Renato Serra

Giuseppe De Robertis/Alfredo Grilli Indice:Serra - Scritti, Le Monnier, 1938, I.djvu Letteratura Alfredo Panzini Intestazione 27 agosto 2023 100% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Scritti (Serra)


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Il nome ch’io ho scritto in capo a queste pagine non è certo di un ignoto; e pochi saranno, io credo, che non si ricordino d’averlo incontrato qualche volta con piacere nelle pagine di un periodico.

Ma nè anche si può dire che sia d’uno scrittore famoso; di quelli che hanno una fisonomia propria, ben rilevata e stampata nella niente di tutti.

Egli vive in una sorta di penombra, dalla quale pare che non si sia mai curato di uscire. Nè io pretenderò di recarlo in piena luce, su queste pagine destinate anch’esse a una ombra discreta.

Soltanto, poichè si tratta di un romagnolo e di uno scrittore che io amo molto e crederei degno di ogni fortuna, ne dirò qualche cosa; non con intenzione di saggio criticamente compiuto e preciso, ma come si parlerebbe d’un amico; quando si volesse presentarlo, invitare altri a far la sua conoscenza. Del resto, diciamolo pur subito, in tutta l’opera sua quel che v’ha più simpatico è proprio lui, Alfredo Panzini.

Egli è dunque, e prima di tutto, un romagnolo. È nato, per dir vero, a Senigallia, ma la [p. 102 modifica]famiglia era di Rimini; e nella campagna di Rimini, vicino al mare, dev’essere ancora la vecchia casa di quella brava gente, il cui nome fu onorato nelle cronache della liberazione d’Italia. Quanto alla vita di lui, basta saperne quello che si trova ricordato bonariamente nei suoi libri: che le sue condizioni erano modeste, di una un poco rustica pulizia; passò la adolescenza in collegio, poi fu a Bologna e uscì maestro di belle lettere dalla scuola del Carducci. Ora sta a Milano, dove insegna in una scuola secondaria, da molti anni; che già ha passato i quaranta. Ha famiglia, e figliuoli grandicelli, coi quali tutti gli anni se ne viene l’estate alla spiaggia più romagnola, a Bellaria.; e molti di Cesena e di Forlì, che non conoscono la Lanterna di Diogene, si ricordano bene di lui e dei suoi bambini biondi: «Panzini.... già, quel professore che viene a Bellaria, dicono: ah, tanto un brav’uomo....».

Tale a vederlo, tale a praticarlo nei libri: un gran brav’uomo; professore, sì; ma molto meglio romagnolo che professore. Non ha nè mutria nè supercilio ispido; il meno possibile di cartacce in tasca e di pedanteria nel parlare.

La scuola non ha saputo cambiarlo e neanche la gran città; è rimasto semplice, bonario, con la sua natura schietta e coi suoi gusti casalinghi. È uno dei nostri; un po’ goffo, se volete; ma col cuore sano e l’anima generosa.

Tutta quella così detta scienza, di cui la sua mente si è adornata, non lo fa nè superbo nè contento: egli in mezzo allo strepito di Milano sospira il suo paese e la sua casa lontana.

Sospira la sua vecchia mamma, e la cameretta tranquilla, piena di memorie: ma sospira anche il buon mangiare di casa, la tovaglia pulita, [p. 103 modifica]scintillante di pace benigna sulla gran tavola: «pensare alle trattorie, egli soggiunge in qualche luogo, dove su le tovaglie grinzite muoiono le ultime mosche, e il cameriere al grave odore della cucina si assopisce col mento ispido su lo sparato sudicio; pensare agli acri mangiari della città!».

Questi sono proprio i gusti di un romagnolo: egli li conserva schietti e li esprime semplicemente. Vi sa parlare del pane fresco e del buon vino sano del suo paese, della frutta saporita e delle lenzuola di bucato, che rinfrescano così bene il viaggiatore stanco nel letto di casa o anche in un letto di locanda, all’ora della siesta, alla quale il ciclista leva il suo inno. «O frescura delle lenzuola di bucato, o voluttà del buio nella stanza, con la coscienza che lentamente si spegne (vedendo però attraverso un tenue spiraglio della finestra l’immagine del gran sole!), o sonno senza sogni, senza visioni, senza sussulti! Quante poche volte mi accadde di dormire così!».

Perfino nella letteratura egli porta questa sua semplicità; e «Io voglio molto bene», dice, «all’Ariosto; ma oltre che pe’ suoi sogni sereni, molto io l’amo per le sue verità buone; fra cui questa:

In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta su ’n stecco m’inforco».

Le sue pagine sono piene di questa sensualità sana e lieta. Essa vi tocca il cuore di profumo paesano, così come quelle prime violette che la mamma ha colto per lui sulla ripa del viottolo che porta a marina, e gli ha inviato dentro una lettera.

Del resto, Milano e tutta quella civiltà e modernità lo seccano alquanto; l’abito nero delle cerimonie ufficiali gli stringe, i quartieri d’affitto [p. 104 modifica]son troppo piccoli e cari e senza scoperto; c’è troppo fumo, polvere, fracasso. O scapparsene in riva al mare, in campagna, a respirare l’aria pura e a godere un poco di pace!

Questo è in lui persistente e rifiorente desiderio di tutte le ore; il quale per altro si vuole intendere con discrezione, come d’onest’uomo, senza pretese poetiche o arcadiche; romagnolo anche in questo. Egli desidera infinitamente il mare e la campagna; gli alberi e l’erba fresca, le casine pulite col pergolato intorno e il frutteto, e il gridio delle galline sull’aia nei chiari mattini. Ma il suo amore è sano e umano, non è idillio, non è ebrezza dell’anima delle cose. Egli ama nei campi non meno la bellezza, la fragranza che la bontà e la utilità; col sentimento di un antico egli trova che la vita dell’uomo ivi è compiuta della naturale operazione di ogni sua facoltà.

Quanto dolce sarebbe lavorare la terra e godersene i frutti per l’uomo condannato alla oscura noia dei libri e della città!

L’ideale suo è più di vita che di poesia. Egli guarda nei campi non solo il verde ma anche il contadino; lo guarda con occhio umanamente sereno, al quale i calli delle mani e l’indurimento delle giunture affaticate non sono meno visibili che il viso fosco e la cravatta rossa, e le bocche inasprite dall’urlo dell’inno.

Questo professore dalla cera bonaria è rimasto sempre, e sopra ogni cosa, un uomo, in mezzo agli uomini; i loro disordini e le lotte, i contrasti e le iniquità della loro condizione, non sono per lui uno spettacolo vano.

Se alcuna volta vi parrà che la sua intelligenza lo disponga allo scetticismo, sotto l’apparenza [p. 105 modifica]ironica voi troverete sempre la natura pratica e generosa del romagnolo; per il quale problema massimo dell’universo è l’assetto delle cose umane. Col cuore colmo di ansia egli interroga il destino e spia da che parte debba discendere fra gli uomini la giustizia e la felicità.

Vi par egli che questa natura sia un po’ troppo terra terra, rustica, provinciale?

Ma tale è il Panzini; e a pensarci un poco, è poi molto facile conchiudere che in tanta cosidetta complicazione e artificialità della nostra letteratura, la semplicità di quest’uomo, dall’animo onesto e dal sentire limpido e schietto, deve pur avere il suo pregio e il suo profumo. Esso resta fra le pagine dei suoi libri come lo spigonardo fra le tele bianche: hominem pagina sapit.

Egli stesso ha scritto una volta, e intendeva di sè: «È molto bene conservare nel lago del cuore una goccia d’acqua non inquinata, un po’ di infantile freschezza di spirito, per cui si assaporano le umili ingenue cose, nel modo medesimo chi uno stomaco sano fa trovare saporite le rusticane vivande».

Ma poi, non fidiamoci alla superficie; l’uomo è molto meno semplice di quel che a prima vista non paia. Se il suo carattere era solido e unito, la vita ha saputo arricchirlo di dolore e d’ironia. Bisogna rendersi conto di questo per apprezzare il Panzini come si merita e per volergli bene. Ricordiamoci la sua condizione; di professore. In questa parola, sola è racchiusa per molta parte il dramma della sua esistenza. E di quante altre!

Chi non lo conosce questo tipo così malinconicamente comune del buono allievo delle Muse, costretto a tirar la carriola e a girare la macina dell’insegnamento? [p. 106 modifica]

È il tipo mezzano fra i due estremi; del professore dagli occhiali d’oro e dalia fronte lucente, destinato a volare com’aquila nei cieli della scienza accademica e ufficiale; e del pover’uomo raggrinzito, raccartocciato e rincretinito fra i registri, i colleghi, i compiti, i figlioli, la moglie, la serva, e i genitori degli alunni e i pettegolezzi della cittaducola di provincia.

Ma costui, come dicevo, sta in mezzo, con la sua figura un poco smorzata e sfumata e quasi stinta; con quella schiena un po’ gobba e quel soprabito forse un po’ frusto, intorno a cui aleggiando le ricordanze di Virgilio e di Dante suscitano un’impressione vaga, dove il sorriso si confonde con la tristezza.

Come si può essere statò giovini, generosi e audaci, avere goduto per lunghi anni la conversazione dei magni spiriti, avere amato la poesia o sognato forse la gloria, per ritrovarsi poi infine maestri di grammatica e di ortografia a una turba di fanciulli petulanti?

Questo è il destino di molti.

Ai quali la scienza e i titoli per i concorsi non valgono a riempire il cuore; nè la lotta con gli scolari e con lo stipendio basta a disseccare la niente. Noi sentiamo a guardarli, per quanto ispidi e curvi nell’ingrato ufficio, che essi non erano nati a ciò; erano nati, come ogni altro uomo fra noi, a vivere e a amare e a guardare queste belle cose del mondo. Si sono rassegnati, ma non sanno adattarsi; non sanno dimenticare da giovinezza e la poesia. Un’ombra ne corre ad ora ad ora sulle fronti, un rimpianto ne trema nella voce.

