Vita e avventure di Riccardo Joanna/IV
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IV.
IL QUARTO D’ORA DI RABELAIS.
L’ultimo redattore se ne andò, sbattendosi dietro l’ultima vetrata dell’ufficio, saltando a due a due gli scalini. Riccardo Joanna restò solo nella stanza piena di fumo, ove ancora c’era una penombra del giorno, ove già il gas asfissiante ardeva. Il bel Riccardo, affranto da quella fatica divorante che da tre mesi gli rompeva, gli macinava, gli stritolava la vita, non si mosse dalla scrivania sulla quale i giornali sforbiciati e i frammenti di carta scombiccherati stavano in confusione come gli avanzi d’una battaglia dopo il combattimento. Steso nella poltrona di reps giallo e rosso, a strisce, il virginia fra i denti, i capelli anch’essi confusi come tutto il resto della sua esistenza, si riposava nella stanchezza profonda del suo cervello, si ubbriacava dell’amarezza immortale della sua anima.
Nella redazione deserta, ove egli solo soffriva, l’ultimo numero dell’Uomo che ride pareva ancora in elaborazione; sopra un tavolinetto Giulio Frati aveva lasciato le spoglie del suo violento articolo contro le tariffe doganali di Bismarck, alcuni foglietti sporchi e un numero del Temps spiegato; davanti a Riccardo Joanna, arrotolato e sudicio di stamperia, c’era l’originale dell’articoletto anodino di Paolo Stresa sulle pitture della basilica di San Clemente; alle sue spalle, infissi al chiodo e aperti, i telegrammi particolari da Milano, che si stampavano con la data di Parigi, di Berlino e di Londra; e qua e là un po’ di tutto, un volume del Bouillet ch’era servito a Bertarelli per fare un capocronaca sulla inaugurazione della lapide a Stephenson, nella stazione di Roma e sull’invenzione della locomotiva, e un volume dei discorsi di Gambetta che doveva servire a lui per un articolo contro Rochefort che non aveva poi fatto, un romanzo di Ottone di Banzole, e un ombrello lasciato da Bagatti, poichè verso sera non pioveva più. Queste spoglie fugaci del giornale che in quel momento era in macchina per l’edizione di provincia, assistito da altri, accompagnato da altri alla luce, gli davano una tristezza infinita. Che gl’importava più, oramai, di ciò che conteneva il giornale? Purchè il giornale uscisse, comunque, purchè non morisse d’anemia una sera, che i cilindri d’una macchina tipografica, accanto ad un’altra macchina che versava a fiotti continui un altro giornale più fortunato e più forte girassero anche pel suo! Ecco tutto. I suoi sogni erano svaniti. Egli, Riccardo Joanna, il brillante articolista, il poeta della prosa quotidiana, il cronista mondano e fosforescente, l’istoriografo dei balli e dei concerti, tutto scintillante di aggettivi e di metafore, era schiacciato sotto il peso del suo sogno ambizioso, era soffocato sotto la mole della sua impresa gigantesca, non esisteva più. Da quindici giorni non poteva più scrivere, neppure un articoletto politico pieno di paradossi e di fuoco, neppure una di quelle sfuriate polemiche così impetuose che lo facevano ammirare anche da quelli che non si volevano abbonare all’Uomo che ride. Sopraffatto dalla belva famelica ed urlante ch’egli aveva sguinzagliata, il bell’adoratore del caviale e delle donne aveva smarrito tutti i suoi aggettivi e le sue metafore: uno era il cruccio cocente e divorante che lo affocava, uno era il pensiero che lo aveva abbrancato, una la smania furiosa che lo mangiava; tirare avanti, a forza, ad ogni costo: se no, morire. E a questo fantasma della morte ch’egli chiamava ad ogni tratto, ch’egli avea sin dal principio evocato a sua tutela quando nella cena inaugurale, rispondendo a Giulio Frati che beveva ai funerali del giornale, disse, freddo in faccia, col bicchiere alla mano, con la voce tranquilla:
“Non scherzate col becchino, amici cari; voi sapete bene che L’Uomo che ride sarà il mio sudario.”
Di nuovo i vetri dell’uscio tremarono con fracasso, qualcuno entrò, il gerente venne con un dispaccio che tese a Riccardo; poi cominciò a rassettargli davanti le carte sul tavolino. Joanna aprì la busta del telegramma, ma distrattamente; veniva da Bologna; diceva: Spedito cinque cartelle; segue resto; mandami per telegrafo 50 lire. — Brancacci. Joanna guardò stralunatamente quel pezzo di carta gialla, poi alzò gli occhi, e vide il gerente che puliva con uno strofinaccio i due o tre calamai sparsi sul tavolino.
“L’amministratore non s’è visto per niente oggi?”
“No, signor direttore,” rispose quell’onesto avanzo dei Mille, lunghissimo, che aveva la faccia d’un palafreniere inglese.
“E chi c’è stato in Amministrazione?”
“È venuto un momento Antonio, che voleva parlare con lei; ma il signor Frati l’ha rimandato.”
“Chi ha aperto la posta dell’Amministrazione?”
“Nessuno; la tengo di là: la vuole?”
“Portamela. E chi ha preso i danari della vendita?”
“Il signor Frati.”
“Va bene; portami la posta.”
Il gerente depose sul tavolino un gran pacco di giornali, la resa, e sei o sette lettere. Joanna cominciò a sventrarle con un taglia-carte, e a scorrerle rapidamente.
Mattirolo di Torino chiedeva si diminuisse la spedizione d’un terzo; non lo volevano a Torino L’Uomo che ride; la resa era enorme. Il pretore di Campobello di Licata scriveva una lettera furiosa: da tre mesi respingeva ogni giorno il giornale spendendo due centesimi; volevano finire di mandarglielo, sì o no? non capivano che non voleva saperne di abbonarsi? Il Circolo sabaudo di Ragusa inferiore reclamava il giornale, a cui s’era abbonato, ma che non riceveva mai: perchè? Il Messaggiero di Trinitapoli si lagnava perchè non gli si accordava il cambio; tutti i giornali glielo concedevano; perchè L’Uomo che ride glielo negava? Non si degnava?
Joanna sorrise, scrisse sopra un foglio di carta col lapis rosso: “Si dia il cambio al Messaggiero di Trinitapoli,” e diede una scorsa a cinque o sei cartoline; ancora un rivenditore che chiedeva una nuova riduzione di spedizione, Carlo Erba di Milano che ordinava si cessassero le inserzioni dei suoi avvisi, il rivenditore di Bologna che pregava di passare all’Amministrazione del Fanfulla le 32 lire spedite per errore tre giorni innanzi. Infine, nell’ultima lettera, un consigliere della Cassazione di Firenze accludeva sei francobolli da dieci centesimi per sei arretrati, avendo smarrito sei appendici del romanzo di Ettore Malot, in corso di stampa.
Joanna chiuse nel cassetto la posta, si pose in tasca il telegramma di Brancacci, e andò a cercare il suo cappello, lasciando sul tavolino i francobolli del consigliere di Cassazione.
“Se viene qualcuno a cercarmi, gli dirai che sono in tipografia; torno subito,” lasciò detto al gerente.
La strada ardente di lumi lo accolse con una ventata sciroccale piena di pioggia, che pareva il pianto pieno di lagrime d’un ragazzo, Riccardo si fermò un momento, pensando se dovesse andare su a prendersi l’ombrello di Bagatti o se dovesse montare in una botte; poi s’avviò a piedi per Piazza del Pantheon alla tipografia. Davanti alla stamperia l’acqua cominciò a cadere dal cielo con impeto: Joanna entrò in fretta, strisciando i piedi per asciugarseli sul cemento dell’androne.
