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alfredo panzini 111

glia, dei figli; se s’abbiano da educare al culto delle vecchie e splendide illusioni, o da abbandonare senza contrasto ai tempi nuovi. Nella lettura di un giornale, nella ricerca di un appartamento saltano agli occhi le disuguaglianze sociali; da una parte è il foglio socialista che registra senza ribellarsi i fasti del lusso folle crudele, dall’altra il portinaio che quasi non riconosce al povero onest’uomo carico di prole il diritto di insudiciare un appartamento per bene.

L’avventura di un avvocato in cerca di lavoro, sballottato fra le buone parole e la profonda indifferenza di quelli che gli si offrivano come sostegni dell’umanità, il sacerdote della vecchia religione e l’apostolo del verbo nuovo, e salvato alla fine dalla rozza pietà di un salumaio, rappresenta con la inutilità della laurea e della cultura, la ironia della nostra civiltà verso gli nomini delle classi medie.

Dovrò io allungare questa rassegna? Cambiano i nomi, le cose non cambiano. E l’argomento vero dell’autore si sente bene che non è già l’avventura dei suoi personaggi, ma la lezione che ne sorge a investire più largamente la vita umana; contraddizione e miseria del destino, alla quale il Panzini par che risponda con il sorriso della sua descrizione pacata. Questo è il suo umorismo, molto semplice; del resto ad ora la pietà la tristezza l’affetto lo interrompono senza veli.

Quel che più spesso lo assale è il dubbio — ricordatevi del professore e della figura che gli conosciamo — intorno al valore e alla utilità della cultura, dei sogni e delle illusioni poetiche. Altro non vuol dire quel bel trattore paffuto, che regala una colazione per gratitudine al professore che l’ha bocciato e respinto dalle arti liberali;