Tutto questo può essere qualche cosa di muto quasi e non avvertito; un’ombra appunto o una sfumatura, fra comica e malinconica. Ma può [p. 107 modifica]anche essere un senso più sottile e più ricco, un tormento segreto e molteplice; se non la ribellione superba del poeta, che distrugge nel suo spirito le coniugazioni e i registri e affonda in quel cielo che solum è suo, almeno il sospiro melodioso e arguto di Severino («mentre con gobbe spalle va sfregiando — nella scuola, gli error d’ortografia»).... e può essere anche, la voce del Panzini.

Nel quale la contraddizione è inconciliabile fra la natura e il destino; ed è dissidio dell’umanista col pedagogo; della natività e sensualità del carattere con la servitù quotidiana; del poeta con la vita.

Il dissidio si sfoga nell’opera. Aggiungiamo che non vi si discioglie così come il dolore nel pianto o nel canto; ma dentro vi resta, e freme, e mormora, come acqua rotta da remolo inconsumabile.

Quest’opera si sa qual’è. Si iniziò con un tentativo giovanile di critica, sulla evoluzione politica di Giosue Carducci.

Quivi i limiti e le qualità del suo ingegno già sono evidenti. Del resto non è un semplice saggio critico, una esercitazione dottrinaria: nella persona del Carducci il Panzini si trova di fronte a tutte le angoscie e a tutti i desideri che seguitarono ad agitare la sua arte, e anche la vita. Egli era scolaro del Carducci. Questo è stato per lui suggello quasi di una seconda natura.

Egli poi è molto vicino a quella generazione, poca e scelta, dei veri scolari del maestro, pieni della sua voce e del suo nume, che in lui [p. 108 modifica]conobbero e conchiusero tutto l’ideale del loro spirito; candidissimo esemplare ne restava il buon Severino.

Dico che il Panzini tiene molto di castoro; se non quanto il suo temperamento nativo e gagliardo ha consentito solo agli influssi più geniali. Nè intera ha ricevuta la impronta carducciana nello stile; e nè meno, lasciando stare i versi, che pare non ne abbia scritti mai, ha accettato l’abito, dominante nel maestro, dell’erudizione e della ricerca storica.

Ma l’ideale della vita e dell’arte e della generosa umanità da lui l’ha ricevuto; e brilla ancora fermo nel cielo della sua mente. Con tutte le sue contraddizioni e i mancamenti e i partiti presi.

Per il Carducci, lasciatemi accennar come posso, l’ideale veramente vivo è la poesia; sentita e amata non soltanto come pienezza lirica del cuore, ma come abito e gentilezza della mente, conversazione e comunione con i grandi, opera di civiltà e di nobiltà umana. La sua poesia è anche pratica, è storia, è patria, è aristocrazia; è sopra tutto umanità. Se non che i concetti che dal grossolano positivismo del suo tempo egli ha troppo spesso raccattato sull’indirizzo pratico della civiltà moderna, sull’utilitarismo e la democrazia, fanno nella sua mente grido e contrasto; gli rappresentano l’ideale suo per falso, retorico, scolastico; nè egli riesce a sciogliersi nettamente dall’intrico, se non in apparenza, come quando riporta la poesia al passato, accettando che sia morta nel presente e nell’avvenire; oppure il suo temperamento poetico si rivolta, e sopra le incertezze del pensiero si afferma la prepotenza eterna e libera delle canzoni.

Ma il Panzini non è mai uscito [p. 109 modifica]intellettualmente dalla forma del maestro. Egli era ed è rimasto innamorato della poesia, della cultura, della civiltà secondo i nomi e i sentimenti antichi; e pur convinto insieme che tutto questo sia falso e quei nomi vani: che il tempo speso sulle pagine dei gloriosi volumi sia perduto, e scemo il loro insegnamento; che il fine dell’uomo oggi sia affatto utilitario e democratico, e che il suo valore sincero debba avere una misura solamente materiale. Questo il suo istinto rifiuta, ma la ragione riconosce per vero, con alcuna amara voluttà: e lo spirito si dibatte fra i due contrari poli, senza trovare mai pace.

Nella «evoluzione politica» egli affrontava per la prima volta questo problema morale della sua generazione, combattuta fra la insufficienza dei vecchi ideali, e il vuoto il disgusto dei nuovi; e tentava di superarlo fingendo, nel nome del Carducci, un tipo dell’eroe, che mantenesse le ragioni della storia civile e della persona umana sopra la eguaglianza moderna delle masse.

La risoluzione era affatto superficiale; l’eroe mancava di ogni consistenza intellettuale e anche fantastica.

Ma se in questo si dimostravano i limiti dell’intelligenza del Panzini, che è più savia e chiara che non vasta o speculativa; in altra parte si vedeva l’ingegno. Bellissima, viva, nervosa, per quanto un po’ incerta nel tocco, appariva l’immagine ritratta in più luoghi del Carducci, e specialmente quando era nella sua scuola e parlava ai giovani: si sentiva l’eco della sua parola, il fremito acceso dell’entusiasmo. Attraverso le pagine disuguali e nello sforzo della valutazione critica un po’ confuse passava la eloquenza della passione e della inquietudine. [p. 110 modifica]

Dopo questo tentativo il Panzini seguitò a far l’insegnante; e a scriver novelle. In quanto ai tormenti del suo spirito, egli non si provò più a risolverli col pensiero; ma, avendoli accettati con rassegnazione, si volse piuttosto a svilupparli e assaporarli con una sincerità fra dolorosa e curiosa.

Le novelle sono, con le loro qualità preziose di narrazione e di rappresentazione, talora un divertimento, talora uno sfogo dell’autore. Sovente si tratta di saggi, variazioni, divagazioni mi po’ fantastiche e un po’ sentimentali; ma anche quando della novella c’è la favola e la forma esteriore, non c’è quasi mai lo spirito vero.1 L’interesse dell’autore non è nei personaggi, di cui gli accade di raccontarci la storia; è nel suo proprio cuore. La voce di lui parla su bocche diverse; la sua narrazione è sopra tutto un lungo e meditativo soliloquio, variato a tratti di immagini e di figure leggere.

E tornano in campo le preoccupazioni politiche e sociali; «un uomo in due» domanda quale sia il valore dell’ingegno astratto e selvatico, se v’abbia un diritto sociale di sfruttarlo praticamente. Altrove s’affaccia il problema della [p. 111 modifica]famiglia, dei figli; se s’abbiano da educare al culto delle vecchie e splendide illusioni, o da abbandonare senza contrasto ai tempi nuovi. Nella lettura di un giornale, nella ricerca di un appartamento saltano agli occhi le disuguaglianze sociali; da una parte è il foglio socialista che registra senza ribellarsi i fasti del lusso folle crudele, dall’altra il portinaio che quasi non riconosce al povero onest’uomo carico di prole il diritto di insudiciare un appartamento per bene.

L’avventura di un avvocato in cerca di lavoro, sballottato fra le buone parole e la profonda indifferenza di quelli che gli si offrivano come sostegni dell’umanità, il sacerdote della vecchia religione e l’apostolo del verbo nuovo, e salvato alla fine dalla rozza pietà di un salumaio, rappresenta con la inutilità della laurea e della cultura, la ironia della nostra civiltà verso gli nomini delle classi medie.

Dovrò io allungare questa rassegna? Cambiano i nomi, le cose non cambiano. E l’argomento vero dell’autore si sente bene che non è già l’avventura dei suoi personaggi, ma la lezione che ne sorge a investire più largamente la vita umana; contraddizione e miseria del destino, alla quale il Panzini par che risponda con il sorriso della sua descrizione pacata. Questo è il suo umorismo, molto semplice; del resto ad ora la pietà la tristezza l’affetto lo interrompono senza veli.

Quel che più spesso lo assale è il dubbio — ricordatevi del professore e della figura che gli conosciamo — intorno al valore e alla utilità della cultura, dei sogni e delle illusioni poetiche. Altro non vuol dire quel bel trattore paffuto, che regala una colazione per gratitudine al professore che l’ha bocciato e respinto dalle arti liberali; [p. 112 modifica]e la scena questa volta nella sua brevità e sobrietà di commenti, appena sottolineati dalla inflessione delle voci, è assai piacevole. O avrà ragione anche quel Leuma, che ha abbandonato l’insegnamento e la poesia per diventare un buon marito e un bravo consigliere comunale?

Ma la vita non ha solo di queste ironie.

Ecco il maggiore, disgustato non meno dell’ingratitudine del governo che dei cibi indigesti della trattoria, che cerca una compagna alla sua vecchiezza corrucciata nella maestrina che s’era avvezza a mangiare al suo tavolino; ecco il magistrato, invecchiato fra le sentenze e la morale e il lusso di famiglia, a cui due occhi maliziosi incontrati sul tram persuadono i peccati della primavera e le sciocchezze di una gioventù che non è più sua....

Non v’inganni la piacevolezza del narratore a rilevare gli aspetti comici e anche un po’ ridicoli di queste avventure; in quei personaggi e in quei casi egli ritrova sè stesso; e tutta la noia e la pietà, e il desiderio vano di giovinezza e di gioia che parla in quelle anime, è la voce dell’anima sua.

O giovinezza che passi e non torni, o amore che sorridesti e non sorridi, come quest’uomo, che sembra al viso così tranquillo, ti cerca dentro il suo cuore e ti piange!

Altrove la materia del racconto è anche più lieve; è il ricordo di una scappata d’innamorato, appena velato nel nome e con l’uso della terza persona, è il ritorno alla casa paterna, o la lettera in cui la mamma ha chiuso le viole e le memorie; è l’incontro con la donna, che lo studente aveva conosciuto sartina per le contrade di Bologna, e l’uomo ritrova attrice elegante....

Il vero è che naturale argomento del Panzini [p. 113 modifica]è la sua propria vita, naturale espressione del suo spirito, è il soliloquio e la meditazione.

La novella sua par che non trovi in sè sola consistenza; i suoi personaggi sono figure e profili segnati con rapida bravura più assai che creature parlanti. Curioso per un momento della loro l’orma, egli le abbandona presto per ritornare sopra sè stesso; e se pare che più a lungo le accompagni nei loro movimenti, si trova poi che è mia illusione. Non a caso i suoi dialoghi sono così stilizzati e generici; quasi tutti trascritti in forma impersonale, con le parole e le cadenze dell’autore. Egli non è mai osservatore schietto del vero; ne conosce soltanto quella parte che ha potuto appropriarsi e ricavare dall’interno suo.

