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alfredo panzini | 133 |
È incerto e un po’ fiacco in certi modi, che non si possono dir falsi, ma non sono neanche buoni («effetto moltiplicato per la stranezza»..., «sommano a qualche centinaio», «si va sempre più riducendo agli stretti limiti del necessario», «non eccedeva oltre a un piatto»; e sopra tutto è appoggiato a un uso dei dunque, dei certo, dei sì, degli eppure, che non potrebbe esser più volgare.
E poi ci sono certe bruschezze e certi abbandoni che non si sa bene se sieno consapevoli, per rendere vivezza della parlata; ma talvolta pare piuttosto che lo strumento del dire sia malsicuro nella sua mano, ed egli forse lo adoperi senza piena coscienza e signoria dei suoi effetti. Sì che si resta un po’ sospesi, quasi turbati davanti a questa mescolanza del culto e del banale, in questo alternare delle cadenze classiche e di saltelloni e scappucci plebei; si penserebbe talora a un campagnolo letterato, che insapori di eleganza alquanto faticosa la sua parola naturalmente grossa.
Questa impressione dura poco. Si ripiglia la lettura con animo quieto e tutte le cose pare che prendano una faccia nuova. Difetti, imperfezioni, goffaggini più non offendono, ma quasi avendo sentito che la bontà dello scrittore, per essere riposta in altra parte, da quelle non può essere diminuita, se ne respira l’aura diffusa per tutti i seni con un piacere profondo.
Il quale non si sa bene se sia più delle cose così semplicemente sentite e chiare e vive davanti a noi con effetto di freschezza, o della passione sempre così seria e pura nei suoi movimenti o di quella dolcezza che risuona in ogni accento e lo alza e lo trasfigura come una musica celata; ma certo è schietto il piacere, e profumato quasi di poesia.