In un camerotto piccolo, ov’era la cassa forte dello stabilimento tipografico, Giulio Frati, piccolo, tarchiato, con una capelliera che gli copriva il bavero rialzato del paletot, stava mezzo bocconi sulla prova della prima pagina, correggendo avidamente il suo articolo violentissimo contro Bismarck; e, correggendo, leggeva forte, con enfasi; Bagatti, panneggiato in una immensa pelliccia, col cilindro inclinato sulla tempia destra, col torace vestito d’un gilet di azzurro stellante e gonfio in avanti, ascoltava lisciandosi i mustacchi enormi ed esclamando e ammirando con veemenza meridionale.
“Hai preso tu i denari da Gardini?...” disse Joanna a Frati.
“Sì,” disse Frati sollevandosi un poco dal suo articolo.
“Mi dài cinquanta franchi? Brancacci mi ha telegrafato che li vuole immediatamente.”
“Brancacci aspetterà.”
“Se non glieli mando, non spedisce la fine dell’articolo.”
“Ma io non li ho.”
“Non li hai?” disse Joanna, pallido, stranamente atterrito da questa piccola difficoltà.
“Aspetta che ti do i conti; oggi ho dovuto far io da amministratore.”
Frati si cercò nella tasca e ne trasse un pezzetto di carta che spiegò sulla pagina umida dell’Uomo che ride.
“Ho dovuto dare i quindici franchi dell’articolo a Bertarelli: quell’animale non consegna le ultime cartelle se non ha avuto i quattrini. Il gerente doveva avere sei lire e mezzo per dispacci che tu hai mandati. La vedova Baracconi è venuta a chiedere i cinque franchi mandatile ieri da Trieste, e che l’amministratore aveva impiegato altrimenti: fanno 26.50; il conto di Gardini, eccolo;” e Frati tese a Joanna un altro pezzettaccio di carta tutto sporco sul quale il rivenditore aveva segnato col lapis il risultato della vendita di quel giorno: Ottanta dozzine Uomo, L. 28.80.
“Restano due lire e sei soldi,” concluse Frati.
Joanna, che aveva ascoltato distrattamente la triste aritmetica di Frati, fece un meccanico cenno affermativo col capo, Bagatti gli pose le due mani sulle spalle:
“Io ti saluto, o insigne campione della libertà della stampa. La tua penna sfonda le tenebre dell’oscurantismo, tu sei il gran poeta parlamentare. Il paese reclama la tua splendida parola alla Camera, perchè metta in fuga i vili pipistrelli della maggioranza. Non ti far sopraffare da queste miserie quattrinaie. Specchiati in me, che non ho neppure una vile lira in saccoccia, ed ho la faccia radiosa nella speranza del futuro. Non mi restano altri beni mobili che questa pelliccia e un fucile da caccia, frutto dell’ultima campagna elettorale; e chi sa? forse il Monte di Pietà, in omaggio alla sua benefica istituzione, mi prenderà l’uno e l’altra in cambio di cinquecento lire.”
“E per l’amministratore come si fa?” disse Frati, interrompendo l’altro.
“Perchè, che è stato?” domandò Joanna.
“Ci ha piantati, dicendo che non può andare avanti.”
Joanna si morse le labbra sottili, mentre la fronte gli tremava lievemente.
“Va bene, ci penseremo domani. E il giornale?”
“Il giornale si sta impaginando; Malgagno di là corregge la Camera; ma non finisce mai di chiacchierare.”
“Hai riletta la pagina? Dammela.”
Joanna prese la pagina stampata da una parte e bianca dall’altra, ed entrò in mezzo al movimento della tipografia, seguito dai due redattori. Malgagno correggeva il resoconto della Camera vicino al banco dei compositori sopra un tavolinetto carico di tavolette di caratteri composti, e litigava col proto espandendo la sua loquacità napoletana a piena bocca.
“Siamo in tempo?” domandò Joanna.
“È un po’ tardi,” disse il proto; “il signor Malgagno non finisce più.”
“Va bene,” disse Joanna indifferente, restituendo la pagina al proto, e domandò a Paolo Stresa che entrava in quel momento, molleggiante sulle sue lunghe gambe, dondolante la testa impomatata civettescamente:
“Piove sempre?”
“Non tanto,” disse Stresa.
“Io me ne vado,” disse Joanna.
“Addio, formosissimo giovine,” gridò Bagatti dal mezzo della stamperia.
E mentre Joanna se ne andava, il proto gli si appressò, e gli disse:
“Il contabile della tipografia desidera di parlarle.”
Nel camerotto a vetri, ordinato e tranquillo in mezzo al rombo tumultuante della stamperia, il contabile si teneva davanti i suoi registri e i suoi libri di commercio ben rilegati, uno sopra l’altro. Il piccolo uomo freddo con la barbetta bionda e gli occhi gialligni, tirava delle linee oblique seguendo con la penna il filo d’una riga di ferro sotto colonne di cifre nitide. Joanna, stordito anche dalla molteplicità, e dalla rapidità dei fatti, dei movimenti, dei suoni, entrò stralunato.
“Senta, signor Joanna,” disse quella voce fredda e cortese che aveva o parve avere un che d’insultante, “così non si va avanti. Per fare un favore a lei, le abbiamo accordato di fare i pagamenti settimana per settimana: ella è in arretrato di quindici giorni; ogni giorno promette di pagare, e poi non ne fa nulla. Io non lo posso far più; capirà, abbiamo anche noi i nostri impegni, dobbiamo pagar gli operai.”
Joanna ascoltò la dolorosa filippica che gli scardinava il cuore, senza rispondere. La voce del contabile salì d’un tono, inasprendosi, irritandosi a quel silenzio.
“Insomma, mi dispiace moltissimo, ma ho ordine di significarle che se non paga entro domani, sospenderemo la stampa del giornale.”
“Datemi tempo sino a dopo domani,” disse Joanna, freddo, ma sentendosi salire un tumultuoso turbine di sangue alla testa.
“Impossibile. E, capirà, se dipendesse da me....”
“Va bene,” disse Riccardo, andandosene, preso da un’ubbriachezza ardente; e uscendo dal camerotto, ancora con l’usciuolo in mano, chiamò:
“Frati.”
Frati venne, tutto infocato dal calore della stamperia. Un gruppo di redattori del Baiardo uscivano in quel momento dalla tipografia, ciarlando e ridendo, col loro prosperoso giornale in mano.
“Addio, Joanna,” dissero.
“Senti,” disse Riccardo a Frati, traendolo nel buio dell’androne; “tu non hai scordato quello ch’io ti dissi la sera della cena inaugurale: L’Uomo che ride sarà il mio sudario. Bene, ci ho pensato meglio: morrò forse io, ma il giornale vivrà. — Giulio, se io mi ammazzerò, tu farai vivere il giornale.”
“Sei pazzo?” gridò Frati, afferrandolo.
“Non aver paura, non vado ad ammazzarmi ora; ma non si sa mai. Ciao.”
La porta della tipografia si rinchiuse rumorosamente dietro Riccardo che uscì canticchiando.
“Che è stato?”
“Si cessano le pubblicazioni?”
“Joanna s’ammazza?” domandarono i redattori, affollandosi intorno a Frati.
“Sentite,” disse Frati: “noi siamo alla vigilia d’una catastrofe. Bisogna tener d’occhio Joanna.”
