Della pittura e della statua/Della pittura - Libro terzo
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Traduzione dal latino di Cosimo Bartoli (XVI secolo)
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DELLA PITTURA
di
LEONBATISTA ALBERTI.
libro terzo.
Ma per ordinare un perfetto Pittore, talmente ch’ei possa acquistarsi tutte quelle lodi che si sono racconte, ci restano ancora a dire alcune cose, le quali io non penso che si debbino lasciare in questi miei commentarj indietro: le racconterò più brevemente che mi sarà possibile. L’officio del Pittore è, disegnare e colorire qualunque gli si proponghino corpi in una superficie con linee, e colori di maniera, che mediante un certo intervallo, ed una certa determinata positura del razzo centrico, tutte le cose, che si vedranno dipinte, apparischino di rilievo, e somigliantissime alle proposteci cose. La fine del Pittore è, cercar di acquistarsi lode, grazia, e benevolenza, mediante le opere sue, piuttosto che ricchezze. Ed otterrà questo mentre la sua pittura intratterrà, e commoverà gli occhi e gli animi de’ riguardanti. Le quali cose come si possino fare, e per qual via, si disse quando si disputò del componimento, e del ricevimento de’ lumi. Ma io desidero che il Pittore, acciocchè ei sappia ed intenda bene tutte queste cose, sia uomo e buono, e dotto delle buone arti. Imperocchè ei non è alcuno che non sappia quanto la bontà possa assai più che la maraviglia di qualsivoglia industria o arte, ad acquistarsi la benevolenza de’ cittadini. Oltra questo non è alcuno che dubiti che la benevolenza giova ad un maestro grandissimamente ad acquistarsi laude, ed a procacciarsi ricchezze. Perciocchè da questa benevolenza avviene, che talvolta i ricchi, sono mossi a dar guadagno principalmente a questo modesto, e buono, lasciando da parte un altro che ne sa più, ma che è forse manco modesto. Le quali cose essendo così, il maestro dovrà aver gran diligenza a’ costumi, ed alla creanza, e massimamente all’umanità ed alla benignità, mediante le quali cose ei possa procacciarsi e la benevolenza fermo presidio contra alla povertà, e guadagno ottimo ajuto a poter condur le opere a perfezione. Desidero veramente che il Pittore sia quanto ei più può dotto, in tutte le arti liberali, ma principalmente desidero che ei sappia geometria. Piacemi quel che diceva Panfilo antichissimo, e nobilissimo Pittore, dal quale i giovanetti nobili primieramente impararono la Pittura; imperocchè egli diceva, che nessuno poteva mai essere buon Pittore, che non sapesse geometria. Veramente i nostri primi ammaestramenti, dai quali si cava tutta l’assoluta e perfetta arte della Pittura, sono facilmente intesi dal Geometra. Ma chi non ha notizia di essa, non posso io credere che intenda i nostri ammaestramenti, nè abbastanza ancora alcune regole della Pittura. Adunque io affermo che i Pittori non si hanno a far beffe della geometria. Di poi non sarà fuor di proposito, se noi ci diletteremo de’ Poeti, e de’ Rettorici. Imperocchè costoro hanno molti ornamenti a comune con i Pittori. Nè veramente gli gioveranno poco per ordinare eccellentemente il componimento dell’istoria, quei copiosi letterati che avranno notizia di molte cose, la qual lode consiste tutta principalmente nell’invenzione. Conciosiachè ella ha questa forza, che essa sola invenzione, senza la Pittura, diletta. Lodasi mentre che si legge, quella descrizione della Calunnia, che Luciano racconta essere stata dipinta da Apelle, ed il raccontarla non credo che sia fuor di proposito, per avvertire i Pittori, che ci bisogna che ei vegghino, in trovare e metter insieme così fatte invenzioni. Eravi veramente un uomo che aveva duo grandissimi orecchi, intorno al quale stavano due donne, la Ignoranza, e la Sospizione; dall’altra parte arrivando essa Calunnia, che aveva forma di una donnetta bella, ma che in volto pareva pur troppo maliziosa, ed astuta, teneva nella man sinistra una face accesa, e con l’altra mano tirava per i capelli