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alfredo panzini 125

mare che di fianco correvano come lancieri bianchi all’assalto, su per un grande verde piano: ella non contemplava la grande luna di agosto, sorta, che già ancor di sopra era il sole (e aveva detto la luna col suo placido riso beffardo: «Una volta al mese, o fratello sole, ci troviamo insieme a colorire, tu con le fiamme d’oro, io col mio argento, questo incolore branco di formiche con due gambe!»), non contemplava la casetta del cantoniere, asilo di pace; bensì, come assorta, godeva della sferzata del vento, quasi esso formasse su di lei una carezza brutale. «Oh, grande forza, portami via tu!».

Alla figura terribile mettiamo da canto la personcina soave: il poeta, se l’è vista camminare davanti sul sabbione, contra il vento; giovinetta quindicenne, di onestissima e timorata famiglia, già conosciuta alle semplici festicciole da ballo sulla spiaggia.

«La sua grazia non era pareggiata che dalla sua timidezza. Soltanto la grazia dava indizio fisico della sua essenza muliebre. Finito il giro — non ne stava giù uno, che fosse uno — si rifugiava, come paurosa fra il babbo e la mamma: non sapeva stringere la mano al ballerino: alle domande rispondeva a pena con fil di voce: ‘sissignore, nossignore’; ma quando ballava era un incanto, così religiosamente ella ballava, avvinta come un’edera al petto dell’uomo. Ogni moto del piede e della persona era compiuto al ritmo come un atto devoto, con una intensità di piacere da commuovere chi lei riguardasse con occhio profondo.

«Oh, quale contrasto allora che la scopersi, in quel vespero, sola con la compagna su la riva del mare! Evidentemente per lei in quella sta-