“T’ha detto qualche cosa?” domandò Stresa.
“Facciamo dei sacrifizi, intanto, per aiutarlo: io non ho un soldo.”
“Io neppure,” disse Bertarelli.
“Tu sei un animale,” disse Frati.
“Io non ho che il mio stipendio di travet riscosso oggi,” disse Stresa.
“Io impegnerò la pelliccia e il fucile,” disse Bagatti.
“Bene: sarà un acconto per la tipografia,” disse Frati.
“Andrò a parlare col ministro d’agricoltura e commercio,” disse Malgagno.
“Ma si vuole ammazzare?” domandò Bertarelli.
“È un disperato,” disse Frati.
Com’era caldo, grasso, confortevole il Caffè di Roma alle sette di sera, con tutto il gas bruciante, col brodo alitante, con la carne odorante!
La gente stanca della giornata laboriosa o seccata della giornata oziosa, si abbandonava alla delizia del cibo, e una eccitazione saliva dallo stomaco al cervello scotendo tutti i nervi del corpo, svegliando l’allegrezza negli spiriti. In un angolo, in fondo alla sala, una tavolata di artisti e di giovanotti eleganti romoreggiava lietamente; a un altro tavolo un deputato enorme con una grande catena d’oro spiccante sulla sottoveste nera, improvvisava un articolo politico a un piccolo e sottile deputatino dalla testina di vipera e dagli occhiolini di pesce; due giovani sposi forestieri, seduti l’uno di fronte all’altro, si ridevano negli occhi spartendosi un piatto di maccheroni; uno scrittore elegante di vestiti e di stile, caro alle signore, un Riccardo Joanna giovinetto, pranzava solo, barbaramente, con un po’ di caviale e con una costoletta in salsa d’acciughe.
Questi mentre Joanna passava guardando intorno con l’incertezza di quelli che entrano in trattoria per cercar qualcuno e non per mangiare, lo chiamò. Riccardo gli diede la mano a traverso il tavolino:
“Pranzi con me?” disse il ragazzo illustre.
“No, caro: cerco qualcuno.”
“Una donna?”
“No, un milionario.”
Il bel ragazzo fece un risetto freddo e indifferente cercando di prendersi coi denti due o tre peli dei baffettini invisibili.
Joanna preso da un improvviso impeto di tenerezza, da uno struggimento d’amore subitaneo per quella graziosa macchinetta d’aggettivi rimanti e di periodi sfarfallanti, sedette accanto al poeta sul canapè.
“Me la fai una novella per domenica?”
“Ma che novella! io non ne faccio più novelle. Ci vuole troppa fatica, e non c’è sugo.”
“Dammi una poesia, allora.”
“Ti farò quattro sonetti sui denti della principessa di Santaninfa; quei denti di tigre, sai?”
“Anche tu?” disse Joanna, guardandolo con una tristezza infinita.
“Come anch’io? L’ho vista stamani da Ronzi e Singer, mentre comprava le paste pel suo thè. È divina.”
“So, so,” disse Joanna. “Dunque me li dai questi sonetti?”
“Te li do, ma voglio cinquanta lire subito.”
“Ora non le ho: fammi prima i sonetti.”
“Ciao, allora: mi occorrono subito e vado a farmele dare dall’amministratore del Baiardo.”
“Addio, bambino,” disse Joanna, alzandosi, e di nuovo guardò il poetello con tanta amarezza d’amore, con una tristezza così compassionevole, che costui si avvide di qualche cosa.
“Che hai? E vero che il tuo giornale sta per morire?”
“Questo non lo vedremo nè io, nè tu,” disse vivamente Riccardo; “ma più ti guardo, e più mi sento commuovere; mi sembri mio figlio.”
E s’accostò al tavolo ove pranzava il milionario, che lo aveva visto e gli aveva fatto cenno con la mano.
Il buon vecchio di Basilicata, senatore del Regno, vice—presidente e consigliere d’una dozzina di banche, di compagnie di assicurazione, di società anonime, il buon vecchietto placido, dalla barba bianca, che pareva felice di sè e della vita ad onta della sua grande tragedia coniugale, mangiava dolcemente, ma con le gengive spoglie di denti, e ascoltava con tranquilla attenzione le cose crudeli che Joanna gli veniva dicendo a voce bassa e con faccia serena.
Proprio lì accanto la tavolata allegra romoreggiava, e poco oltre un vecchio dottore tedesco distribuiva il pasto alla sua numerosa famiglia. Joanna, freddo di fuori ma bruciante dentro come se tutti gli spiriti della sua vita si fossero accesi per dar l’ultima fiammata, stava piegato sul fianco destro, e stringeva fra due dita convulsamente una cocca della tovaglia, parlando con calma e lucidezza grandissima.
“L’ultima mia speranza è riposta in lei: se lei mi abbandona, io mi debbo ammazzare questa notte.”
“Non dica questo,” disse il senatore, “non son cose che si dicono, perchè poi o si fanno, e si commette una sciocchezza, o non si fanno, e si diventa ridicoli. Lasci stare, creda a me, i giornali passano, gli uomini restano.”
“Lei non mi conosce bene, senatore, o non conosce i giornalisti; un giornalista è come un capitano di mare: deve colare a picco con la nave.”
“Non dica queste cose, caro Joanna, a un uomo d’affari a cui vuol proporre un affare. Lei vuol esser poeta in tutto, anche nella speculazione, anche nel giornalismo. Ho conosciuto molti ma molti più giornalisti di lei: ho conosciuto bene Girardin, per esempio, il quale diceva che il giornale è oggi ciò ch’era alcuni secoli fa un reggimento. Allora metteva su un reggimento chi voleva tentare l’avventura della forza, ora fonda un giornale. Se l’avventura era buona, il capitano saliva in groppa alla fortuna; se era cattiva, il reggimento si scioglieva, il capitano tornava ai campi, o al castello, secondo la sua condizione.”
Il placido senatore parlava mollemente, bonariamente, con un risolino benevolo, diffondendosi con compiacenza per mostrare la sua erudizione del giornalismo e della vita. Joanna si sentiva torcere le budella per l’impazienza. Sapeva bene oramai il tormento di queste divagazioni degli uomini d’affari coi giornalisti che ne propongono, aveva provato cento volte oramai la tortura feroce che la gente di danaro si compiace di infliggere, menando attorno chi si rivolge ad essa, sermoneggiandolo, facendogli la lezione.
La faccia di Joanna si cominciava a far tetra; quella volta, proprio, la necessità era troppo incalzante; ogni deviamento dalla questione gli era insopportabile.
“In sostanza,” disse il senatore, “veniamo all’affare. Di che si tratta?”
“Si tratta,” disse Joanna, piano sempre, ma con la virulenza magnetica d’un uomo che si lancia ad abbattere un muro, “che se non risolvo il problema insolubile che le ho detto, stanotte mi debbo ammazzare.”
Il senatore lo guardò in faccia, questa volta un po’ impressionato più dal tono che dalle parole, e con un principio d’agonia.
“Dite, dite: vediamo.”
“Mi occorrono diecimila lire domani,” disse Joanna tutto in un colpo, brutalmente.
Il senatore tornò freddo e dolce come prima.
“Sarà un po’ difficile che le troviate. Io non posso darvele.”
“Allora addio,” disse Joanna tranquillamente, facendo atto di alzarsi.
“Aspettate,” disse il senatore, alzandosi a metà anche lui, di nuovo inquieto; “aspettate, che andate a fare?”
