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102 alfredo panzini

tillante di pace benigna sulla gran tavola: «pensare alle trattorie, egli soggiunge in qualche luogo, dove su le tovaglie grinzite muoiono le ultime mosche, e il cameriere al grave odore della cucina si assopisce col mento ispido su lo sparato sudicio; pensare agli acri mangiari della città!».

Questi sono proprio i gusti di un romagnolo: egli li conserva schietti e li esprime semplicemente. Vi sa parlare del pane fresco e del buon vino sano del suo paese, della frutta saporita e delle lenzuola di bucato, che rinfrescano così bene il viaggiatore stanco nel letto di casa o anche in un letto di locanda, all’ora della siesta, alla quale il ciclista leva il suo inno. «O frescura delle lenzuola di bucato, o voluttà del buio nella stanza, con la coscienza che lentamente si spegne (vedendo però attraverso un tenue spiraglio della finestra l’immagine del gran sole!), o sonno senza sogni, senza visioni, senza sussulti! Quante poche volte mi accadde di dormire così!».

Perfino nella letteratura egli porta questa sua semplicità; e «Io voglio molto bene», dice, «all’Ariosto; ma oltre che pe’ suoi sogni sereni, molto io l’amo per le sue verità buone; fra cui questa:

In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta su ’n stecco m’inforco».

Le sue pagine sono piene di questa sensualità sana e lieta. Essa vi tocca il cuore di profumo paesano, così come quelle prime violette che la mamma ha colto per lui sulla ripa del viottolo che porta a marina, e gli ha inviato dentro una lettera.

Del resto, Milano e tutta quella civiltà e modernità lo seccano alquanto; l’abito nero delle cerimonie ufficiali gli stringe, i quartieri d’affitto