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146 | scritti di renato serra |
nella sua propria qualità nascente ed esitante, in quel contrasto gentile con le altre parti di una natura meno felice.
Tale è la prosa del Panzini, e tale l’arte. Bonaria e semplice e piana nella sua superficie, essa è attraversata da una corrente profonda di poesia; la virtù della quale è appunto in ciò ch’essa resta nascosta e incompiuta, come un riflesso di sole ancora non sorto, come una musica di campane sprofondate, come un sospiro della bocca chiusa.
E a me pare che la immagine se ne rappresenti assai bene nella bellissima strofe, posta sulla bocca della marchesina ciclista, Imperia, quando guardava alteramente la carovana degli zingari e pensava la sua gioventù consumata senza amore.
«O corona marchionale, o corona del Rosario, che ogni sera la madre mi fa recitare; o corona della virtù e del pudore; o corona di spine delle caste parole e dei misurati gesti; o fiore inutile della verginità in queste mie carni mature, andate al diavol. Io busserò sino ad infrangere la porta del prete e gli dirò: ‘Ma dammi la tua benedizione, prete!’. Se no, io, anche senza la tua benedizione, prete, fuggirò. Fuggirò pur con lo zingaro orribile e feroce, pur che egli vinca la mia paura e mi rapisca. Rapida correndo, io ho l’illusione di una fuga e di un rapimento. Eppure dopo è necessario il ritorno! Oh, miseria mia grande, dovere invocare il gelo e l’inverno perchè siano medicina alla mia febbre!».
In questa violenza lirica a pena repressa, che corre di sillaba in sillaba, che empie di fremito i versetti salienti in misura e sospira lungamente nelle pause; in questa bontà musicale della prosa, dove i singulti e le bruschezze e gli abbandoni e