“Vado a trovare non dieci, ma venti, ma centomila lire. Se domani L’Uomo che ride esce col suicidio di Riccardo Joanna, la sua fortuna è fatta; se ne tireranno centomila copie, nessuno gli negherà più i fondi necessari alla vita.”
“Aspettate un poco, vediamo cosa si può fare,” disse il buon vecchio, spaventato sinceramente, sconcertato da quella faccia serena e delirante insieme. “Vi occorrono proprio diecimila lire?”
“Non so, mi occorre tutto: seimila lire a Fontanella che non mi dà più carta se non lo pago, milleduecento lire alla tipografia che non mi stampa domani il giornale se non saldo il conto, cinquanta lire a Brancacci che non mi finisce l’articolo se non gliele mando per telegrafo, cinquanta lire a quel ragazzo che porta i sonetti al Baiardo se non gliele do subito, quattromila lire ai miei redattori che da due mesi non hanno avuto un soldo, dodici lire al gerente....”
Il senatore lasciava sfogare il disperato ch’era stato preso da una specie di furore; e masticando lentamente pensava, valutava, misurava l’abisso dal fondo del quale Joanna gridava aiuto.
“Ecco,” disse, “io debbo domattina partire per Torino, ove ho consiglio d’amministrazione della Banca Piemontese; sarò qui fra cinque o sei giorni, e potrò occuparmi di voi. Parlerò coi miei amici, vedrò cosa si può fare, e spero di mettervi insieme fra due o tre settimane otto o diecimila lire. Ma voi dovete darmi la vostra parola d’onore che il vostro giornale durerà.”
“Ve l’ho già detto: il giornale vivrà; ma io non posso aspettare tutto questo tempo.”
“E allora che volete che vi faccia?”
“Sentite,” disse Joanna, “datemi cinquemila lire domani, e non v’infastidirò più.”
“Io non posso, assolutamente.”
“Datemene tremila.”
“Ma no, ve l’ho detto.”
“E allora,” disse Joanna di nuovo glaciale, “tutto è inutile.”
Il senatore cominciava a fremere di paura e di collera.
“Ma come diavolo vi trovate a questi estremi? Non avevate preveduto le grandi spese che richiede un giornale?”
“E potevo io pensare che Sella si sarebbe ammalato? Voi lo sapete: senza la malattia di Sella a quest’ora la Destra e la Sinistra non esisterebbero più, non vi sarebbe più che una sola grande maggioranza dei conservatori più vivaci e dei progressisti più sensati. L’Uomo che ride sarebbe l’organo di questo nuovo partito, avrebbe trovato i fondi, si venderebbe a cinquantamila copie.”
“E voi fondate un’impresa commerciale sopra un sogno che può esser distrutto da una febbre malarica.”
“Senza simili sogni non vi sarebbero nè giornali, nè banche, nè società ferroviarie.”
“E i vostri azionisti? Mi diceste tempo fa che avevate settantamila lire sottoscritte. Sono già consumate?”
Joanna fu fermato nel suo impeto da questa osservazione che lo richiamava alla realtà, che lo puniva con un sol colpo del suo terribile vizio di considerare i suoi sogni come fatti compiuti, i suoi desiderii come conseguiti, le sue illusioni come verità. Balbettò, rispondendo una bugia:
“Hanno sottoscritto, ma non hanno pagato.”
“Come non hanno pagato?” disse il senatore con un risolino incredulo, e riacquistando la sua tranquillità; “non avevate costituita una società anonima? Gli azionisti non si sono riuniti? Non hanno formato un consiglio di amministrazione, non hanno nominato un amministratore, non hanno versato le quote stabilite dalla legge? Voi avete il codice di commercio e il tribunale dalla vostra parte: difendetevi.”
“Io non ho fatto nulla di tutto ciò,” disse Riccardo, “non credevo ci fosse bisogno di tante formalità: mi sono fidato.”
Il senatore lo guardò con pietosa indulgenza. Riprese lo châteaubriand che aveva abbandonato. Il poeta, terminato il suo barbarico pasto, s’accostò, attillato ne’ suoi panni serrati e corti all’inglese, smovendo il collo nel solino che gli segava il mento.
“Senti, Joanna, se non trovo l’amministratore del Baiardo prima di mezzogiorno, verrò da te: e se mi fai trovare i quattrini ti darò i sonetti.”
“Bene, ciao,” disse Riccardo guardandolo mentre s’allontanava dimenandosi inglesemente sulle anche, con le mani ficcate a forza nelle piccole tasche della piccola giacchetta.
“Che cosa costa un giornale, ora, a Roma?” domandò il senatore, preso da una curiosità feroce. Joanna lo guardò negli occhi. Di nuovo colto da una speranza, e obbedì al capriccio del mite e feroce milionario.
“Secondo i casi: il mio costa da otto a diecimila lire al mese.”
“Per Dio! È un affar serio.”
“Il conto è presto fatto. La carta dell’Uomo costa sessanta centesimi al chilo; ogni chilo dà una cinquantina di fogli, quindi per quattro a cinquemila copie si ha una spesa di cinquanta a sessanta lire al giorno, da millecinquecento a milleottocento lire al mese. La tipografia costa da trenta a trentacinque lire al giorno, ossia da novecento a mille lire al mese. La redazione ordinaria, compresi i corrispondenti dalle varie città d’Italia, duemila trecento, duemila quattrocento lire al mese. La redazione instabile, gli scrittori pagati ad articolo, le corrispondenze straordinarie, l’appendice.... da mille duecento a mille cinquecento lire. I telegrammi, su per giù, compresa la Stefani, mille cinquecento lire. La posta, il basso personale, il locale, il gas, millecinquecento lire. Fate il conto.”
“E i proventi?” domandò il senatore, sempre tranquillo.
Riccardo sopraffatto da quella speranza che gli cresceva nel cuore, che ingigantiva, che diventava una follia, tenne dietro al milionario, come quei pescatori che gittano il rampone alla balena, e poi si fanno trascinare dal cetaceo ferito aspettando che abbia perduto le forze e che possano rimorchiarlo a terra.
“Gli utili sono costituiti dagli abbonamenti, dalla vendita in Roma, e dalla vendita in provincia. Noi abbiamo pochi abbonati, perchè l’abbonamento è una cosa lunga, lenta.”
“Quanti?” domandò il senatore.
“Circa quattrocento.”
“Che pagano?”
“Venti lire all’anno.”
“Ottomila lire,” calcolò il senatore. “E la vendita?”
“A Roma diamo il giornale ai rivenditori per tre centesimi, se ne vende da settanta ad ottanta dozzine, sono da venticinque a ventinove lire al giorno, da settecentocinquanta a ottocentosettanta lire al mese.”
“Mettiamo novemila lire l’anno,” calcolò ancora il senatore.
“In provincia invece il giornale si dà ai rivenditori per sei centesimi, se ne vende un migliaio al giorno, abbiamo sessanta lire al giorno e....”
“Quasi ventiduemila lire l’anno,” concluse il senatore. “E la quarta pagina?”
“La quarta pagina per quest’anno non ci dà quasi nulla, perchè non ci conveniva di fare un contratto sulla base di quattromila copie, e perchè a farlo per conto proprio ci vorrebbe un’amministrazione speciale.”
“Dunque,” disse il senatore, “voi spendete più di centomila lire l’anno, e ne introitate meno di quarantamila?”
Joanna restò muto, soffocato dalle cifre, ardente, palpitante d’inquietudine, sotto lo sguardo dolce del milionario, aspettando convulsamente.
