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alfredo panzini 117

dell’azzurro mare pussano ligure di donne, dal seno gonfio dei sospiri d’amore, e amore iddio sorge agli occhi dell’uomo mortale, legge e ragione eterna del vivere, gioia unica e fuggitiva del mondo.

Solo un sorriso risponde; non son queste le ghirlandine secche, che il povero professore è costretto a sospendere presso la grotta delle ninfe eterne, quasi per dovere d’ufficio?

Immaginate un Carducci (non vogliamo allo scolaro ricordare altro nome che del maestro) passare timidamente davanti San Guido, sorridendo dei cipressi e dei rusignoli e delle fiabe di nonna Lucia, come dei tentativi inani di una povera fantasia; un Carducci, a cui le memorie volanti solenni dalla mole di San Petronio si accartocciassero sulle carte tutte pallide e monche, con un sospetto di reminiscenza scolastica....

Questo accade al Panzini, tutto questo si succede e balza e gioca nel suo spirito con una piacevolezza onesta e alquanto umile: poichè la composizione finale è amara: un pover’uomo tu se’.

Il ritornello breve e ugnale conchiude tutte le strofe della lunga canzone, sempre interrotta e sempre ripresa; talora è come un sorriso, talora un sospiro o un singhiozzo segreto, che s’indovina fra l’uno episodio e l’altro del viaggio, e che ci richiama a quello che ne è il vero argomento, il suo autore.

Poichè se bene par che ci sia un poco di tutto nel volume che ha per teatro la strada Emilia e i boschi dell’Appennino, la marina di Bellaria — questo è luogo per lungo uso caro allo scrittore e al novellatore — la laguna di Comacchio, il camposanto delle Myricae e il cimitero di Musocco; in fondo c’è una cosa sola: il Panzini.