un giovanetto, il quale alzava le mani al Cielo. La guida di costui era un certo uomo pallido, e magro, brutto, e di aspetto crudele, il quale tu assomigliaresti ragionevolmente a coloro che la lunga fatica avesse consumati in un fatto d’arme, e meritamente lo chiamarono il Livore. Eranvi ancora due altre donne compagne della Calunnia, le quali accomodavano gli ornamenti alla padrona; la Insidia, e la Fraude. Dopo questa vi era la Penitenza vestita di una veste oscura, e sordidissima, che si stracciava, e graffiava se stessa, seguendole appresso la pudica, e vergognosa Verità. La quale istoria ancor che intrattenga gli animi mentre che ella si racconta; quanto pensi tu che ella desse di se diletto, e grazia a vederla in essa pittura fatta da eccellente maestro? Che direm noi di quelle tre fanciullette sorelle, alle quali Esiodo pose i nomi, chiamandole Aglaja, Eufrosina, e Talia, che furon dipinte presesi per le mani, e che ridevano, ornate di una transparente e sciolta veste, per le quali vollono che si intendesse la Liberalità, perciocchè una delle sorelle dà, l’altra piglia, e la terza rende il benefizio; le quali condizioni veramente hanno da ritrovarsi in ogni perfetta liberalità. Vedi quanta gran lode arrecano al maestro così fatte invenzioni? E però consiglio io lo studioso Pittore che si doni quanto più può a’ Poeti, ed a’ Retori, ed agli altri dotti nelle lettere, e si facci loro famigliare, e benivolo. Imperocchè da così fatti intelligenti ingegni ne caverà ed ottimi ornamenti, e sarà da loro ajutato veramente in queste invenzioni, le quali nella Pittura non hanno poca lode. Fidia Pittore eccellente, confessava avere imparato da Omero
il modo come avesse principalmente a dipignere Giove con maestà. Io penso che i nostri Pittori si faranno ancora più copiosi, e più valenti nel leggere i Poeti, purchè ei sieno più studiosi dello imparare, che del guadagno. Ma il più delle volte i non meno studiosi che desiderosi d’imparare, si straccano, più perchè ei non sanno la via nè il modo dello imparare la cosa, che ei non fanno per la fatica dello imparare. E perciò cominciamo a dire, in che modo noi possiamo in quest’arte diventar buoni maestri. Sia il principio questo: tutti i gradi dello imparare dobbiamo noi cavare da essa natura, e la regola del far l’arte perfetto acquistisi con la diligenza, con lo studio, e con l’assiduità. Io veramente vorrei che coloro che incominciano a voler imparare a dipignere, facessero quel che io veggo che osservano i maestri dello scrivere. Imperocchè costoro insegnano la prima cosa fare separatamente tutti i caratteri delle lettere, di poi insegnano far le sillabe, e dopo questo insegnano a mettere insieme le parole. Tenghino adunque i nostri nel dipignere questa regola: insegnino la prima cosa i dintorni delle superficie, quasi che ei sieno l’a b c della Pittura. Di poi insegnino i congiugnimenti delle superficie. Dopo questo le forme di tutti i membri distintamente e separatamente, ed imparino a mente tutte le differenze che posson essere ne’ membri. Imperocchè elle sono e molte, e notabili. Sarannovi di quegli che avranno il naso gobbo, altri che lo avranno stiacciato, torto, largo, altri sporgono la bocca innanzi, come che ella gli caschi, altri pajono ornati mediante lo aver le labbra sottili, e finalmente tutte le membra hanno un certo che di loro proprietà, il che se vi si ritroverà, o un poco più o un poco meno, varierà allora grandissimamente tutto quel membro. Anzi veggiamo oltra di questo come le medesime membra ne’ putti ci pajono tonde, e per modo di dire fatte a tornio, e pulite, e cresciute poi mediante l’età ci pajono più aspre e più terminate. Tutte queste cose adunque lo studioso Pittore caverà da essa natura, ed esaminerà assiduamente da se stesso come ciascuna di esse sia, e continuerà con gli occhi e con la mente tutto il tempo nella vita sua in questa investigazione. Conciossiachè egli considererà il grembo di coloro che seggono e le gambe quanto