“Voi siete un giovine d’ingegno, caro Joanna; è un peccato che vi perdiate così; sentite me: questa è una cattiva speculazione: lasciatela andare. Scrivete dei belli articoli nei giornali degli altri, voi potete far molto.”
Joanna, stordito, finito, sotto quel colpo di mazza, si alzò, prese il suo cappello, attraversò il caffè, mezzo pazzo, non vedendo la gente che lo guardava, si trovò fuori, al freddo, nella mezza tenebra del Corso.
Allora gli accadde una cosa nuova nella sua vita. Una tranquillità lucida empì il suo spirito: il suo cervello, calmo e sicuro, cominciò a funzionar con ordine, obbedendo alla volontà ferma, incrollabile. Stette un minuto a pensare, per vedere che cosa ci fosse da fare, per prestabilire tutto, per provvedere a tutto, senza perder tempo, senza confondersi.
Pel Corso risaliva poca gente, a causa del tempo cattivo: qualcuno andava in giù, in fretta, lungo il marciapiede, con una mano in tasca, e con l’altra reggendo l’ombrello, alcuni venivano dalla Cacciarella, ove s’eran fermati a fare il chilo lungamente, pel freddo, e parlavano di giornali: erano impiegati e giornalisti. Passarono presso a Riccardo, due lo salutarono.
“Ciao, Joanna.”
Riccardo li lasciò un po’ dilungare, poi prese il marciapiede opposto, e cominciò a correre, riparandosi dalla pioggia sotto la sporgenza dei tetti. Davanti al caffè Aragno si fermò: voleva guardare a traverso i vetri, se Frati era là dentro. Ma il contrasto del freddo esterno e del calore interno aveva sparso sui cristalli delle vetrine una patina impenetrabile, e non si vedeva che un rosseggiar vivo che pareva di spiriti brucianti. Joanna girò il manubrio d’una delle porte, ed entrò: da tutti i tavolini delle voci lo accolsero. “Ciao, Joanna.”
Una specie di moschettiere della stampa, alto, con una barba da Ernani, con un mantello verde da toreador sulle spalle, gli si accostò.
“Senti Joanna: io non ti potevo soffrire; mi eri antipatico: te lo dico francamente. Ma ora conta sopra di me, per qualunque cosa.”
“C’è Frati?” disse Joanna, serrando la mano del moschettiere.
“Guarda lì in fondo: ci dev’essere.”
Riccardo traversò le sale, con faccia sicura, con passo fermo, senza veder la gente che lo guardava, e che parlava di lui.
“Quello è un uomo che finisce male,” disse un capitano dei carabinieri amico de’ giornalisti.
“Ma che male,” disse il corrispondente del Secolo di Milano, “oggi stesso si sono accordati con Depretis: gli daranno quattromila lire al mese. Vedrete L’Uomo che ride risorgerà.”
“E pure è un bel giornale, è un peccato!” disse Centola, il comproprietario d’un giornale del mattino che aveva fatto la guerra, sordamente, con la camorra dei rivenditori, all'Uomo che ride.
Frati era in istato incandescente, pareva una caldaia a vapore. Con un bicchiere di ponce davanti, col bavero alzato, il cappello indietro sul cranio, gli occhi lucenti, le mani in aria, polemizzava violentemente con quattro o cinque giornalisti, corrispondenti, redattori d’altri giornali. Era il leader dell’Uomo che ride. Giulio Frati, l’entusiasta del suo giornale, il credente nella sua polemica, l’appassionato della discussione. Per lui, non c’era altro giornale al mondo fuori del suo; e la sua voce, per solito piana, era salita a una tonalità imperiosa e burrascosa. Egli urlava, e sbalzava dall’uno all’altro argomento perorativo, soffocando gli avversari sotto l’esuberanza della dimostrazione.
“Perchè si deve vendere il Baiardo, che è un vecchione, un rudere, una vacuità, ove non c’è più nè men spirito, ove non c’è nulla, nè un articolo, nè un dispaccio, nè la cronaca, nè nulla? Perchè si deve vendere il Sancio Panza, che è il monitore ufficiale dell’imbecillità, della sgrammaticatura, dell’ignoranza? tutto un cumulo di scempiaggini tradotte dal francese? C’è nessun giornale a Roma che abbia un ideale politico? Noi lo abbiamo, noi combattiamo per esso, ogni giorno, da tre mesi, senza tregua. Quando poi la polemica politica si è fatta in Italia con tanta vivezza, con tanta onestà, con tanto fuoco? Quel poco di vita letteraria che ci è in Italia, tutta è raccolta nel nostro giornale; noi pubblichiamo gli articoli di Brancani, di Cesare Dios, di Filippi, le novelle di Capuana, di Verga, di Navarro, i versi di Stecchetti, di Panzacchi, quotidianamente. E non siam stati noi i primi ad introdurre in Roma il sistema dell’informazione telegrafica, rapida, fulminea, colorita, palpitante? Quando mai s’è visto un lavoro giornalistico simile al nostro resoconto del processo Faella? Intanto nessuno risponde ai nostri attacchi, hanno paura, ci fanno la guerra vigliacca, ci fanno la camorra, impongono ai rivenditori di non gridare il nostro giornale, ci rubano le notizie senza citarci. Andate là: la stampa in Italia è vigliacca. Ma, per Dio, verrà il momento....”
“Giulio, vieni via,” gli disse, battendogli sulla spalla, Joanna, ch’eragli sopravvenuto dietro.
“Buona sera, Joanna,” dissero quelli che erano stati a sentir Frati, freddamente, poco convinti dalla sua focosa eloquenza.
“Oh, sei tu? Eccomi,” disse Frati, battendo sul tavolino i soldi del ponce.
“Andiamo all’ufficio,” disse Riccardo quando furono fuori.
Quel pezzo di Corso era un po’ più popolato; il caffè Aragno e quello del Parlamento, ove la gente affluiva, lo popolavano anche nelle sere cattive. Ignazio, il gobbetto allegro, urlava i titoli dei giornali sotto il palazzo Chigi. Piazza Colonna era nebbiosa assai, e bizzarra, con quel lunghissimo stelo della colonna che se ne andava in alto, fra i vapori. Davanti al palazzo del Parlamento, i cui cristalli opachi erano debolmente illuminati, Joanna si fermò:
“Entra un po’,” disse a Frati: “vedi se c’è l’onorevole Feliciani.”
Frati stette qualche minuto dentro. Joanna pensava, nella piazza, fischiando un’arietta e battendo il tempo col piede.
“Non c’è,” disse Frati, tornando.
“Chi c’è?”
“C’è Capponi che scrive una lettera, Boselli che parla con Zerbi, e un vecchio che legge i giornali, non so chi sia.”
“Non importa,” disse Joanna.
Scesero in Via degli Uffici del Vicario; Frati ancora ardente per la gran discussione recente, Joanna tranquillo ancora, sebbene una nuova febbre, il gran delirio finale, gli cominciasse a scoppiare nel sangue. Giunti al portoncino dell’ufficio, disse Joanna:
“Hai fiammiferi?”
Dirimpetto, il liquorista se ne stava all’ingresso della sua bottega. Quando Frati accese il cerino, s’accostò a Joanna:
“Senta, caro signore; mi son seccato d’esser menato in giro a questo modo, per quel conto di duecentoventi lire. Anche ieri il suo amministratore mi ha mandato a spasso, dicendo che il giornale andava in rovina.”