E quella parte della sua opera che vorrebbe essere più schiettamente narrativa ò la più insipida. Penso a molte novelle sparse, e al volume dei Trionfi di donna, che doveva essere nell’intenzione sua rappresentativo delle varie e nuove figure della donna moderna; ma è, fuor che in qualche bozzetto e spunto descrittivo, cosa assai fredda; manca di penetrazione e di rilievo; c’è qualche cosa di vivo in quei personaggi maschili che rappresentano l’autore, la sua timidezza e la curiosità, ma anche questa parte, in sè più sentita, non è fusa bene con le altre assai banali.

Le cose migliori le abbiamo accennate: e ricorderò soltanto, che dimostrano l’ultima e più sicura maniera, due novelle della N. A. La casa delle vecchie è la cronaca di una delle dimore del Panzini inquilino milanese; il centro del racconto, in piena luce, è la camera del professore; intorno i suoi pensieri e i suoi bimbi; più lontano, nella penombra della scala e dei pianerottoli bui, passano come larve silenziose queste figure [p. 114 modifica]di vecchie, buie fantastiche e pur vive come nel chiaroscuro di una acquaforte tedesca. Quel parlottare sommesso, quel susurro di rosari, quelle piccole querele e invidie e avventure, e i sogni e la morte, si confondono con un rimpianto di sole e di verde, si perdono fra i suoni vaganti nell’alba assonnata.

Bellissima cosa è poi la novella dei «mimmi»; la più sobria e forte cosa forse che il P. abbia fatto. Eppure c’è ben del suo in quel protagonista, che dovrebbe ristorare in campagna la sua nevrastenia e non riesce se non a irritarla: che sfoga la sua bontà e la sua tenerezza con la musoneria e col sarcasmo, che sta per cedere, senza volere e senza confessare, al gracile incanto di una figurina femminile; essa lo sfiora timida e poi vola senza essersi accorta al fine di un suo amore molto savio e pratico. Ma tutto questo è segnato nei paragrafi di una cronaca secca, impersonale e perfetta; a cui nè una parola è oziosa nè un aggettivo ridonda; il dramma freme, e non si sa come, in quei particolari prosaici, indifferenti come cose vere.

Ma lasciamo andare; dopo aver corso tante pagine si torna sempre a un punto; alla persona e al carattere dell’autore, che è infine fra tutte le creature dei suoi libri la più amabile.

La grazia del suo raccontare non nasce nè dall’agevolezza dell’invenzione nè dal rilievo lucido delle fantasie; per novelle, son piene di difetti, disuguali, incerte, imperfette. Ma la sua voce si sente in tutte; e in tutte trema, come nei pezzi d’un cristallo rotto, la immagine di lui.

E quella volta che egli ha preso per argomento del suo libro, non i casi e i tormenti propri incorporati in persone aliene, ma puramente e [p. 115 modifica]semplicemente sè stesso, allora ha scritto quello che fino ad oggi è da chiamare il suo capolavoro: il Viaggio sentimentale.

La prima prova fu un viaggio in bicicletta, che egli narrò col titolo Nella terra dei santi e dei poeti e mescolò a una raccolta di novelle. Quello fu come il primo getto; la prova definitiva gli venne fatta dieci anni dopo, nella maturità dell’ingegno e della coscienza, e fu la Lanterna di Diogene.

Tutti i motivi e i movimenti famigliali al P., osservati fin qui sparsamente, ci tornano innanzi nella loro purezza.

È, dicevo, il viaggio sentimentale del professore che fugge la scuola, dell’uomo che corre verso la poesia.

Siamo a Milano, di luglio, quando le scuole si son chiuse; un’improvvisa nostalgia di campi e di sole e di aria assale l’uomo delle coniugazioni. I suoi quarant’anmi e il decoro professionale non gli impediscono di saltare sulla vecchia, bicicletta e di scappare come uno scolaro in vacanza.

Un critico di mestiere qui citerebbe i Reisebilder; e certo somiglianze se ne intravedono, e forse anche il P. ha dovuto alla lettura del Heine quell’incontro di una forma fin dal principio sciolta e libera. Ma poi.... Arrigo Heine non ha solo le gambe di vent’anni e la gaiezza dello studente sul viso; egli è il poeta e il suo cuore è eternamente giovine, è il monello di genio che s’abbandona a tutte le venture delle bianche strade, a tutti i richiami degli alberi e dei fiori e delle fanciulle per il mondo, cantando, come canta un uccello al vento: tutto è bellezza e amore sul suo cammino, tutto è felice alla sua insolenza, anche le lagrime e gli scherni e i corrucci. [p. 116 modifica]

Alfredo Panzini non ignora queste gioie dell’andare: bevono l’aria i suoi polmoni e si sciolgono i muscoli nel fervore della corsa leggera. Quel che era nel suo cuore giovine e fresco si risveglia, e ritrova andando, con sorpresa, le gioie, antiche e pure; del mattino della luce dell’ombra dell’ozio.

E per la grande strada Emilia, per la strada del mare e della libertà, assai vario e gustoso è il dialogo del professore che si spoglia e dell’uomo nudo che si rivela; o cielo, o sole, o siepi polverose nell’ardente luglio!

Ma come tutto ciò è timido e fuggitivo dentro di lui!

Pareva che il mondo dei compiti, degli stipendi, del quotidiano carcere fragoroso, fosse caduto dalla memoria; già lo invitava il nuovo mondo sereno, dove le cose esistono per la gioia dei suoi vergini occhi.

Già la gola trema e si gonfia dell’inno sonoro, inno di liberazione e di trionfo, che il poeta esalterà franco da tutte le servitù del vivere. L’inno si ferma sulle labbra, si spegne in un sorriso e in un sospiro.

Il poeta si è ricordato dei suoi quarant’anni e della sua condizione; la gobba schiena e il marchio del tavolino e della cattedra si sono mescolati nel suo spirito limpido a quelle velleità di ebbrezza fisica e allo splendore del canto. Canto sognato, e non cantato mai.

E non è solo Pane che si provi di cantare le sue canzoni nel silenzio meridiano; ma dalle mura delle città e su per la corrente degli storici fiumi le grandi immagini e le memorie del passato si muovono ad incontrarlo mormorando; ma sugli spalti ventosi della montagna e lungo la riva [p. 117 modifica]dell’azzurro mare pussano ligure di donne, dal seno gonfio dei sospiri d’amore, e amore iddio sorge agli occhi dell’uomo mortale, legge e ragione eterna del vivere, gioia unica e fuggitiva del mondo.

Solo un sorriso risponde; non son queste le ghirlandine secche, che il povero professore è costretto a sospendere presso la grotta delle ninfe eterne, quasi per dovere d’ufficio?

Immaginate un Carducci (non vogliamo allo scolaro ricordare altro nome che del maestro) passare timidamente davanti San Guido, sorridendo dei cipressi e dei rusignoli e delle fiabe di nonna Lucia, come dei tentativi inani di una povera fantasia; un Carducci, a cui le memorie volanti solenni dalla mole di San Petronio si accartocciassero sulle carte tutte pallide e monche, con un sospetto di reminiscenza scolastica....

Questo accade al Panzini, tutto questo si succede e balza e gioca nel suo spirito con una piacevolezza onesta e alquanto umile: poichè la composizione finale è amara: un pover’uomo tu se’.

Il ritornello breve e ugnale conchiude tutte le strofe della lunga canzone, sempre interrotta e sempre ripresa; talora è come un sorriso, talora un sospiro o un singhiozzo segreto, che s’indovina fra l’uno episodio e l’altro del viaggio, e che ci richiama a quello che ne è il vero argomento, il suo autore.

Poichè se bene par che ci sia un poco di tutto nel volume che ha per teatro la strada Emilia e i boschi dell’Appennino, la marina di Bellaria — questo è luogo per lungo uso caro allo scrittore e al novellatore — la laguna di Comacchio, il camposanto delle Myricae e il cimitero di Musocco; in fondo c’è una cosa sola: il Panzini. [p. 118 modifica]

È inutile ch’io vi descrivi quel suo fare ben conosciuto. Sdii sempre, come nelle novelle, bozzetti; figurine dal profilo evidente; ma non sanno staccarsi da quel lembo del taccuino dove la matita del viandante le segnò rapida, ed egli proseguì pensieroso.

Ricorderò, per un saggio solo, la vignetta, che io prendo in un altro luogo e che pur mi rappresenta così gentilmente anche quelle della Lanterna: «Ma da una di quelle finestrelle, fra i garofani, ecco sporse una testolina di giovanetta, nera e curiosa come capo di rondinella dal suo nido sospeso». Ed ora sentite il sospiro: «Non so come, un nome mi si presentò: Nerina! e le palpebre degli occhi miei, che in verità sono assai stanchi ma non piangono più, cominciarono a battere per il fantasma di un nome di amore!».

Continuate ancora un po’ il soliloquio, lasciate al pensiero agio di riflettersi un istante dentro se, e vedrete la dolce figura e il moto d’amore essere sbattuti dallo specchio della ironia.

Poichè tale è l’umorismo vero del Panzini: ed è più nel fondo che nella forma, più nella disposizione dell’animo che nella voce; par che nasca dalla materia stessa, che è poi la persona dello scrittore con la sua facoltà di rappresentarsi quasi sdoppiata nel contrasto delle intenzioni grandi e degli effetti molto piccini. C’è un luogo in cui qualcuno ostenta, nella bottega di un tabaccaio, il coltello aperto e fosche parole....

«Il mio sentimento di vero profeta gli aveva preso subito il polso come una tanaglia e fatta cadere l’arma maledetta; ma la mia mano non si era mossa nè meno.

«Anche senza ricordare i geniali studi del Lombroso, capii subito che a dirgli una parola [p. 119 modifica]come gli andava detta, si correva il rischio di mutare il proprio ventre in cuscinetto per quello spillo.

«E tacqui.

