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nati, quando aggiungono il più felice effetto col moto più lieve.

E così ragionando in grosso par che si possa distinguere questa pienezza delle parole semplici, dette nel momento essenziale e con l’accento definitivo, da quell’altra sorta di effetti, realizzati non così di primo colpo e signorilmente, ma per ritocchi e approssimazioni successive, consapevoli e studiosamente acute; come si vede, in qualche modo, paragonando un verso di Lucrezio o di Virgilio («pascentein niveos herboso flumine cycnos») a qualche luogo moderno, al sonetto di Hérédia o a una pagina fluviatile di D’Annunzio. Allora si sente nella distanza fra la ricchezza scoperta numerata minuta dell’uno e la bontà rara quasi celata dell’altro, differenza d’animo e di qualità. Si può aggiungere che l’una qualità si trova più facilmente nel verso, dove appunto le parole sogliono quasi per necessità cadere a intervalli come gocce rare e stillate, e dove poi dalla figura del ritmo e dall’enfasi della rima prendono rilievo profondo e intensità di significazione anche più nuova; il verso resta nella memoria con le sue linee ferme e le parole salde, scolpito e lucente, come una medaglia di perfetto conio, mentre nella prosa tutto si muove e si annoda e si svolge, e la bellezza non suole essere nelle parole ferme e nelle clausole perfette, ma proprio nella ricchezza e agevolezza del moto che trasporta ogni cosa, nella consapevolezza dell’espressione compiuta, nella forma volubile dei ritocchi e delle giunte e delle riflessioni.

Tutte queste chiacchiere voglio che valgano solo a un fine: a rendere qualche immagine della prosa del Panzini, in quel che ha di bellezza nativa o, come dicevo, di qualità poetica. In lui è la