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alfredo panzini 105

ironica voi troverete sempre la natura pratica e generosa del romagnolo; per il quale problema massimo dell’universo è l’assetto delle cose umane. Col cuore colmo di ansia egli interroga il destino e spia da che parte debba discendere fra gli uomini la giustizia e la felicità.

Vi par egli che questa natura sia un po’ troppo terra terra, rustica, provinciale?

Ma tale è il Panzini; e a pensarci un poco, è poi molto facile conchiudere che in tanta cosidetta complicazione e artificialità della nostra letteratura, la semplicità di quest’uomo, dall’animo onesto e dal sentire limpido e schietto, deve pur avere il suo pregio e il suo profumo. Esso resta fra le pagine dei suoi libri come lo spigonardo fra le tele bianche: hominem pagina sapit.

Egli stesso ha scritto una volta, e intendeva di sè: «È molto bene conservare nel lago del cuore una goccia d’acqua non inquinata, un po’ di infantile freschezza di spirito, per cui si assaporano le umili ingenue cose, nel modo medesimo chi uno stomaco sano fa trovare saporite le rusticane vivande».

Ma poi, non fidiamoci alla superficie; l’uomo è molto meno semplice di quel che a prima vista non paia. Se il suo carattere era solido e unito, la vita ha saputo arricchirlo di dolore e d’ironia. Bisogna rendersi conto di questo per apprezzare il Panzini come si merita e per volergli bene. Ricordiamoci la sua condizione; di professore. In questa parola, sola è racchiusa per molta parte il dramma della sua esistenza. E di quante altre!

Chi non lo conosce questo tipo così malinconicamente comune del buono allievo delle Muse, costretto a tirar la carriola e a girare la macina dell’insegnamento?