«Mi sdegnai col mio silenzio, eppure tacqui. Fare il vero profeta è cosa difficilissima».

E qui si vede bene l’ironia che è in fondo, nella confessione; si sente anche in qualche punto, nel cuscinetto, per esempio, e nella citazione dei geniali studi, una arguzia più desiderata che ottenuta. Questo è uno dei difetti dell’uomo; un modo di parlare ostentatamente umoristico e spesso alquanto goffo, del quale non sarebbe difficile dare la ricetta, fatta per lo più di contrasti verbali, e di inflessioni, o solenni, o umili, studiosamente discordate dal l’argomento.

Sono in genere frasi a doppio effetto, come questa, che è titolo a un capo della Lanterna: «Casetta mia (d’affitto)»; o anche, simile, ma con la parentesi intenzionalmente pedantesca, «la più bella luna che mai l’Agosto abbia veduto nascere (dopo quelle descritte da Virgilio)»; oppure, calcando sopra un contrasto assai banale, «Il Dorè avrebbe invidiato quel paesaggio pe’ suoi fantastici disegni! — (notate l’esclamazione) — L’Ariosto l’avrebbe popolato di maghi e di fate.

«Era semplicemente il paese delle Anguille».2 [p. 120 modifica]

Non mi fermo sopra queste abitudini, alle quali qualche lettore frettoloso ha voluto dare troppa importanza. La bontà del Panzini non è già in esse; e neanche nella intelligenza, acuta sì, ma senza forza vera di penetrare le anime altrui e comprenderne in sè e ripeterne il gioco nudo. E di tante figure apparenti sui vetri della lanterna, così nette nella forma esteriore, nessuna forse dentro è viva; ricordo il prete purista, narratore gelido della tragedia famigliare dei Pascoli, accennato un poco più profondamente; ma anche in esso la verità del ritratto è sopra tutto generica, fatta di movimenti comuni e di qualità morali molto astratte.

Questo è un difetto che si risolve in virtù; poichè la magrezza del testo concede libertà varia e grande alla chiosa, che sorge in ogni momento a sviluppare dai casi e dalle forme fuggitive la lezione durabile.

L’episodio notato dal novellatore diventa problema e meditazione per il moralista. Il suo pensiero balza per raffronti subitanei e inaspettati alle cime donde la vita appare come piccolo gioco di ombre nere sullo scenario vano; una vasta e solenne tristezza alita intorno. E se bene alcuna volta3 la solennità è solo nella voce, intonata a una semplicità di sapiente, un poco posticcia, come la barba e il mantello di certi filosofi d’oc[p. 121 modifica]casione, molto più spesso la efficacia di quel parlare è profonda, ricca di malinconica umanità.

Tutti gli episodi della commedia, scoloriscono a un tratto e perdono forma; resta innanzi a noi il teatro nudo e nudi e soli i grandi argomenti dell’eterno dramma; rumano travaglio, con sue vanità e con la speranza inestinguibile, e la morte e l’amore....

Aggiungete che tutto questo è sentito non con la mente pacata e curiosa del moralista, ma col cuore del poeta, che tutte le cose umane riconosce per proprie; e avrete intesa l’ultima nobiltà del Panzini. Poeta, egli è per essa, e il suo luogo è naturalmente fermato, non importa se in alto o un poco più basso, nella buona e antica e umana famiglia dei poeti e della nostra razza, creatori di bellezza e consolatori di uomini.

Non ci inganni la eguaglianza del viso e la remissione del tono; la poesia è dentro, è la qualità intima e la segreta felicità di quest’uomo, di cui ci riesce così caro il semplice ritratto.

Dovrò io ora perdere il mio tempo a giustificare codesta poesia, che ho adoperata solo come alcun colore o qualità psicologica? Ognuno, che sia discreto, m’intende; o se mai, basta ch’ei si metta a leggere le pagine della Lanterna, e che si veda a poco a poco sorgere innanzi la faccia serena e il sorriso, e oda la voce del parlatore. Vorrei piuttosto citare; e trovo che la scelta è difficile.

I primi capitoli, con la cura del moto e del sole, respirano tutta la poesia della strada; ma «la vecchia e il porcello» è pure un saporitissimo idillio. La costruzione della tavola (che piacere, metter da canto i libri e dar mano agli argomenti del falegname), la villa dell’uomo felice, i [p. 122 modifica]martiri dello stomaco, l’inno dei lavoratori sono svolgimento assai arguto di pensieri che già conosciamo; preoccupazioni sociali e inquietudini umane, desideri onesti e malinconiche contraddizioni. Queste formano il fondo del libro; quella corrente, umoristica a fior d’acqua, e dentro se amara, che corre uguale e piena per tutte le pagine; ma negli accidenti e negli episodi del corso, quanto gioco di luci e di spume e di riflessi trascorrenti!

I vagabondi del cammino nell’anima del P. restano specchiati, come in un’acqua chiara; la loro miseria tranquilla e quasi filosoficamente nuda muove il suo desiderio e anche la sua invidia.

«Il ponte di ferro sospeso sopra il piccolo fiume dal nome glorioso, proiettava dalla parte del mare una fredda ombra. Sotto il ponte, in quell’ombra, l’organetto riposava. Esso era sospeso per le cinghie ad un carrettino a quattro piccole ruote e attaccato v’era un asinello. L’asinello aveva declinate le orecchie e dormiva. La donna del vagabondo organista, sdraiata sull’erba, dormiva; disteso supino l’organista dormiva e il suo volto riarso era rivolto alla tenne brezza marina. Una bizzarra linea geometrica, cadendo giù dal ponte e dallo spaldo, divideva nettamente l’ombra dalla luce. Su questa luce il gran pittore del mondo infondeva ardenti tinte di croco e d’oro, preparando la tavolozza del vespero: su quell’ombra sorvolò un brivido di frescura, che si propagò per le erbe e per le chiome dei tamarischi, onde parevano svegliarsi.

«Le lunghe orecchie dell’asino declinavano sempre più e parevano due indici dell’interminabile tempo. Ma se le erbe si erano svegliate, [p. 123 modifica]nessuno dei tre si svegliò: nessun rumore umano diede segno all’intorno che il tempo della siesta fosse per finire».

E poi pensa alla gioia dei bimbi quando i fantocci ballano: a lui dànno fastidio invece, perchè la sua giovinezza è finita. E questa si chiama sapienza! — La divagazione meditativa non è tutta felice, il pensiero del P. ha sempre qualche cosa di incerto, di goffo nel suo discorrere; ma lo spunto com’era quieto e solenne! E passano nella mente altri vagabondi, pellegrini, straccioni invidiati, fino a quella fanatica del Cadore, incontrata nel primo viaggio.

Passano, per la via, altre figure. Ecco la tragica, magra, piccina; di indefinibile età giovane. Andava scalza e trascinava con moto serpentino certi abiti negletti e cadenti, come persona che si è più coperta che vestita. Sul capo, un sontuoso cappello alla moda; carico di veli. Il viso pallido e pieno di tedio, gli occhi fissi lontano.... Dove ha veduta costei?

Ma la sente parlare; riconosce la voce. Voce già udita in grida di Valchiria, in gemiti di cavalla nitrente; ma già io vidi quella zingara vestita da regina, quella piccola figura già la ammirai sollevarsi, contorcersi sotto il soffio della passione. Dove? Sul palcoscenico.

E la donna ripassa, pallida e rigida, fra i tamerici, il suo sguardo erra sul mare, e l’anima dello spettatore erra nel solco d’amore e di voluttà che il gesto di lei fingeva nell’aria muta.

Invano è l’eremo, invano il Nirvana, invano sta il chiostro. Su tutto regna la pandemia venere; al soffio della demoniaca ogni cosa si torce e grida l’invincibile amore.

Questo è principio e fine dell’universo. — Il [p. 124 modifica]tumulto dei pensieri finisce in un sorriso; invece di filosofare dietro ogni donna che passa, (pianto sarebbe più semplice e più igienico cercarne il piacere. Chi possa!

Altri giorni, altre figure, e altre fantasie; ma la passione e l’amore cantano sempre più forte di ogni altra cosa umana. Cantano, con la forza di un torrente, il canto delle vergini ardenti («virgines ardentes»); marchesine zitelle, la cui dote fu sacrificata al lusso del primogenito e della sua moglie preziosa; ora intristiscono nella gran villa e passeggiano contegnose colla marchesa madre dal volto di cammeo ingiallito, per le strade della collina. Imperia va anche in bicicletta; bruna, alta, superba, il vento della muta passione rapisce nella corsa le sue chiome di Menade irrigidita dall’orgoglio.

Ma come sorge bella alla veduta del mare!

Il mare «era verde e livido più che azzurro, e sotto l’impulso del gran vento di levante, quel piano unito si rompeva in lunghe file di schiume bianche, che ricadevano con fragore di armi guerriere.

«La luna pendeva pallida su dal cielo. Verso occidente il cielo era di fiamma. Vera nell’aria la lucentezza livida di un temporale lontano.

«Su lo spaldo della ferrata, dove più feriva il vento, quivi sorgeva, nera, la figura di Imperia. La ricca gonna e i capelli le ventilavano dietro. D’una mano reggeva la sottile macchina perchè il vento non la sbattesse a terra; dell’altra teneva impugnato il berretto onde la fronte e tutto il viso — un viso forte, quasi maschile, ma lumeggiato da due grandissime vertiginose pupille nere di donna — era esposto al vento.

«No, ella non contemplava i cavalloni del [p. 125 modifica]mare che di fianco correvano come lancieri bianchi all’assalto, su per un grande verde piano: ella non contemplava la grande luna di agosto, sorta, che già ancor di sopra era il sole (e aveva detto la luna col suo placido riso beffardo: «Una volta al mese, o fratello sole, ci troviamo insieme a colorire, tu con le fiamme d’oro, io col mio argento, questo incolore branco di formiche con due gambe!»), non contemplava la casetta del cantoniere, asilo di pace; bensì, come assorta, godeva della sferzata del vento, quasi esso formasse su di lei una carezza brutale. «Oh, grande forza, portami via tu!».

