Pagina:Serra - Scritti, Le Monnier, 1938, I.djvu/188


alfredo panzini 141

dalla raccolta delle Piccole Storie, alla Lanterna; ed è quella che si potrebbe dir centrale, di cui ho tenuto più conto io nel mio cenno; consuetudine di un discorso per solito meno avviluppato e meno inceppato, scorrente in periodi brevi, con moto largo: da principio i momenti felici erano più fuggitivi, quasi istintivi e spontanei, e trapassavano molto melodiosamente. Ma se si confronta il primo viaggio in bicicletta, con quello di dieci anni dopo, si trova che come è più varia e mutabile la figura spirituale dell’uomo, così è fatto più ricco lo stile e più sapiente; il discorso è più rotto, più variato e quasi direi tentato nelle sue cadenze, per trovare i momenti della solennità e della poesia. Il Panzini oramai conosce l’effetto del suo dire, di quelle parole vaste e rade, di quegli accenti profondi: e si sente che ne cerca, e vi insiste. La espressione del suo spirito riesce più intensa; egli ne avverte oramai la risonanza poetica e si prova a regolarla, a modularla.

Lasciatemi citare almeno una strofe, della canzone dei pini: «O tristezze dell’anima ammalata: a me quei colpi di scure contro i meravigliosi tronchi risonavano nel cuore; tronchi così belli che parevano d’argento antico, chiome così trionfali, così spesse, così vive, chiome della terra, recise a colpi di scure; chiome stese sui miei bambini, come una mano amica: recise per trenta lire!». Ognuno sente l’effetto di quello scetticismo bonario in sul principio, onde il poeta dubita della poesia sua come d’un movimento vano; sì che fra quel principio, e fra la rudità precisa e pratica del finale, lo slancio lirico si versa con la forza d’una corrente irrefrenabile. Si versa crescendo a poco a poco; dissimulato nei primi versetti della voce piana e quasi abbandonata: ma par che non