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alfredo panzini 113

è la sua propria vita, naturale espressione del suo spirito, è il soliloquio e la meditazione.

La novella sua par che non trovi in sè sola consistenza; i suoi personaggi sono figure e profili segnati con rapida bravura più assai che creature parlanti. Curioso per un momento della loro l’orma, egli le abbandona presto per ritornare sopra sè stesso; e se pare che più a lungo le accompagni nei loro movimenti, si trova poi che è mia illusione. Non a caso i suoi dialoghi sono così stilizzati e generici; quasi tutti trascritti in forma impersonale, con le parole e le cadenze dell’autore. Egli non è mai osservatore schietto del vero; ne conosce soltanto quella parte che ha potuto appropriarsi e ricavare dall’interno suo.

E quella parte della sua opera che vorrebbe essere più schiettamente narrativa ò la più insipida. Penso a molte novelle sparse, e al volume dei Trionfi di donna, che doveva essere nell’intenzione sua rappresentativo delle varie e nuove figure della donna moderna; ma è, fuor che in qualche bozzetto e spunto descrittivo, cosa assai fredda; manca di penetrazione e di rilievo; c’è qualche cosa di vivo in quei personaggi maschili che rappresentano l’autore, la sua timidezza e la curiosità, ma anche questa parte, in sè più sentita, non è fusa bene con le altre assai banali.

Le cose migliori le abbiamo accennate: e ricorderò soltanto, che dimostrano l’ultima e più sicura maniera, due novelle della N. A. La casa delle vecchie è la cronaca di una delle dimore del Panzini inquilino milanese; il centro del racconto, in piena luce, è la camera del professore; intorno i suoi pensieri e i suoi bimbi; più lontano, nella penombra della scala e dei pianerottoli bui, passano come larve silenziose queste figure