Alla figura terribile mettiamo da canto la personcina soave: il poeta, se l’è vista camminare davanti sul sabbione, contra il vento; giovinetta quindicenne, di onestissima e timorata famiglia, già conosciuta alle semplici festicciole da ballo sulla spiaggia.

«La sua grazia non era pareggiata che dalla sua timidezza. Soltanto la grazia dava indizio fisico della sua essenza muliebre. Finito il giro — non ne stava giù uno, che fosse uno — si rifugiava, come paurosa fra il babbo e la mamma: non sapeva stringere la mano al ballerino: alle domande rispondeva a pena con fil di voce: ‘sissignore, nossignore’; ma quando ballava era un incanto, così religiosamente ella ballava, avvinta come un’edera al petto dell’uomo. Ogni moto del piede e della persona era compiuto al ritmo come un atto devoto, con una intensità di piacere da commuovere chi lei riguardasse con occhio profondo.

«Oh, quale contrasto allora che la scopersi, in quel vespero, sola con la compagna su la riva del mare! Evidentemente per lei in quella [p. 126 modifica]stagione estiva si erano per la prima volta accese con nuovo splendore e significazione le antichissime stelle del cielo, sbocciati le erano i fiori, come nel maggio!

«Ella dunque andava con la compagna lungo la via del deserto mare. Il vento, battendo su le esili vesti, disegnava tutto quell’elegante corpo di efebo; il piede nudo non curava le spume del mare; ma come le splendevano gli occhi; come dilatate erano le pupille, già chine e raccolte; come le si era fatta turgida e forte la voce e le parole squillanti, che il vento rapiva!».

Non metterò più nulla accanto a questo bozzetto, che io ho trascritto con affezione, come gentile e cara cosa; per quanto sarebbero ben degni di citazione, e di chiosa a certi nuovi modi accorta, pagine come quelle sul caonposanto «ove nacquero le Myricae», e le altre più mosse nervose di Comacchio, e il solenne alto compianto su «la morte dei nobili pini!». Ma è tempo di chiudere il libro: che ancora è ricco di visioni e di tristezze, e dopo molto sorridere e fantasticare si ferma improvviso a un cimitero, e resta negli occhi un tram tutto nero, che corre in mezzo alla soffice neve, via portandosi un morto, un professore anche lui, che della vita ogni cosa ha tollerato umilmente, perfino i discorsi commemorativi.

Anche il nostro discorso pare che a questo punto potrebbe esser chiuso. Oramai anche per assaggi saltuari e frettolosi, il Panzini l’abbiamo conosciuto. E che cosa altro mai ci eravamo proposti di cercare, se non questa figura onesta e schietta che sorge di sopra le carte che sfogliammo non senza diletto? [p. 127 modifica]

Dico che fin qui si è parlato dell’opera; dell’autore è ancora da dire. Poichè, se ci pensate bene, Alfredo Panzini, quel professore e quell’umorista e tutto insieme quell’uomo, del quale un ritratto bonario si trova abbozzato nel discorso di prima, solo per comodo della descrizione si rappresentava a noi come persona reale; ma realtà non possiede esso altro che fantastica. È anch’egli, come ogni altra persona e parte e qualità che si noti in codeste pagine, una creazione dello scrittore; e la sua consistenza è tutta di parole composte sui fogli con arte, che di quali effetti sia studiosa e per che modi, ancora è da vedere.

Dice la gente alla lesta che il Panzini scrive bene; e qualcuno lo pone già nel numero di quegli scrittori onesti e culti, la cui frequentazione si può consigliare agli scolari, per castigo della forma del dire. Non hanno torto; poichè la cultura si sente bene in lui, e l’abito dello scrivere derivato dalla buona tradizione italiana, e un odore di classicità.

Prendo un periodetto a caso. «Io sentivo in quel principio del viaggio il caro fiore della giovinezza olezzare ancora sul mio dispregio del mondo, come un cespo di viole a ciocche sparge la sua chioma odorosa sopra un cumulo di miserande ruine». Dovrò io sottolineare quel caro fiore, quella chioma, quelle ruine consolate d’un buon aggettivo? Chi lui scritto queste parole, chi ha tradotto così agevolmente il suo pensiero in immagini non meno accademiche che decenti, è, come dicono, uno scudiero dei classici. [p. 128 modifica]

Ma il costume e le intenzioni del suo spirito si trovano espresse più saporitamente in questo quadretto della vecchia bacucca, quella che i bagnanti di Bellaria sentono rovistare per l’aia nel dormiveglia del mattino. «Oh con chi fa diatriba questo grinzoso demonio in gonnella?... Essa parla discretamente con le galline e con il maiale. Invita le galline al pasto dell’intrisa crusca, e le pingui e prepotenti garrisce perchè facciano posto ai grami galluzzi; poi, mentre tutti bezzicano, alterna all’una o all’altra l’amorosa persuasione e l’efficace rimprovero».

Qui si sente troppo bene la intenzione studiosa e ritirata dall’uso volgare, non meno nella scelta dei vocaboli che nella forma del discorso; e poi quella pulizia fra il classico e il toscano, quella cotal gravità degli aggettivi premessi al nome e collocati in simmetria, quella veste solenne di cose semplici, rendono assai di lontano l’odore delle letture e dei buoni studi. Il quale è diffuso in tutte le pagine, e lo esprimono i latinismi della elocuzione, più o meno schietti («nella mia puerizia fui qualche tempo sotto la sua disciplina», ecco un esempio dell’usanza comune; ma chi ne desideri con più rilievo, ecco le bagnanti; «esse ambulavano per la spiaggia d’oro»), e tutte quelle inversioni e artifici e figure classiche della frase, che sarebbe ozioso illustrare. Classica è la consuetudine di sciogliere quasi le cose comuni nei loro elementi generici, sì da rappresentarne la forma con una certa solennità; come per il mangiar le anguille, e berci su: «I cornacchiesi serbano alle loro amatissime anguille una tomba di questo forte e sapido vino nei loro stomachi»; oppure, senza levarsi da queste rustiche mense, «ben tempera quella freschezza della insalata il [p. 129 modifica]grasso arrostito delle succose e fumanti braciuole». (E per chi voglia seguitare sull’argomento, ecco una digestione ornatissima: «L’umile stomaco, la spregiata bile, le pazienti glandole si erano messi all’opera quando io chiusi gli occhi al sonno»). Classico infine è il costume di fiorire i discorsi anche umili di motti e allusioni letterate; costume discreto del resto e parco, che non disconviene alla usata modestia dello scrittore. Il quale sa cavare un sorriso anche da quelle che potrebbero essere pedanterie; ma quale pedanteria più urbana di questa, che voglio citare per ultima: «Il pranzo fu rallegrato da squisite vivande dichiarate con breve chiosa dalla signora suocera»? E sembra a più d’uno che in queste qualità dello stile sommariamente indicate secondo grammatica, si possa trovare il segreto della sua piacevolezza; il contrasto nello scrivere fra gli argomenti tenui e la forma ornatamente composta risponde bene a quella forma di fuori pacata e rimessa che notavamo dell’uomo, ricco della sua anima di movimenti nuovi.

Così, dopo aver fatta l’analisi del sapore di questa prosa, non resterebbe se non mostrarne l’origine. Non c’è bisogno ora di molta finezza per nominare il Carducci.

lo voglio riportare sola una descrizione, del paese presso Superga: «Fra me e la cerchia cinerea delle Alpi correvano i fiumi come trame argentee d’un abito di fata invisibile: invisibile la fata, ma il dolce piano — dall’alpestre roccia onde, Po, tu labi e su cui l’aquila stride — alla torre di Teodorico presso il dolce mare, tutto si discopriva; onde io cominciai a ripetere: «lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina». E lo andava dicendo quel verso come una devota [p. 130 modifica]orazione. E allora anche quella gran mole, lì presso delle tombe dei re di Savoia mi si trasmutò in una bella e nobile fantasia; e confondendosi con i guerreschi monumenti che sono in Torino, io vidi una ferrea spada sopra a quell’Alpe per difesa di quel dolce piano....».

Qui pare carducciano tutto; il paesaggio storicamente animato, e quella immagine che si direbbe uscita dalle Odi Barbare a dominarlo, e l’abbandono in principio fantasticamente lento del dire che si alza infine e si informa della robustezza oratoria latina. Citare ancora sarebbe lungo e ozioso. Il maestro è presente nelle pagine giovanili su l’evoluzione di G. C. dove il piglio animoso, e la impostatura larga del quadro fra storico e filosofico, e la solennità delle immagini, rappresentano la efficacia dei discorsi e saggi di lui, così come è presente nella prosa narrativa e fantastica, più liberamente atteggiata della varietà delle Confessioni e Battaglie.

Del resto, degli influssi del Carducci sulla prosa contemporanea molti parlano; ma a renderne conto distintamente nelle pagine diverse non so chi si sia mai provato. Io dirò in breve che il Panzini mi par da collocare in quella famiglia di discepoli numerata e gentile, che ricevendo dal maestro l’ideale dell’arte e il modello della prosa, lo lavorò poi secondo la natura e l’ingegno con molta varietà. Nomino Severino, che per me è il tipo più schietto; a differenza degli altri cialtroni, che rapivano tumultuariamente al Carducci poche formule e clausole stilistiche più appariscenti, e un cotale abito di astrazioni immaginose e colorate (il quale non sempre nemmeno in lui era puro), Severino scriveva quelle pagine dei suoi studi di letteratura [p. 131 modifica]e di erudizione con cura squisita nella elezione dei vocaboli di buona origine e nella elaborazione del discorso, razionalmente architettato secondo l’uso del cinquecento, e con passion letterata nell’adorare le forme e calcare i vestigi dei classici, ma anche con una intenzione di sincerità espressiva e con un amore di naturalezza sia toscana antica che popolare d’oggi, e perfino paesana, che fa meraviglia e piacere a rileggere. Ma quanti sono che abbiano pur letto?