“Venite domani,” disse Joanna, trasalendo a quella guerricciola della necessità, a quell’assillo del bisogno, minuto, insistente, implacabile, all’ultimo momento.
“Ma che domani e doman l’altro,” gridò sgarbatamente il creditore, inferocito, “son tre mesi che mi sento ripetere questa storia. Perchè bevere tanto cognac e tanto kummel, quando non potete pagarlo?”
“Fate un po’ quel che vi piace,” disse Joanna, entrando nel portoncino; e mentre abbasso il liquorista bestemmiava e minacciava, egli montò le scale rapidamente, preso da una ribellione, afferrato dalla pazzia.
Frati accendeva il gas nella stanza di redazione, Joanna si buttò nella sua poltrona davanti alla scrivania, furioso, con una smania di urlare prepotente.
C’erano due lettere. Una busta gialla la prese, la buttò in terra, la calpestò:
“Anche tu, anche tu, anche tu! Andate al diavolo tutti, andate all’inferno tutti, fallite tutti, cani: non voglio più veder nulla, non voglio più saper nulla.”
“Per Dio!”
Frati raccolse la lettera, guardò la busta, c’era su stampato la ditta del tappezziere che aveva mobiliato l’ufficio, che insisteva per avere il saldo, che ingiuriava, che minacciava. Il buon giovine se la mise in tasca, per nasconderla agli occhi di Riccardo.
“Lascia stare, non c’è bisogno,” disse Joanna, che restava nella sua poltrona, coi gomiti puntati ai braccioli. “Oramai non m’importa più nulla. Mi dài il giornale di stasera?”
Frati andò in anticamera a farsi dare dal gerente una copia dell’edizione di provincia, e gliela recò. Joanna aveva cercato un sigaro nel cassetto della scrivania, e lo aveva acceso: si mise a leggere il giornale, con una certa attenzione. Frati sedette al tavolinetto, ove di solito lavorava, e cominciò a scrivere un po’ di cronaca per l’edizione di Roma, sugli appunti che il reporter gli aveva lasciati. Dall’alto le tre lampade gittavano tre grandi fiotti di gas. L’ufficio ancora nuovo, ma già pieno di fasci di giornali vecchi e già polverosi, pareva scoppiare per la luce troppo piena. La faccia di Joanna era nascosta dal foglio, ma il fumo usciva dai lati e dall’alto del giornale. Giulio Frati scriveva in fretta: la sua penna correva con rapidità grandissima sui pezzetti di carta lucida. Dall’uno all’altro, nel silenzio, una trasfusione avveniva; il pensiero dell’uno passava nel cervello dell’altro. Il sognatore che aveva travolto l’altro nella sua illusione, e lo spirito pratico e mediocre che gli aveva dato invano, per avverarla, tutta la sua tenace volontà di lavoratore, s’avvicinavano, si tendevano l’uno all’altro, si stringevano unitamente con un vincolo di simpatia, di fraternità, di affetto, tenacissimo.
“Bello il tuo articolo,” disse Riccardo Joanna.
“Ti piace?”
“Senti,” disse Joanna, alzandosi dalla sua poltrona e venendo a sedere sopra uno scannetto accanto a Frati: “tu hai una vera stoffa di giornalista: hai il cervello solido, non sei poeta, non hai velleità letterarie, non hai il feticismo dell’aggettivo: tu sarai un gran giornalista. Io ho fede in te. Ti affido L’Uomo che ride.”
Frati balzò su, convulso.
“Se non ti levi quest’idea dal cervello, mi affaccio alle finestre, fo un tal chiasso che fo correre tutta Roma.”
“Che idea? sei matto?” disse Joanna dolcemente, sorridendo.
“L’hai detto fino dal primo giorno, l’hai detto sempre, l’hai detto anche stasera: questa è una follia, tu non la farai,” gridò Frati, eccitandosi rapidamente alle sue stesse parole, correndo alla scrivania e mettendovi su le mani, come per impedire a Joanna di accostarsi al cassetto.
“Ma no, smetti, non aver paura, non mi ammazzerò, sarebbe troppo stupida, e darei gusto ai miei nemici. Lascia pur stare la scrivania, sentimi.”
“Io non mi movo di qua, parla pure,” disse Frati.
“Senti dunque. Noi non possiamo andare più avanti. Il senatore, quello che da principio mi aveva promesso di darmi quindicimila lire, e poi non volle far altro che avvallarmi la cambiale di Fontanella, di tremila lire, me ne ha ricusate mezz’ora fa diecimila. L’Associazione Costituzionale, che mi ha menato in giro per un mese, all’ultimo momento, ieri, ha dato le trentamila lire alla Patria. Fontanella non vuol farmi più credito, la tipografia non stamperà il giornale domani se non pago, voi da due mesi non siete pagati, anzi io sono indebitato con tutti voi, con te, con Stresa che mi ha dato il suo stipendio il mese scorso, con Bagatti che ha impegnato il suo orologio per me, persino con Bertarelli che mi ha trovato ottocento lire da uno strozzino. Noi dovremmo dunque domani sospendere il giornale. Invece, senti che cosa ho pensato. Io parto domattina all’alba, per l’Alta Italia: voi fate uno sforzo disperato per trovare dei denari e per ottenere una dilazione dalla tipografia, e tirate avanti per otto giorni ancora, a qualunque costo: io vado a Milano, a interrogare i negozianti arditi che hanno bisogno di réclame, i ricchi ambiziosi che hanno bisogno d’appoggio per riuscire; poi fo una corsa a Genova, e batto in breccia tutti i ricchi industriali che hanno tanti svariati interessi; i proprietari di cantieri che hanno bisogno di ordinazioni dal governo, i moderati che sono irritatissimi della prevalenza radicale; passo per Torino, ove do l’assalto alle banche che vogliono tentare a Roma delle imprese di costruzione, ai ricchi commercianti che temono dei disastri all’apertura della galleria del Gottardo: riunisco in un fascio gl’interessi più opposti, quelli che vogliono assicurarsi il possesso della ricchezza o del potere conseguito, e quelli che vogliono conseguirlo. Sarò qui tra dieci giorni, tra dodici giorni al più tardi con centomila lire, con un nucleo di aderenze, e non avremo più pensieri. Capisci?”
“Capisco,” disse Frati, senza moversi dalla scrivania; “ma perchè non hai pensato a questo prima, in principio?”
“I pensieri buoni vengono sempre in punto di morte,” disse Joanna gravemente, e subito rise: “dico per ischerzo, perchè son pieno di fede e di allegrezza: non mi far la tragedia. Sono contento: finalmente mi è venuta l’inspirazione: i giornali debbono posare sopra una base d’interessi pratici, di bisogni positivi: la base del giornale dev’essere la speculazione, non la politica: la politica è un sogno, è metafisica, è poesia frugoniana.”
“Dunque tu parti domani?”
“Sì, parto domani; e ti affido il giornale. Il servigio che io mi aspetto da te è immenso, è uno di quelli che legano per la vita e per la morte. Ora fammi un favore, va a cercare quanti più puoi dei nostri redattori: voglio parlar con loro prima di partire, voglio ufficialmente investirti de’ miei poteri.”
“Va bene,” disse Frati, “andrò, ma voglio anch’io un favore. Dammi il revolver che hai nel cassetto.”
“Prendilo pure,” disse Joanna, “tanto, non mi occorre.” Frati lo guardò in faccia. Era tranquilla come non la vedeva più da due mesi, illuminata da un risolino persuasivo. Fu sul punto di lasciar lì il revolver, convinto, ma la sua natural prudenza prevalse. Aprì il cassetto, prese l’arme, se la mise in tasca.