dolcemente piegandosi in un certo modo caschino. Considererà la faccia, e tutta l’attitudine di quel che starà ritto. Nè sarà finalmente parte alcuna della quale ei non sappi quale sia l’officio e la proporzione di essa, ed ami di tutte le parti non solo la simiglianza, ma principalmente essa bellezza delle cose. Demetrio quel Pittore antico fu molto più curioso nello esprimere la somiglianza delle cose, che ei non fu nel conoscere il bello. Dunque si debbe andare scegliendo da corpi bellissimi le più lodate parti. Per tanto bisogna porre ogni studio ed industria principalmente in conoscere, imparare, ed esprimere il bello. La qual cosa ancorchè sia più di tutte l’altre difficilissima, perchè non si trovino in un luogo solo tutte le lodi della bellezza, essendo esse rare e disperse, si debbe nondimeno esporre qualsivoglia fatica in investigarla, ed in impararla. Imperocchè chi avrà imparato le cose più importanti, e saprà esercitarsi in esse, potrà poi costui molto più facilmente trattar a suo piacere le cose di minor importanza. Nè si trova finalmente cosa alcuna tanto difficile, che non si possa e con lo studio, e con l’assiduità metter ad effetto. Ma acciò che il tuo studio non sia disutile, nè indarno, bisogna guardarsi da quella consuetudine o usanza di molti, che da loro stessi con l’ingegno loro vanno dietro ad acquistarsi lode nulla Pittura, senza volere nè con gli occhi, nè con la mente ritrarre cosa alcuna dal naturale. Imperocchè costoro non imparano a dipignere bene, ma si assuefanno agli errori. Conciossiachè quella idea della bellezza non si lascia conoscere dagli ignoranti, la quale a pena si lascia discernere da quei che sanno. Zeusi Pittore eccellentissimo e più di tutti gli altri dottissimo, e valentissimo, quando ebbe a fare la tavola che si aveva pubblicamente a mettere nel tempio di Diana in Crotone, non si fidando dell’ingegno suo, come fanno quasi in questi tempi tutti i Pittori, non si messe pazzamente a dipignerla, ma perchè ei pensò che per ritrovare tutto quel che ei cercava per farla quanto più si poteva bella, non poterlo ritrovar con l’ingegno proprio, ma ritraendole ancora dal naturale non poter ciò ritrovare in un corpo solo: perciò scelse cinque fanciulle di tutta la gioventù di quella città, le più belle di tutte le altre, acciocchè egli potesse metter poi in Pittura quel che più di bellezza muliebre egli avesse cavato da loro. E fece veramente da savio. Imperocchè a’ Pittori quando non si mettono innanzi le cose che ei vogliono ritrarre, o imitare, ma cercano sol con l’ingegno loro trovando il bello acquistarsi lode, accade spesso che non solo non s’acquistano con quella fatica quella lode che ei cercano, ma si assuefanno ad una cattiva maniera di dipiguere, la qual poi non posson lasciare se non con gran fatica, benchè lo desiderino. Ma chi userà a ritrar ogni cosa dal naturale, costui farà la mano tanto esercitata al bene, che lutto quel che egli si sforzerà di fare, parrà naturale. La qual cosa veggiamo quanto nella Pittura sia da esser desiderata. Imperocchè se in un’istoria vi sarà ritratta la testa di alcun uomo, che noi conosciamo, ancorchè vi sieno alcune altre cose di più eccellenza di maestro, nondimeno il riconosciuto aspetto di qualcuno, tira a se gli occhi di tutti i riguardanti. Tanta è e la grazia e la forza che ha in se per esser ritratto dal naturale. Tutte quelle cose adunque che noi avremo a dipignere, ritraghiamole dal naturale, e di queste sciegliamo quelle che son le più belle, e le più degne, ma bisogna guardarsi da quel che fanno alcuni, cioè che noi non dipinghiamo in tavole troppo piccole. Io vorrei che tu li assuefacessi alle imagini grandi, le quali però si accostino per grandezza il più che si può a quel che tu vuoi fare. Imperocchè nelle figure piccole i difetti maggiori maggiormente si nascondono, ma nelle figure grandi, gli errori ancor che piccoli, si veggono grandemente. Scrisse Galeno aver visto scolpito in un anello Fetonte tirato da