Amore religioso dei classici e studio assoluto di sincerità; questa lezione egli, e i compagni suoi avevano appreso dal Carducci; e non già in frasi ambiziose l’avevano mandata a memoria, ma se n’erano resi ragione punto per punto nella conversazione degli scrittori e nella pratica e negli effetti dello stile. Ognuno poi seguitando secondo questo ideale a suo modo, chi s’accosta va più a una sostenutezza fra cinquecentesca e latina, chi aggiungeva quel modello di elaborazione accademica e squisita, che oggi è rappresentato meglio dall’elegantissimo Albini, chi serbata dell’abito classico solo la schiettezza consapevole nell’uso delle forme, si muoveva verso la urbanità di un discorso semplice e agevole e vario, come ha fatto l’Albertazzi.... È inutile dirne di più ora. lo spero di tornar con più agio sopra questi scolari del Carducci, che sono anche della nostra famiglia romagnola.

In quanto al Panzini, egli è certo di questa scuola; se non che, a guardarlo da un punto di vista puramente formale, non è in essa fra i migliori. La sua prosa, secondo la maniera carducciana, è buona; ma alquanto magra. Quella che è più salda ragione nel discorso del maestro, la sapienza di composizione e abbondanza agevole [p. 132 modifica]degli svolgimenti, è conseguita da lui in misura molto scarsa. Gli fa difetto la facoltà periodica del dire. Egli parla di solito a tratti brevi, fermandosi in tronco e riprendendosi con moti bruschi e molto disuguali. Grammaticalmente questo si vede nell’uso di periodi corti, a membri staccati fortemente; anche quando se ne incontri qualcuno più diffuso, poi si trova che è un artificio tipografico; che ha sostituito il punto e virgola o i due punti al punto fermo. Le proposizioni sono poco annodate; l’uso dei pronomi relativi è raro e malsicuro in quella prosa legata soltanto dagli e e dai ma. Abbondano invece le ellissi, i modi assoluti. «La vera filosofia è meglio rappresentata dall’indice posto sulle labbra: il silenzio!», Questa e la forma più consueta della sua esposizione. Aggiungete altrettanta abbondanza di parentesi, di episodi intramessi bruscamente col solo artificio delle lineette; aggiungete l’abuso dei cioè, dei perchè, dei punti esclamativi ed avrete la fisionomia stilistica del Panzini quasi compiuta. Quel che manca è soltanto un non so che di duro e di scheggiato, una cert’aria rozza che fa meraviglia in uno scrittore così bene educato. Si notano delle sprezzature, che vanno fino alla negligenza, fino alla difformità. Il vocabolario mescola a tratti alla sua materia pulita le scorie più comunali. («Questo singolare fenomeno illusorio avveniva in me perchè in quell’ora il fresco maestrale della contentezza....», «bene potevano rappresentare la storia evolutiva di quella famiglia», sentite la dissonanza? e così trovo una «emotività patologica», un motore minuscolo che «produce di più che tutto l’impeto....», una conferma della salute domandata «per il domani della vita» e via via). [p. 133 modifica]

È incerto e un po’ fiacco in certi modi, che non si possono dir falsi, ma non sono neanche buoni («effetto moltiplicato per la stranezza»..., «sommano a qualche centinaio», «si va sempre più riducendo agli stretti limiti del necessario», «non eccedeva oltre a un piatto»; e sopra tutto è appoggiato a un uso dei dunque, dei certo, dei sì, degli eppure, che non potrebbe esser più volgare.

E poi ci sono certe bruschezze e certi abbandoni che non si sa bene se sieno consapevoli, per rendere vivezza della parlata; ma talvolta pare piuttosto che lo strumento del dire sia malsicuro nella sua mano, ed egli forse lo adoperi senza piena coscienza e signoria dei suoi effetti. Sì che si resta un po’ sospesi, quasi turbati davanti a questa mescolanza del culto e del banale, in questo alternare delle cadenze classiche e di saltelloni e scappucci plebei; si penserebbe talora a un campagnolo letterato, che insapori di eleganza alquanto faticosa la sua parola naturalmente grossa.

Questa impressione dura poco. Si ripiglia la lettura con animo quieto e tutte le cose pare che prendano una faccia nuova. Difetti, imperfezioni, goffaggini più non offendono, ma quasi avendo sentito che la bontà dello scrittore, per essere riposta in altra parte, da quelle non può essere diminuita, se ne respira l’aura diffusa per tutti i seni con un piacere profondo.

Il quale non si sa bene se sia più delle cose così semplicemente sentite e chiare e vive davanti a noi con effetto di freschezza, o della passione sempre così seria e pura nei suoi movimenti o di quella dolcezza che risuona in ogni accento e lo alza e lo trasfigura come una musica celata; ma certo è schietto il piacere, e profumato quasi di poesia. [p. 134 modifica]

Dico che a rendersi conto della virtù di questo scrittore bisogna considerarlo nella sua qualità di poeta; non così grande forse, ma sincero.

Io non guarderò già ora molto a quelle abitudini così dette poetiche, che pur si potrebbero assai facilmente notare nella prosa di lui. Poetico secondo il sentimento comune è tutto ciò che si esalta un poco, al di sopra della quotidiana conversazione, non per un motivo praticamente apprezzabile, ma così per passione e per sfogo del cuore, e per bellezza, come dicono, per ornamento; e il Panzini cade spesso sotto questo giudizio, con tutte quelle sue esclamazioni e contemplazioni, sopra tutto con quella sua forma di parlare immaginosa, con quei tocchi di colore naturale e fantastico gettati con semplicità quasi epica in mezzo al racconto. Una conversazione fra due amici pacata e famigliare, è chiusa da lui in questa vasta cornice: al principio, «Il lume lunare entrava nella stanza ospitale di Astese, e la, luna tonda passeggiava fra le cime dei pioppi azzurri»; alla fine: «Così terminò Leuma il suo raccontare, che la luna più non passeggiava su le cime dei pioppi, ma era trionfalmente salita nel cielo». A ogni momento, il suo dire si allarga in tali forme solenni; come egli si indugia a parlarvi dell’ora e dell’aspetto che intorno a lui rendeva l’alba o il vespero, il chiarore delle stelle o il susurro del mare, così par che sia solito a trasfigurare per uso ogni tenue argomento ed episodio piccolo col linguaggio vasto e metaforico.

Notate del resto che questa solennità non è molto profonda, si contenta di modi comuni e di ornamenti accademici. Qualche volta anche un po’ goffi; come nel caso di questa «luna che al confine del mare stava preparando la sua toilette [p. 135 modifica]di perle e di brillanti per uscire vaga ed errante pel cielo». Documenti della intonazione poetica si possono trovar largamente anche in quel poco che sopra fu riferito: e abito di esclamazioni e di commozioni e di apostrofi, e uso di contemplar con passione le cose della natura e prestar loro quasi ingenuamente e senso e voce viva.... La sua formula poi si trova facilmente; ed è quella stessa risoluzione, ch’io accennavo anche prima, della cosa semplice nei suoi elementi generici come se uno dica la bianchezza dei gigli e le giovani primavere invece che gigli e giovinezza, così alla buona. È insomma più una intenzione poetica che non una forma schiettamente espressa di poesia; e tale che, avendomi fatto venire in mente più d’una volta un altro scrittore romagnolo, molto amante non meno di contorni fantastici di cielo e sole e stelle, che di travestimenti astratti e solennemente figurati, m’ha suscitato anche il dubbio se non si tratti di una qualità nativa del sentire romagnolo. Pensavo al carattere della nostra gente, così poco poetica per uso, ma pur così seria e piena nei moti dell’animo, così avvezza a dare una significazione intensa al suo parlare rotto e monco; e mi pareva che lo scrivere di costoro, del Panzini e del Beltramelli (e di altri che ora non accade ricordare) con quel colorito di poesia imperfetta e pur sincera, potesse trovare in quello qualche ragione. Ma questo sarebbe tutt’altro discorso; e per ora ne sia abbastanza un cenno.

Torniamo al Panzini e alla sua poesia, che ha dei doni assai più cari. Egli ha dalla natura, per quanto non sempre e non con uguale felicità, il dono della espressione classica: voglio dire di quella espressione piena e definitiva che par che [p. 136 modifica]renda a tutto quello che tocca la tempra dell’oro. Sono salde come l’oro certe sue parole, limpide e pure e sonanti.

«Di chi è questa voce che si diffonde pei campi?

«È la voce del turpe rospo terrestre. Egli suona nell’aria calma come una pura campana di cristallo».

Lasciamo andare l’elocuzione, se sia in tutto netta: poichè non è questo che ora ci tocchi. Ma chi è che non sente la musica di queste parole rade e soavi?

Ognuna di quelle sillabe profferite molto pianamente pare che acquisti una intensità di vibrazione limpida e lunga; l’anima se ne sente piena e non si sa come. Poichè, se si pensa, la cosa da dire non è di molto momento; e neanche si può dire che sia espressa con novità, con ricchezza di eloquio o con sottilità di sensazioni cercate dentro e svelate. Tutto qui è semplice, il paragone del cristallo è il primo che venga alla mente, e quella figura di opposizione fra il senso del turpe e il puro è disegnata con ogni semplicità.

La virtù non è nelle parole prese a una a una; è nella loro disposizione, che pare tanto lungamente pensata, e maturata alla fine nel punto più felice, è in quel non so che di puro e definitivo, onde restano quasi scolpiti i contorni e aperti e grandi gli spazi, e poca musica basta a colmarli di incanto.

Questa è quella qualità che siamo soliti a chiamar classica; quella qualità di bellezza durabile che appartiene alle parole tempestive e collocate nel luogo opportuno, alle cose ridotte da lunga contemplazione alla purezza delle loro linee essenziali; che nasce dalla modestia degli animi [p. 137 modifica]bennati, quando aggiungono il più felice effetto col moto più lieve.