“Vengo subito,” disse.
Joanna, rimasto solo, tolse prima di tutto dal muro una delle pistole che stavano appese al semicerchio di bronzo, con le altre armi da duello; poi cominciò un lavorío lungo. Staccò le palle incastrate nelle cartucce del revolver rimaste nella scatola, e radunò la polvere sufficiente per una carica, la pigiò nella canna, la calcò con un pezzetto dell’originale di Paolo Stresa, vi calcò dentro due palle del revolver. Mancava la capsula. Dove trovare una capsula? Andò in anticamera, a svegliare il gerente.
“Vai dal tabaccaio in Piazza Colonna, fatti dare un soldo di capsule per fucile.”
Il reduce lo guardò sbalordito, non tanto dal sonno, quanto dalla stranezza della commissione.
“Spicciati: che hai? Non capisci?”
Tornò di là, si pose in tasca la pistola carica a metà, prese con le due mani nel cassetto un fascio di carte, le posò sulla scrivania. Oramai, la febbre finale, il gran delirio della distruzione lo teneva con una ossessione completa. Era una ebbrezza ardente di distruggimento, e insieme un’allegrezza, una consolazione ineffabile di troncare il martirio quotidiano, di perir nella lotta. Era la vanità e la vigliaccheria. Pensava al supremo e tragico bene della insensibilità infinita, alla sensazione finale della morte, all’articolo che l’avrebbe annunziata, il giorno seguente, nell'Uomo che ride. E un desiderio lo prese, una voglia morbosa di giornalista che muore di giornalismo: prese un pezzo di carta e una penna, e scrisse:
“Non voglio che la mia morte sia annunziata da altri che da me. Io muoio col mio giornale, come il capitano con la sua nave. Noi abbiamo lottato gigantescamente con la tempesta, il mio giornale ed io, sul gran mare della pubblica opinione. Quando ho sentito che il giornale colava a picco, mi son bruciato le cervella sul ponte di comando. A quelli che mi hanno seguito con amore nel combattimento, mando l’ultimo saluto: agli altri offro l’olocausto della mia vita. Così ne fossero contenti! Per parte mia, rompo la mia gioventù, la mia forza, le mie speranze, lietamente. La stampa, come tutti gli stromenti della civiltà, vuole le sue vittime umane. Io mi getto con gioia, con fede, con entusiasmo, nelle fauci del mostro. Un giornalista cade sulla breccia: Evviva il giornalismo! — Riccardo Joanna.”
Joanna scrisse il suo ultimo articolo tutto d’un fiato, con impeto, con passione, come ai bei tempi antichi, lo rilesse tre o quattro volte delibandolo, pregustando con raffinatezza feroce la profonda impressione che avrebbe fatto il giorno seguente. — Ecco il più bell’articolo della mia vita, — pensò. — Lo riporteranno tutti i giornali: Wood lo telegraferà al Times — e, con la compiacenza con cui Carlo V doveva contemplare il suo funerale, prese una matita rossa, e scrisse in cima al foglietto: Primo articolo. C. 12 (corpo dodici).
Fumò lungamente, guardando il fumo, pensando con tanta intensità, che la percezione delle sue idee gli sfuggiva, sentendo però in tutto il corpo un accrescimento formidabile di sensibilità, un’espansione fortissima di calore, come se la sua vitalità si andasse di minuto in minuto centuplicando per morir poi tutta quanta d’un tratto. Cominciò a scernere le carte: fra le prime, gli capitò il verbale del suo ultimo duello, col direttore della Pace, per un articolo veemente dell’Uomo che ride. Lo rilesse, lentamente, per richiamarsene tutti i più minuti particolari, per riprovare la sensazione della morte che aveva avuto quella mattina, acutissima, quando i padrini comandarono l’attacco ed egli si lanciò addosso all’avversario, con la spada avanti, e si sentì la punta fredda entrare nella spalla, profondamente. Accese una candela, accese alla fiamma il verbale. A che serviva? Quella era stata la prova della morte: ora veniva la rappresentazione vera della tragedia. Subito, la stanza si empì di fumo: quel mezzo non andava; i romanzieri avevano torto di adoperarlo sempre, nella catastrofe dell’amore. L’amore! Povero amore! Povera e meschina passione che non salva gli uomini dalla rovina, nè dalla morte, e che non li rovina, nè li uccide. Prese un pacco di lettere, le ultime, l’ultima passione. Non le rilesse, non sentì il desiderio di leggerne neppur una: tutto era finito: proprio. Si alzò, s’accostò alla finestra, l’aprì: nel cortiletto buio una finestra illuminata versava un fragor di voci, maschili e femminili, miste. Sciolse il pacco, cominciò a stracciar le lettere in pezzettini minuti, le buttò nel cortile, piano, piano: sentiva il freddo umido del vento lambire la sua pelle, senza raffreddarla: pareva anzi che il vento s’infocasse, toccandola. Tornò alle altre carte: cominciò a stracciarle come venivano, tutte senza distinzione, buttando i frammenti nel cestino ov’erano alcuni giornali e parecchi articoli non pubblicati. — A che lasciarsi dietro delle carte inutili? — E distrusse un fascio di fatture non saldate, di lettere impertinenti di creditori, lettere di azionisti che avevano promesso di pagare e non avevano mai pagato, lettere di redattori che si offrivano, o che si dimettevano: tutta la storia dell’Uomo che ride, tutto l’archivio d’un giornale, ch’è importante e ricco, umanamente appassionato come un archivio di questura. Infine, preso da un’impazienza, da una furia, stracciò senza più nemmeno guardare. E sedette da capo, per tornare a scrivere. Ma questa volta senza impeto, senza enfasi. Scrisse a Giulio Frati, semplicemente, affettuosamente, chiedendogli perdono dell’inganno, lasciandogli in eredità il giornale, supplicandolo di fare sforzi sovrumani per tenerlo in piedi, dandogli una folla di consigli e di ammonimenti. Scrisse ai suoi redattori, ringraziandoli del concorso generoso e amoroso, della loro abnegazione, del loro coraggio, raccomandando anche ad essi il giornale. E suggellò tutte queste lettere, una dopo l’altra, accuratamente, chiudendo anche la sua necrologia in una busta gialla e scrivendovi sopra: Al proto per domattina. Mise questa busta al posto solito, sulla scrivania, sotto il timbro, ove il proto, quattro o cinque volte nel giorno e nella notte, veniva a cercare l’originale, per l’edizione della sera e quella della mattina.
Per le scale salivano i redattori, con Frati, parlando forte, facendo un rumore grande in quel buio silenzioso. Frati aveva pescato Paolo Stresa al Valle, Malgagno al caffè, Bagatti nell’ufficio del Sancio Panza, ove la sera c’era circolo. Aveva dato la voce, qua e là, nei due o tre posti ove i giornalisti bazzicano la notte, al telegrafo, da Morteo, alla birreria del Quirino, di avvertire gli altri di mano in mano che capitavano. Erano eccitati tutti: avevano tutti un presentimento, una divinazione tragica: portavano anche l’esaltazione dei luoghi ov’erano stati, poichè ovunque, come per una fatale combinazione, non avevano sentito parlare che di Joanna, non avevano parlato che di Joanna. Bagatti era atterrito. I suoi antichi amici del Sancio Panza, che gli avevano sempre rimproverato il suo attaccamento a Joanna, quella sera erano tutti pieni di lodi per L’Uomo che ride, dicevano che Joanna era un forte polemista, che il suo giornale era molto bello: peccato! Ma, già, il pubblico è così strano: chi ci capisce nulla? E mormoravano a tratti, smorzicatamente, delle frasi di malaugurio, la pietà del giornalista che è contento della disfatta d’un nemico e mortificato insieme della disfatta del giornalismo. Qualcuno disse che l’Associazione Costituzionale, ieri, aveva assegnato alla Patria le trentamila lire promesse a Joanna. Un altro disse:
“Stasera Joanna ha fatto un tentativo disperato col senatore ***. Aveva una faccia stravolta. Il senatore s’è fatto fare il bilancio del giornale: è rimasto spaventato: non gli ha voluto dare neppure un soldo.”