quattro cavalli, i freni e tutti i piedi, e tutti i petti de’ quali si vedevano distintamente. Concedino i Pittori questa lode agli intagliatori delle gioie, ed esercitinsi essi in maggior campi di lode. Imperocchè coloro che sapranno dipignere, o far di scultura le figure grandi, potranno facilmente e con un solo tratto far ottimamente le piccole. Ma coloro che avranno assuefatto la mano e l’ingegno a queste cose piccole, facilmente erreranno nelle maggiori. Sono alcuni che copiano e ritraggon le cose degli altri Pittori, e cercano acquistarsi in quella cosa lode. Il che dicono che fece Camalide Scultore, il quale fece due tazze di scultura, imitando talmente Zenodoro, che non si discerneva in esse opere differenza alcuna. Ma i Pittori sono in grandissimo errore, se ei non conoscono, che coloro che son stati veri Pittori, si sono sforzati rappresentare quella figura tale, quale noi la veggiamo dipinta dalla natura in essa rete, o velo. E se ei ci gioverà ritrarre le opere degli altri, come quelle che mostrino di se stesse più ferma pazienza che le vive, io vorrei che noi ci mettessimo innanzi una cosa mediocremente scolpita, più presto che una eccellentemente dipinta, imperocchè a ritrarre alcuna cosa dalle Pitture noi assuefacciamo la mano a presentare una qualche somiglianza. Ma dalle cose di Scultura noi impariamo e la similitudine, ed i veri lumi; nel metter insieme i quai lumi, giova molto, ristrignere con i peli delle palpebre l’acutezza della vista, acciocchè allora pajono i lumi alquanto più scuri, e quasi velati. E forse ci gioverà più esercitarsi nel far di Scultura che nell’adoperare il pennello. Conciossiachè la Scultura è più certa, e più facile che la Pittura. Nè mai avverrà che alcuno possa dipigner bene alcuna cosa che non sappia di essa bene lutti i rilievi, ed i rilievi più facilmente si trovano nella Scultura che nella Pittura. Imperocchè facci questo non poco a nostro proposito, che ei si può vedere, come quasi in qualunque età si sono trovati alcuni mediocri Scultori, e Pittori quasi nessuno che non sieno da ridersene, ed ignoranti. Finalmente attendasi o alla Pittura, o alla Scultura, sempre ci dobbiamo metter innanzi alcuno eccellente e singolare esempio da riguardarlo e da imitarlo: e nel ritrarlo credo che talmente bisogni congiugnere la diligenza con la prestezza, che il Pittore non levi mai o il pennello, o il disegnatojo dal lavoro fino a tanto che egli non sì sia prima risoluto, e non abbi ottimamente determinato con la mente, quel ch’egli sia per fare, ed in che modo egli lo possa condurre a buon fine. Conciossiachè è cosa più sicura emendare con la mente, che scancellar poi dal lavoro fatto gli errori. Oltra di questo quando noi ci saremo assuefatti a ritrarre ogni cosa dal naturale, ci avverrà, che noi diventeremo molto migliori maestri di Asclepiodoro, che dicono, che fu il più velocissimo di tutti i maestri nel dipignere. Imperocchè in quella cosa in che noi ci saremo esercitati più volte, l’ingegno si fa più pronto, più alto, e più veloce, e quella mano sarà velocissima, la quale sarà guidata dalla certa regola dell’ingegno. E se alcuni maestri sono pigri, non avviene loro da altro, se non che ei sono tardi, e lenti in tentare quella cosa della quale essi non hanno prima chiaramente impadronitasi, mediante lo studio, la mente. E mentre che si esercitano in quelle tenebre degli errori, vanno tentando, e ricercando come timorosi, e meri ciechi la strada con il pennello, come l’anno i ciechi le vie, o le uscite ch’essi non sanno con i loro bastoncelli. Non metta alcuno dunque mai mano al lavoro se non con la scorta dell’ingegno, e faccia ch’ei sia molto esercitato ed ammaestrato. Ma essendo la principale opera del Pittore l’istoria, nella quale si deve ritrovare qualsivoglia abbondanza, ed eccellenza delle cose, bisogna avvertire che noi sappiamo dipignere eccellentemente, per quanto può fare l’ingegno, non solamente l’uomo, ma il cavallo ancora, ed il cane, e gli altri animali, e