E così ragionando in grosso par che si possa distinguere questa pienezza delle parole semplici, dette nel momento essenziale e con l’accento definitivo, da quell’altra sorta di effetti, realizzati non così di primo colpo e signorilmente, ma per ritocchi e approssimazioni successive, consapevoli e studiosamente acute; come si vede, in qualche modo, paragonando un verso di Lucrezio o di Virgilio («pascentein niveos herboso flumine cycnos») a qualche luogo moderno, al sonetto di Hérédia o a una pagina fluviatile di D’Annunzio. Allora si sente nella distanza fra la ricchezza scoperta numerata minuta dell’uno e la bontà rara quasi celata dell’altro, differenza d’animo e di qualità. Si può aggiungere che l’una qualità si trova più facilmente nel verso, dove appunto le parole sogliono quasi per necessità cadere a intervalli come gocce rare e stillate, e dove poi dalla figura del ritmo e dall’enfasi della rima prendono rilievo profondo e intensità di significazione anche più nuova; il verso resta nella memoria con le sue linee ferme e le parole salde, scolpito e lucente, come una medaglia di perfetto conio, mentre nella prosa tutto si muove e si annoda e si svolge, e la bellezza non suole essere nelle parole ferme e nelle clausole perfette, ma proprio nella ricchezza e agevolezza del moto che trasporta ogni cosa, nella consapevolezza dell’espressione compiuta, nella forma volubile dei ritocchi e delle giunte e delle riflessioni.

Tutte queste chiacchiere voglio che valgano solo a un fine: a rendere qualche immagine della prosa del Panzini, in quel che ha di bellezza nativa o, come dicevo, di qualità poetica. In lui è la [p. 138 modifica]ricchezza di quegli scrittori che sembrano poveri; ma i loro fiori odorano in mezzo alla solitudine.

Questa non è sola operazione di contrasto o di prospettiva; per la quale in un parlare parco e dimesso, poche delizie sieno fatte più grate dall’ombra circostante.

La ragione vera è nell’animo del Panzini; il quale si sente troppo bene che dice tutto sul serio, non per moltiplicare la fatica allo stampatore o per illudere gli sciocchi, ma per un movimento serio e sincero della passione. Come è sincero negli abbandoni, nelle imperfezioni, nelle goffaggini, così è sincero nei momenti felici e nelle cose belle.

Allora la sua espressione cade con una armonia naturale, che comunica alle parole nude una pienezza dolcissima di suono. Allora sorgono quelle descrizioni, quegli spunti di paesi o di figure, quei movimenti d’elegia che senza avere in sè stessi niuna parte molto nuova o acutamente frugata ed espressa, restano pure nella memoria come bellezza viva.

Sono motti brevi: «La domenica, ad ora ben tarda, cessano i canti (dei lavoratori) con sollievo delle Muse, ed i grilli riprendono l’impero della notte serena». Che cosa può essere più semplice e anche, nei suoi elementi, più comune di questi grilli e di questa notte serena? Eppure l’anima si trova colma di ogni senso di pace e di frescura piovente in quelle brevi note e vaghi rumori che compongono il silenzio notturno.

Quante potrei citare simili strofe di una poesia che non ha fatto a tempo a nascere nella sua pienezza, ma è rimasta così come qualche cosa di pendulo e leggero nell’aria, che seconda la voce riposata del dicitore. [p. 139 modifica]

«Nel tragitto dalle Stiviere a Modena quante deliziose ville occultate nel verde dell’ubertosa campagna, come ninfe entro i boschi! Che lieto mattinare degli uccelli per i giardini silenziosi!». Dovrò io notare pedantescamente l’aggettivo convenzionale (ubertosa), e la comparazione non peregrina, come sono rinfrescate e rallegrate dall’armonia delle strofe?

Vediamo piuttosto di citare ancora. Ecco, quasi in progressione, tre luoghi dove si vede bene quella che si potrebbe chiamare maniera del Panzini, maniera, dico, se poi non fosse operazione semplice e spontanea dello spirito, che tutto inteso nelle cose che dice, e partecipandone con passione, si cura meno della forma; e talora la accetta, abbiam veduto, anche incompiuta o scheggiata; ma quando gli riesca felice, pur la sente e ne va lieto. Cominciamo dal grado più basso.

«Ma la notte susseguente dissipò le nubi e la pioggia, e il mattino scintillava sul piccolo borgo e sui monti con grande purezza». Qui non c’è nulla di singolare; ma c’è l’abito e la cadenza armoniosa, il disegno semplice, le parole schiette; è la forma di quello spirito nella sua purità. Dopo troviamo questa semplicità più animata; la voce si alza un poco parlando e si scalda; e poi risiede pacata. «Il monte su cui sorge Macerata divide la valle del Potenza da quella del Chienti e noi, lasciata a manca la città, in quella valle scendemmo per una una via bellissima, larga e tutta indorata dal tramonto. Delizioso era l’andare veloce fra le verdi piante, i campi fragranti di messi, lungo il placido fiume! Il paesaggio si svolgeva solenne e nuovo davanti alle ruote e un senso di freschezza ci penetrava nel cuore». Qui è mancato il taglio netto e lo slancio del verso; [p. 140 modifica]ma ecco anche questo. «Per dieci miglia non un’anima sotto il sole: solo il profumo ebro delle ginestre».

Così nascono nelle sue pagine forme e figure umane; non crudelmente penetrate e incise, ma segnate appena con mano leggera; una sola pennellata di trasparente acquarello basta a rendere l’impressione del vivo, quando cada bene sul disegno magro. «Un feltro alla studentesca, due sbuffi di capelli castani in su le tempie, un ovale di giovanetta ventenne, pallido e fresco che dava l’idea della giunchiglia di aprile». E in una cucina di convento deserto: «L’urtare delle posate contro i piatti produceva strani echi; e parevano destare ombre bianche di monaci vagolanti. Pareva anche che dai finestroni cadesse un lividore di notte: e il tuono, ripercosso dal Catria, ogni tanto rombava».

Questa è la classicità e la bontà del Panzini; a dichiararne il valore mancherebbe ora solo la nota dell’uso quasi ingenuo ch’egli ne suol fare. Questi fiori, ch’io colgo, solo nelle sue pagine hanno tutta la fragranza, poichè ivi si vedono nascere, non per maniera studiata, ma per felicità naturale e con la stessa semplicità con cui crescono intorno le erbe selvatiche; e anche v’ha terra brulla.

Non dico ch’egli ne sia inconsapevole; e dalle prime scritture fino alle ultime si può osservare un progresso e uno svolgimento distinto della sua maniera. Aveva cominciato a muoversi un po’ duramente dentro l’abito carducciano, in principio: e allora era curioso alcuna volta il contrasto fra la forma presa di fuori, abbondante e composita, e la forma sua nativa, armoniosa e snella. Così si maturò a poco a poco la consuetudine che va [p. 141 modifica]dalla raccolta delle Piccole Storie, alla Lanterna; ed è quella che si potrebbe dir centrale, di cui ho tenuto più conto io nel mio cenno; consuetudine di un discorso per solito meno avviluppato e meno inceppato, scorrente in periodi brevi, con moto largo: da principio i momenti felici erano più fuggitivi, quasi istintivi e spontanei, e trapassavano molto melodiosamente. Ma se si confronta il primo viaggio in bicicletta, con quello di dieci anni dopo, si trova che come è più varia e mutabile la figura spirituale dell’uomo, così è fatto più ricco lo stile e più sapiente; il discorso è più rotto, più variato e quasi direi tentato nelle sue cadenze, per trovare i momenti della solennità e della poesia. Il Panzini oramai conosce l’effetto del suo dire, di quelle parole vaste e rade, di quegli accenti profondi: e si sente che ne cerca, e vi insiste. La espressione del suo spirito riesce più intensa; egli ne avverte oramai la risonanza poetica e si prova a regolarla, a modularla.

Lasciatemi citare almeno una strofe, della canzone dei pini: «O tristezze dell’anima ammalata: a me quei colpi di scure contro i meravigliosi tronchi risonavano nel cuore; tronchi così belli che parevano d’argento antico, chiome così trionfali, così spesse, così vive, chiome della terra, recise a colpi di scure; chiome stese sui miei bambini, come una mano amica: recise per trenta lire!». Ognuno sente l’effetto di quello scetticismo bonario in sul principio, onde il poeta dubita della poesia sua come d’un movimento vano; sì che fra quel principio, e fra la rudità precisa e pratica del finale, lo slancio lirico si versa con la forza d’una corrente irrefrenabile. Si versa crescendo a poco a poco; dissimulato nei primi versetti della voce piana e quasi abbandonata: ma par che non [p. 142 modifica]possa rassegnarsi e riprende con più brevi accenti, a ogni ripresa vibrando più forte nelle sillabe più schiette, e misurando più sicuro il ritmo del canto oramai spiegato. Tutto questo non si può dire che sia fatto ad arte, ma neanche è inconscio: si sente nello scrittore un abbandono volontario e sicuro, che si gode della sorgente armonia, e la scandisce e la regola, nelle pause (così.... così....), e felicemente la slancia su per quelle aeree chiome, e la ribatte sullo stesso vocabolo ricantato con nuova intensità, e la varia con quegli intermezzi di suono basso così nettamente e chiaramente affidati pure a un vocabolo, «recise», che prima è quasi parentesi, e poi conchiusione brusca. Si sente, dico, a leggere, che quando egli ha detto «i meravigliosi tronchi», e nel cuore glie n’è rimasto come una eco, liberamente ha voluto esprimerla, e ha ripreso più forte, tronchi così belli; che quando ha sospirato, chiome!.., e dentro seguiva confuso armonioso susurro, egli non ha esitato a fare di quel susurro parole, e ogni parola ha adoperato con coscienza piena dei suoi effetti: il Panzini di un tempo non avrebbe giù, saputo variare la antitesi di chiome e recise in un duplice accordo, così efficace nella ripetizione e così mutabile nella musica.

Ma nelle ultime novelle (e più nell’ultimo volume, sul ’59, di cui non voglio parlare, per molte ragioni; chè come libro di storia è sbagliato, ma come opera d’ingegno e in ciò che ritrae del suo autore è cosa singolare, da non potersene sbrigare alla lesta) questo si sente assai più; il Panzini è tanto consapevole ormai dell’effetto delle sue parole, che quasi lo cerca a ogni ora: e scrive spezzato e brusco, con serie di frasi, talora di vocaboli, nettamente staccati, spaziati, [p. 143 modifica]perchè spicchi più intenso il valore proprio di ciascuno. Egli riesce a tratti molto più espressivo e nervoso e pittoresco; ma di rado trova quell’armonia di collocazione poetica, che comunicava così dolce incauto alle parole di un tempo.

