, andremo esaminando e
tutta l’istoria, e ciascuna parte di essa,
ed in ciò chiederemo consiglio a tutti i
nostri amici; finalmente noi ci affaticheremo
che tutte le cose sieno da noi pensale
ed esaminate di maniera, che nel nostro
lavoro non abbia ad esser cosa alcuna, che
noi non sappiamo molto bene in qual parte
dell’opera ella si abbi a collocare. Ed acciocchè
noi sappiamo questo più certo, ci
gioverà sopra i modelli tirare una rete,
acciocchè poi nel metter in opera le cose
venghin poste, come cavale dagli esempi
privati, tutte a’ luoghi loro proprj. E nel
condurre a fine il lavoro, vi porremo quella
diligenza congiunta con quella celerità del
fare, che non sbigottisca per il tedio altrui
dal finirla, nè il desiderio di finirla
troppo presto non ci precipiti. Bisogna talvolta intralasciare la fatica dell’opera, e
recreare l’animo, nè si deve far quel che
fanno molti, che si metton a fare più opere
ed incomincian questa, e la principiata lasciano
imperfetta. Ma quelle opere che tu
avrai incominciate, le debbi finire interamente
del tutto. Rispose Apelle ad uno
che gli mostrava una sua pittura e diceva,
io la dipinsi presto or’ ora: senza che tu
lo dicessi, si vedeva chiaro, anzi mi maraviglio
che tu non abbi dipinte infinite a
questo modo. Io ho veduti alcuni Pittori
e Scultori, ed Oratori, e Poeti ancora, se
alcuni però si trovano in questa nostra età
che si possino chiamar Oratori o Poeti
essersi messi con ardentissimo studio a far
qualche opera, i quali mancato poi quello
ardore dell’ingegno, lasciano stare la incominciata
e rozza opera imperfetta, e spinti
da nuovo desiderio, si mettono a voler di
nuovo fare qualche altra cosa più nuova,
i quali uomini io certamente biasimo. Imperocchè
tutti coloro che desiderano che le
opere loro sieno grate e care a’ posteri,
bisogna che pensino prima molto bene a
detta opera, e la conduchino con grandissima
diligenza a perfezione. Conciossiachè
in molte cose non è manco grata la diligenza
che qualsivoglia ingegno. Ma bisogna
fuggire quella superflua superstizione di
coloro, per chiamarla così, i quali mentre
che vogliono che i lavori non abbino pur
alcun minimo difetto, e cercano che ei sieno pur troppo puliti, fanno talmente che
le opere loro paino consumate dalla vecchiezza
avanti che finite. I Pittori antichi
solevano biasimare Protogene che non sapeva
mai cavar le mani di sopra una tavola.
E ragionevolmente certo. Imperocchè
egli è di necessità sforzarsi di por tanta
diligenza nelle cose, quanta sia abbastanza,
secondo il valore dell’ingegno. Ma il volere
in ogni cosa più di quel che tu possa,
o che si convenga, è cosa da uno ingegno
piuttosto ostinato che diligente. Bisogna
adunque por nelle cose una diligenza moderata,
chiederne parere agli amici, anzi
nel metter in alto dello lavoro, è bene
stare ad ascoltare, e chiamare a vederlo di
tempo in tempo quasi ciascuno. Ed in questo
modo il lavoro del Pittore è per dovere
essere grato alla moltitudine. Il giudicio
adunque e la censura della moltitudine
non sarà allora sprezzata, quando ancora
tu potrai satisfare alle diverse opinioni.
Dicono che Apelle si soleva nascondere
dietro alla tavola, acciocchè coloro che la
riguardavano potessero più liberamente parlare,
ed egli stare ad ascoltale più onestamente
i difetti de’ suoi lavori, che essi
raccontavano. Io vorrei adunque che i
nostri Pittori stessino scoperti ad udire
spesso, ed a ricercare ognuno che li dicesse
liberamente quel che le ne pare; conciossiachè
questo giova ad intender la varietà
delle cose, e ad acquistarsi molto una certa grazia. Conciossiachè non è nessuno che
non si attribuisca a cosa onorata, l’avere
a dire il parer suo circa le fatiche d’altri.
Oltra di questo non si ha punto da dubitare,
che il giudizio di coloro che biasimano
e che sono invidiosi, possa detrarre
punto delle lodi del Pittore. Stia adunque
il Pittore ad ascoltare ognuno, e prima
esamini seco stesso la cosa e la emendi.
Di poi quando avrà udito ognuno, facci a
modo di quei che più sanno. Queste son
le cose che a me è parso aver da dire
della Pittura in questi miei commentarj.
E se queste cose son tali ch’elle arrechino
a’ Pittori comodità, o utilità alcuna, io
aspetto per principal premio delle mie fatiche,
che essi mi ritraghino nelle istorie
loro, acciocchè ei dimostrino per questa via
a quei che verranno, di esser stati ricordevoli,
e grati del beneficio, e dimostrino
che io sia stato studioso di essa arte. E se
io non ho satisfatto a quanto essi aspettavano
da me, almanco non mi biasimino
che io abbia avuto ardire di mettermi a
tanta impresa. Imperocchè se l’ingegno mio
non ha potuto condurre a fine quel che è
lodevole di tentare, ricordinsi, che nelle
cose grandissime, suole attribuirsi a lode,
lo aver voluto mettersi a quel che è difficilissimo.
Seguiteranno forse alcuni che
suppliranno a quel ch’io avessi mancato,
e che potranno in questa eccellentissima,
e degnissima arte, giovare molto più a’ Pittori: i quali se per avventura succederanno,
io li prego quanto più so e posso,
che piglino questa fatica con lieto, e pronto
animo, nella quale essi ed esercitino gl’ingegni
loro, e conduchino questa nobilissima
arte al colmo dell’eccellenza. Io nondimeno
avrò piacere di essere stato il primo
ad avermi acquistata la palma in essermi
affaticato di scrivere sopra questa
ingegnosissima arte. La quale veramente
difficile impresa, se io non ho saputo condurre
a quella perfezione della espettazione
che ne avevano coloro che leggono, si debbe
darne la colpa alla natura piuttosto che
a me, la quale par che abbi imposta quella
legge alle cose, che ei non è arte nessuna
che non abbi presi i suoi principj da cose
difettose. Imperocchè si dice, che nessuna
cosa è nata perfetta. E coloro che verranno
dopo a me, se alcuni ne verranno, che
sieno di studio, e d ingegno più valenti di
me, doveranno forse condur quest’arte
della Pittura alla somma perfezione.