tutte le altre cose degnissime da esser vedute; acciò che nella nostra istoria non si abbia a desiderare la varietà, e l’abbondanza delle cose, senza le quali nessun lavoro è stimato. È cosa veramente grande, ed appena concessa ad alcuno degli Antichi, l’essere stato non vo’ dire eccellente in tutte le cose, ma nè anco mediocre maestro; nondimeno io giudico che sia bene sforzandosi porre ogni studio che per nostra negligenza non ci abbi a mancare quel che ci può arrecare grandissima lode, e grandissimo biasimo ancora se noi ce ne facessimo beffe. Nicia Pittore Ateniese dipinse le donne diligentissimamente. Ma Zeusi nel dipignere il corpo delle donne dicono che avanzò tutti gli altri. Eraclide fu eccellente nel dipignere le navi. Serapione non sapeva dipignere gli uomini, e nondimeno dipigneva tutte le altre cose molto bene. Dionisio non sapeva dipignere altro che gli uomini. Alessandro quel che dipinse la loggia di Pompeo, faceva eccellentemente tutte le bestie di quattro gambe e massime i cani. Aurelio come quello che era sempre innamorato, godeva sommamente di dipignere le Dee, ed esprimere ne’ suoi ritratti gli’ amati volti. Fidia si affaticava più in dimostrar la maestà degli Dii, che la bellezza degli uomini. Eufranore aveva talmente fantasia di rappresentar la dignità degli Eroi, che in quella cosa fu più eccellente degli altri. E così non seppon tutti far bene tutte le cose, conciossiachè la natura scompartì a ciascuno ingegno la proprietà delle sue doti, alle quali cose noi non dobbiamo acquietarci tanto, che noi abbiamo a pretermetter di lasciar cosa alcuna non tentata in dietro. Ma le doti dateci dalla natura dobbiamo noi reverire ed accrescerle con l’industria, con lo studio, e con l’esercizio. Oltra di questo non dobbiamo parere di pretermettere per negligenza cosa alcuna che appartenga alla lode. Ultimamente quando noi abbiamo a dipignere un’istoria, andremo la prima cosa lungamente pensando con che ordine, o con quai modi noi possiamo fare il componimento che sia bellissimo, e facendone schizzi e modelli su per le carte, andremo esaminando e tutta l’istoria, e ciascuna parte di essa, ed in ciò chiederemo consiglio a tutti i nostri amici; finalmente noi ci affaticheremo che tutte le cose sieno da noi pensate ed esaminate di maniera, che nel nostro lavoro non abbia ad esser cosa alcuna, che noi non sappiamo molto bene in qual parte dell’opera ella si abbi a collocare. Ed acciocchè noi sappiamo questo più certo, ci gioverà sopra i modelli tirare una rete, acciocchè poi nel metter in opera le cose venghin poste, come cavate dagli esempi privati, tutte a’ luoghi loro proprj. E nel condurre a fine il lavoro, vi porremo quella diligenza congiunta con quella celerità del fare, che non sbigottisca per il tedio altrui dal finirla, nè il desiderio di finirla troppo presto non ci precipiti. Bisogna talvolta intralasciare la fatica dell’opera, e recreare l’animo, nè si deve far quel che fanno molti, che si metton a fare più opere ed incomincian questa, e la principiata lasciano imperfetta. Ma quelle opere che tu avrai incominciate, le debbi finire interamente del tutto. Rispose Apelle ad uno che gli mostrava una sua pittura e diceva, io la dipinsi presto or’ ora: senza che tu lo dicessi, si vedeva chiaro, anzi mi maraviglio che tu non abbi dipinte infinite a questo modo. Io ho veduti alcuni Pittori e Scultori, ed Oratori, e Poeti ancora, se alcuni però si trovano in questa nostra età che si possino chiamar Oratori o Poeti, essersi messi con ardentissimo studio a far qualche opera, i quali mancato poi quello ardore dell’ingegno, lasciano stare la incominciata e rozza opera imperfetta, e spinti da nuovo desiderio, si mettono a voler di nuovo fare qualche altra cosa più nuova, i quali uomini io certamente biasimo. Imperocchè tutti coloro che desiderano che le opere loro sieno grate e care a’ posteri, bisogna che pensino prima molto bene a detta opera, e la conduchino con grandissima diligenza a