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126 | scritti di renato serra |
gione estiva si erano per la prima volta accese con nuovo splendore e significazione le antichissime stelle del cielo, sbocciati le erano i fiori, come nel maggio!
«Ella dunque andava con la compagna lungo la via del deserto mare. Il vento, battendo su le esili vesti, disegnava tutto quell’elegante corpo di efebo; il piede nudo non curava le spume del mare; ma come le splendevano gli occhi; come dilatate erano le pupille, già chine e raccolte; come le si era fatta turgida e forte la voce e le parole squillanti, che il vento rapiva!».
Non metterò più nulla accanto a questo bozzetto, che io ho trascritto con affezione, come gentile e cara cosa; per quanto sarebbero ben degni di citazione, e di chiosa a certi nuovi modi accorta, pagine come quelle sul caonposanto «ove nacquero le Myricae», e le altre più mosse nervose di Comacchio, e il solenne alto compianto su «la morte dei nobili pini!». Ma è tempo di chiudere il libro: che ancora è ricco di visioni e di tristezze, e dopo molto sorridere e fantasticare si ferma improvviso a un cimitero, e resta negli occhi un tram tutto nero, che corre in mezzo alla soffice neve, via portandosi un morto, un professore anche lui, che della vita ogni cosa ha tollerato umilmente, perfino i discorsi commemorativi.
Anche il nostro discorso pare che a questo punto potrebbe esser chiuso. Oramai anche per assaggi saltuari e frettolosi, il Panzini l’abbiamo conosciuto. E che cosa altro mai ci eravamo proposti di cercare, se non questa figura onesta e schietta che sorge di sopra le carte che sfogliammo non senza diletto?