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alfredo panzini 109

mente dalla forma del maestro. Egli era ed è rimasto innamorato della poesia, della cultura, della civiltà secondo i nomi e i sentimenti antichi; e pur convinto insieme che tutto questo sia falso e quei nomi vani: che il tempo speso sulle pagine dei gloriosi volumi sia perduto, e scemo il loro insegnamento; che il fine dell’uomo oggi sia affatto utilitario e democratico, e che il suo valore sincero debba avere una misura solamente materiale. Questo il suo istinto rifiuta, ma la ragione riconosce per vero, con alcuna amara voluttà: e lo spirito si dibatte fra i due contrari poli, senza trovare mai pace.

Nella «evoluzione politica» egli affrontava per la prima volta questo problema morale della sua generazione, combattuta fra la insufficienza dei vecchi ideali, e il vuoto il disgusto dei nuovi; e tentava di superarlo fingendo, nel nome del Carducci, un tipo dell’eroe, che mantenesse le ragioni della storia civile e della persona umana sopra la eguaglianza moderna delle masse.

La risoluzione era affatto superficiale; l’eroe mancava di ogni consistenza intellettuale e anche fantastica.

Ma se in questo si dimostravano i limiti dell’intelligenza del Panzini, che è più savia e chiara che non vasta o speculativa; in altra parte si vedeva l’ingegno. Bellissima, viva, nervosa, per quanto un po’ incerta nel tocco, appariva l’immagine ritratta in più luoghi del Carducci, e specialmente quando era nella sua scuola e parlava ai giovani: si sentiva l’eco della sua parola, il fremito acceso dell’entusiasmo. Attraverso le pagine disuguali e nello sforzo della valutazione critica un po’ confuse passava la eloquenza della passione e della inquietudine.