perfezione. Conciossiachè in molte cose non è manco grata la diligenza che qualsivoglia ingegno. Ma bisogna fuggire quella superflua superstizione di coloro, per chiamarla così, i quali mentre che vogliono che i lavori non abbino pur alcun minimo difetto, e cercano che ei sieno pur troppo puliti, fanno talmente che le opere loro paino consumate dalla vecchiezza avanti che finite. I Pittori antichi solevano biasimare Protogene che non sapeva mai cavar le mani di sopra una tavola. E ragionevolmente certo. Imperocchè egli è di necessità sforzarsi di por tanta diligenza nelle cose, quanta sia abbastanza, secondo il valore dell’ingegno. Ma il volere in ogni cosa più di quel che tu possa, o che si convenga, è cosa da uno ingegno piuttosto ostinato che diligente. Bisogna adunque por nelle cose una diligenza moderata, chiederne parere agli amici, anzi nel metter in alto detto lavoro, è bene stare ad ascoltare, e chiamare a vederlo di tempo in tempo quasi ciascuno. Ed in questo modo il lavoro del Pittore è per dovere essere grato alla moltitudine. Il giudicio adunque e la censura della moltitudine non sarà allora sprezzata, quando ancora tu potrai satisfare alle diverse opinioni. Dicono che Apelle si soleva nascondere dietro alla tavola, acciocchè coloro che la riguardavano potessero più liberamente parlare, ed egli stare ad ascoltale più onestamente i difetti de’ suoi lavori, che essi raccontavano. Io vorrei adunque che i nostri Pittori stessino scoperti ad udire spesso, ed a ricercare ognuno che li dicesse liberamente quel che le ne pare; conciossiachè questo giova ad intender la varietà delle cose, e ad acquistarsi molto una certa grazia. Conciossiachè non è nessuno che non si attribuisca a cosa onorata, l’avere a dire il parer suo circa le fatiche d’altri. Oltra di questo non si ha punto da dubitare, che il giudizio di coloro che biasimano e che sono invidiosi, possa detrarre punto delle lodi del Pittore. Stia adunque il Pittore ad ascoltare ognuno, e prima esamini seco stesso la cosa e la emendi. Di poi quando avrà udito ognuno, facci a modo di quei che più sanno. Queste son le cose che a me è parso aver da dire della Pittura in questi miei commentarj. E se queste cose son tali ch’elle arrechino a’ Pittori comodità, o utilità alcuna, io aspetto per principal premio delle mie fatiche, che essi mi ritraghino nelle istorie loro, acciocchè ei dimostrino per questa via a quei che verranno, di esser stati ricordevoli, e grati del beneficio, e dimostrino che io sia stato studioso di essa arte. E se io non ho satisfatto a quanto essi aspettavano da me, almanco non mi biasimino che io abbia avuto ardire di mettermi a tanta impresa. Imperocchè se l’ingegno mio non ha potuto condurre a fine quel che è lodevole di tentare, ricordinsi, che nelle cose grandissime, suole attribuirsi a lode, lo aver voluto mettersi a quel che è difficilissimo. Seguiteranno forse alcuni che suppliranno a quel ch’io avessi mancato, e che potranno in questa eccellentissima, e degnissima arte, giovare molto più a’ Pittori: i quali se per avventura succederanno, io li prego quanto più so e posso, che piglino questa fatica con lieto, e pronto animo, nella quale essi ed esercitino gl’ingegni loro, e conduchino questa nobilissima arte al colmo dell’eccellenza. Io nondimeno avrò piacere di essere stato il primo ad avermi acquistata la palma in essermi affaticato di scrivere sopra questa ingegnosissima arte. La quale veramente difficile impresa, se io non ho saputo condurre a quella perfezione della espettazione che ne avevano coloro che leggono, si debbe darne la colpa alla natura piuttosto che a me, la quale par che abbi imposta quella legge alle cose, che ei non è arte nessuna che non abbi presi i suoi principj da cose difettose. Imperocchè si dice, che nessuna cosa è nata perfetta. E coloro che verranno dopo a me, se alcuni ne verranno, che sieno di studio, e d’ingegno più valenti di me, doveranno forse condur quest’arte della Pittura alla somma perfezione.