Prendiamo, per esempio, tre risvegli. Uno tutto piacevole e soave nelle piccole storie; «Però verso il dilucolo, la leggerezza del sonno fu attraversata prima da un suono come di sonagliere e di ruote, un suono allegro quale di diana alpestre; poi da un vagito di bimbo che pareva un richiamo alla vita, infine quando la luce segnò la croce della finestra, dal canto di un gallo con un sentimento di aer sereno: suoni non sgradevoli che lo cullarono come in un sogno e fecero scendere quell’onorevole giù in un secondo sonno, dal quale lo svegliò una voce, questa volta distinta, la quale disse:». Qui la grazia è in quel tono così famigliarmente discorsivo e bonario attraverso il quale le sensazioni vaghe della mattina tremano come perle di rugiada; e parlando poi così adagio la risonanza delle parole è limpida.

Ma altrove, pur nello stesso libro, il sentimento è più vivo; ridotto nell’espressione ai termini essenziali, sì che la gioia della sensazione poetica cresce nell’animo insieme col piacere di quel linguaggio fermo e nudo. «Mi assopiva a pena quando battè sul selciato la zampa ferrata dei muli: un rumore come di ghiaccio, che, io non so come, diceva che nel cielo c’era la luna chiara. Era un’ora dopo la mezzanotte e le guide ci venivano a destare per salire sul Catria». Notate ancora come sia puro l’animo dello scrittore, che avendo detto questa bella cosa senza enfasi, non si ferma a sottolinearla, ma segue suo dire agevolmente. E anche quello che potrebbe parere un difetto, la [p. 144 modifica]espressione poco profonda, contenta di toccare quei punti quasi generici del rumor di ghiaccio e del chiaro di luna, anch’essa, in quanto serba la sua forma naturale, di senso ingenuo e non sforzato e lieve, mosso armoniosamente in una fantasia onesta, si rivela a noi con qualità di bellezza. E il suono delle parole in questo silenzio è alto e severo, è suono di poesia: c’era la luna chiara.... Non posso riportare tutto il mattino che si trova nella Lanterna, al capo V; distinto e variato con gioco di voci e di luci e sensazioni diverse. C’è il piacere di bere il caffè e di fumar la pipa al fresco d’estate, mentre le casette dormono ancora fra le betulle e i tamerischi; e c’è la vecchia bacucca, di cui si sente la voce chioccia brontolare nel dolce silenzio, con le galline e col pòrcello; poi, la processione dei venditori per le dune, la fanciulla coi piccioncini, paron Jusèf: tutto questo sorge e passa molto prestamente, insieme col sole che monta nel cielo e con l’ombra che scema a grado a grado e si fa men grata alla casetta, attraverso un soliloquio fra contemplativo e ironico. Ma quella semplicità nel lasciar cadere certe parole fresche, piene di senso e di colore, senza curarne in apparenza l’accordo con l’intonazione del discorso moraleggiante e bonario, si sente bene che non è senza qualche studio.

Tutta studiata, lavorata con punta secca e sottile, è questa notte d’inverno nella casa delle vecchie: «Mezza notte; compagnie di ubbriachi, che prediligono cantare sotto la caserma questo ritornello: ‘A fare il soldato è un brutto mestier, mangiar la pagnotta, dormire in quartier....’ Diluculo: le bifore si illuminano, la campanella ha un suono puro; ricorda gli azzurri marini, la [p. 145 modifica]stella mattutina. È la diana delle vecchie, che precede la diana del tamburo. Alba: spesso le porte del tempio si spalancano: sotto l’ombrello giallo oro esce un prete in cotta e stola: un diacono avanti scuote un campanello: dietro una schiera di vecchie in gramaglie. Il loro passo ha un ben lugubre ritmo dietro quel campanello. È il pane ai morenti.... Ore sette: i garzoni dei fornai portano nelle gerle e nelle ceste il pane caldo ai vivi. Ore otto: i bambini vanno a scuola: rosei volti, nutriti di buon sonno e di caffè e latte: Pirro e gli elefanti; coniugazione perifrastica; teorema di Pitagora, ecc., secondo le età e la scuola. Vicenda delle ore!».

Qui la nudità dello stile è volontaria e nervosa; lo scrittore conosce troppo bene l’effetto di quelle ligure brusche di chiaroscuro e di musica, e vi insiste; si sente la voce appoggiare crescendo sullo sdrucciolo di illuminano, e poi con progresso ritmico su quei suoni che schiariscono a mano a mano; puro, marini, mattutina. Quella è riga scritta collo stesso sentimento di un verso; ma di un verso velato con un certo pudore ingenuo.

Poichè la nobiltà dell’animo del Panzini non può mutare se anche muti il modo della sua operazione: e quella che in lui non viene mai meno è la grazia di una poesia nascosta nel cuore, che non ha tanta forza da svolgersi dias in luminis oras, ma canta attraverso il suo dire una fontana segreta.

Poetico in lui è il movimento armonioso dell’animo, il sentire fresco, l’accento profondo e vibrante che colma di musica le sillabe dei vocaboli comunali; ma questa resta in lui una forma intima, una intenzione non espressa. Diciamo meglio: la intenzione sua si rivela perfettamente [p. 146 modifica]nella sua propria qualità nascente ed esitante, in quel contrasto gentile con le altre parti di una natura meno felice.

Tale è la prosa del Panzini, e tale l’arte. Bonaria e semplice e piana nella sua superficie, essa è attraversata da una corrente profonda di poesia; la virtù della quale è appunto in ciò ch’essa resta nascosta e incompiuta, come un riflesso di sole ancora non sorto, come una musica di campane sprofondate, come un sospiro della bocca chiusa.

E a me pare che la immagine se ne rappresenti assai bene nella bellissima strofe, posta sulla bocca della marchesina ciclista, Imperia, quando guardava alteramente la carovana degli zingari e pensava la sua gioventù consumata senza amore.

«O corona marchionale, o corona del Rosario, che ogni sera la madre mi fa recitare; o corona della virtù e del pudore; o corona di spine delle caste parole e dei misurati gesti; o fiore inutile della verginità in queste mie carni mature, andate al diavol. Io busserò sino ad infrangere la porta del prete e gli dirò: ‘Ma dammi la tua benedizione, prete!’. Se no, io, anche senza la tua benedizione, prete, fuggirò. Fuggirò pur con lo zingaro orribile e feroce, pur che egli vinca la mia paura e mi rapisca. Rapida correndo, io ho l’illusione di una fuga e di un rapimento. Eppure dopo è necessario il ritorno! Oh, miseria mia grande, dovere invocare il gelo e l’inverno perchè siano medicina alla mia febbre!».

In questa violenza lirica a pena repressa, che corre di sillaba in sillaba, che empie di fremito i versetti salienti in misura e sospira lungamente nelle pause; in questa bontà musicale della prosa, dove i singulti e le bruschezze e gli abbandoni e [p. 147 modifica]le cantilene tutti insieme fanno armonia, in questo ardor di passione che quasi è per prorompere al canto e si rompe in aspre parole semplici, io sento il Panzini. Forse la sua anima gentile allo stesso modo alcuna volta rimpiange la poesia, a cui si sentiva nata e che lui creduto di perdere.

Non credo io già che l’abbia perduta. Il lume puro di lei risplende sulla fronte dello scrittore e la rischiara. Tutte le parti della sua vita, e persona alquanto umile, della intelligenza sana ma non altissima, della letteratura buona ma non squisita, della osservazione e rappresentazione nitida ma non potente, della arguzia spontanea ma un poco scarsa, ne prendono qualità: che scorre lietamente per le pagine della sua prosa onesta, e rende a loro aurea bontà onde son care fra quante altre ne porti più rumorose la stagione letteraria.

Che importa se pochi le conoscano, e se la fama e l’eco della critica4 meno secondi? La loro bontà è dentro e non ha bisogno di essere gonfiata da fiato alieno: io penso che Alfredo Panzini di quella sia contento, e sì della fortuna che gli ha consentito di ritrarre se stesso e il dramma vario della sua vita e la Romagna che egli ama e le cose e le gioie e i dolori del mondo, con una così schietta e durabile umanità.


Note

  1. Molto mi duole di non aver saputo far posto se non in una nota a La bicicletta di Ninì, una fra le prime e più gentili cose del Panzini. Qualcuno direbbe forse che la materia, come di novella, è assai tenue; e non è più che la descrizione di una corsa notturna in bicicletta, in cui la piccola anima affettuosa e coraggiosa di un giovanetto si empie mirabilmente di ombre e trascorrenti splendori lunari, e di fantasmi confusi nell’ansito e nel volo. Tutto questo è vivo in una pagina di prosa felice, scritta dal Panzini col suo animo solito, ma in un momento più felice del solito.
  2. Questo finale è un poco più felice, pur con la sua ingenuità alquanto manierata:
    «— E anche lei lavora nella carne suina con le mani? — chiesi io.
    «Ella levò il sipario delle palpebre che coprivano quelle languide pupille di viola, mi avvicinò al volto le affusolate mani di marchesa, e disse:
    «— Anch’io lavoro nella carne suina! — ».
  3. Per un esempio solo, ecco la conclusione del gentilissimo idillio, che leggeremo fra poco, della giovinetta sbocciata. «La pagina aperta della vita è bella: ma pù bella è la pagina sigillata. Eppure l’uomo, per quanto sia audace, non osa infrangere questi suggelli, e anche questa è cosa ammirevole. A buon diritto Iside sta perennemente velata». Non vi pare di sentire il buon signor della Palisse?
  4. Di critica vera e propria io ricordo il saggio, nella Voce di Firenze, di un giovine assai animoso, Emilio Cecchi. Era quello un tentativo dì valutazione sistematica dell’arte del Panzini e del suo mondo spirituale e del suo luogo nel nostro clima storico, che a me parve elevato e acuto nell’intenzione; ma rispetto al Panzini proprio e alla qualità del suo scrivere, non so se dicesse tutto.