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106 | scritti di renato serra |
È il tipo mezzano fra i due estremi; del professore dagli occhiali d’oro e dalia fronte lucente, destinato a volare com’aquila nei cieli della scienza accademica e ufficiale; e del pover’uomo raggrinzito, raccartocciato e rincretinito fra i registri, i colleghi, i compiti, i figlioli, la moglie, la serva, e i genitori degli alunni e i pettegolezzi della cittaducola di provincia.
Ma costui, come dicevo, sta in mezzo, con la sua figura un poco smorzata e sfumata e quasi stinta; con quella schiena un po’ gobba e quel soprabito forse un po’ frusto, intorno a cui aleggiando le ricordanze di Virgilio e di Dante suscitano un’impressione vaga, dove il sorriso si confonde con la tristezza.
Come si può essere statò giovini, generosi e audaci, avere goduto per lunghi anni la conversazione dei magni spiriti, avere amato la poesia o sognato forse la gloria, per ritrovarsi poi infine maestri di grammatica e di ortografia a una turba di fanciulli petulanti?
Questo è il destino di molti.
Ai quali la scienza e i titoli per i concorsi non valgono a riempire il cuore; nè la lotta con gli scolari e con lo stipendio basta a disseccare la niente. Noi sentiamo a guardarli, per quanto ispidi e curvi nell’ingrato ufficio, che essi non erano nati a ciò; erano nati, come ogni altro uomo fra noi, a vivere e a amare e a guardare queste belle cose del mondo. Si sono rassegnati, ma non sanno adattarsi; non sanno dimenticare da giovinezza e la poesia. Un’ombra ne corre ad ora ad ora sulle fronti, un rimpianto ne trema nella voce.
Tutto questo può essere qualche cosa di muto quasi e non avvertito; un’ombra appunto o una sfumatura, fra comica e malinconica. Ma può an-