Un altro disse:
“E ora che farà? S’ammazzerà.”
Tutta la sala insorse:
“Ma che ammazzarsi; ma uno s’ammazza così, perchè muore il giornale? Ne muoiono tanti di giornali, allora!”
“L’ha detto lui, che s’ammazzava. Lo farà, vedrete. È un uomo di fegato, Joanna.”
“Vedrete che si rassegnerà.”
Allora Bagatti, furioso, balzò su, rosso in viso, violento, feroce, e con una retorica dirompente, con un’enfasi scatenata, con una voce scoppiante caricò d’insulti la società, rinfacciandole la sua vigliaccheria, la guerra settaria e camorristica che aveva fatto a Joanna, la congiura del silenzio, la lega dei rivenditori, chiamandoli tutti coccodrilli, fra gli urli di quelli.
Frati lo venne a salvare, lo fece chiamare per l’usciere, lo trasse via, ancora ribollente, ancora spumante d’indignazione, tutto agitato di collera e di terrore, per Joanna.
“Che c’è di nuovo?”
“Nulla, per ora: Riccardo pare tranquillo, ha delle buone idee, vuol partire per l’Alta Italia; ma bisogna sorvegliarlo.”
Roma entrava sempre più nella notte lacrimevole, sempre più fredda, sempre più buia, sempre più solitaria. Gli uomini si ritraevano addentro, addentro, nelle case calde, nei letti caldi, come per fuggire dai miseri che avevano bisogno d’aiuto, come per non vedere quelli che dovevano necessariamente perire.
“La Duse mi ha raccomandato di stare attento a Joanna, di non abbandonarlo,” disse Paolo Stresa, raggiungendo gli amici che lo avevano fatto chiamare, e che lo aspettavano fuori del Teatro Valle, “io credo che bisognerebbe persuaderlo a far cessare il giornale: può accadere una disgrazia.”
“A ogni buon fine gli ho portato via il revolver,” disse Frati.
Entrando nell’ufficio, lo trovarono tutto illuminato. Riccardo stava prendendo da un armadio le ultime bottiglie di quello sciagurato kummel ch’era servito a festeggiare le prime settimane del giornale, e che gli aveva procacciata l’ultima stilettata. Pareva tranquillissimo. Frati si fermò vicino a lui, gli altri due andarono nel salotto, a seguitare un racconto che Malgagno aveva cominciato da dieci minuti, e che pareva eterno.
“Il Ministro pranzava alle Venete, col Segretario generale dei Lavori pubblici, col Direttore della Banca Nazionale, col Presidente della Società d’Assicurazioni Veneta. L’ho fatto chiamare dal cameriere, per non parlargli davanti a quegli altri. Gli ho parlato lungamente, ho fatto di tutto per persuaderlo. È stato inutile. Depretis è seccato dell’Uomo che ride, s’è accorto che non può tirare avanti, preferisce lasciarlo morire: se lo aiuta a rimettersi in gambe, teme che da un momento all’altro ritorni all’attacco. Quanto a lui personalmente, non può far nulla. Le millecinquecento lire che diede a Joanna, in principio, gli sono state rinfacciate. Poi non può nemmeno aiutarlo indirettamente, col pretesto di affidargli un lavoro: gli articoli di Frati sono stati troppo virulenti, la cosa si saprebbe subito. Del resto il fondo delle spese eventuali era tutto impegnato.”
Joanna entrava con Frati nel salotto, ciascuno con due bottiglie in mano.
“E gli altri?” domandò Riccardo.
“Vengono,” rispose Stresa, alzandosi a prendere una bottiglia di mano a Frati.
Il salotto era comune: aveva un’aria borghese, ma poco casalinga, ma niente affatto intima. Già la polvere era penetrata nella iuta, già la vecchiaia prendeva quei mobili recenti. Sulle poltroncine stavano dispersi dei volumi di relazioni dell’Ufficio di Statistica, sul pianoforte era una confusione di carte di musica e di giornali, le molle dei canapè già cominciavano a fiaccarsi per l’abitudine dei redattori di starvi sopra distesi.
Stresa fece un cenno a Frati che chinò la testa e porse l’orecchio:
“Che t’ha detto?”
“Niente. Vuole che beviamo insieme le ultime bottiglie.”
Malgagno si mise al piano, cominciò a strimpellare un pezzo d’operetta.
Stresa s’accostò a Joanna.
“Senti, ho dovuto dare trenta lire alla mia padrona di casa. Eccoti queste centocinquanta.” Joanna sorrise, bizzarramente.
“Dàlle a Frati: domani avrete bisogno di quattrini, per saziar la fame della stamperia.”
“No no, tienile tu,” disse Frati: “noi provvederemo alla meglio. A te occorreranno pel viaggio.”
“Bene, prendo anche queste: il viatico mi porterà fortuna. Ma non dimenticare di telegrafare a Brancacci, domattina: finisca di mandar l’articolo, avrà i quattrini. A proposito, le prime cartelle non son mica arrivate?”
“Credo di sì,” disse Frati: “aspetta un po’.” E andò nella stanza di redazione.
Bagatti da dieci minuti passeggiava da un capo all’altro del salotto, con la tuba calata sopra un occhio, con la pelliccia sbottonata, terminando a sè stesso, senza emettere altri suoni sensibili che certi grugniti confusi, l’allocuzione furibonda, l’investimento frenetico cominciato contro quelli del Sancio Panza. Ad un tratto, non potendone più, si voltò a Riccardo:
“Joanna, tu cadi vittima de’ tuoi errori.”
“Può essere,” disse Joanna col suo risolino convulso.
Bagatti restò interdetto, colpito dalle parole che gli erano uscite di bocca involontariamente, e dalla faccia di Riccardo, gelata rabbrividente. E per reazione, la sua retorica rigurgitò di nuovo, prepotente, soffocante, stordente:
“Tu dovevi schiacciare i rettili sotto l’impeto della tua gioventù, tu dovevi montare sul destriero della tua prosa fiammante, e buttarti in mezzo al cozzo delle passioni giornalistiche, implacabile, flagellante, schiacciante, per Dio! Tu hai disprezzato il lavorío sordo e sotterraneo dei vili insetti che ti circondavano, e questi t’hanno scavato la mina. Hai voluto essere olimpico, hai voluto essere un Dio; ma gli Dei se ne vanno, per Dio!”
“Gli Dei sono immortali,” disse Joanna, “tu sei sempre la stessa bestia.”
Bagatti rise clamorosamente, sonò il campanello, chiamando il gerente, che gli portasse un bicchiere d’acqua. Frati diede a Joanna un rotoletto di carta.
“Due cartelle e mezzo!” disse Riccardo togliendo la fascia è svolgendolo; “sempre lo stesso, Brancacci.”
E cominciò a leggere l’articolo.
“Che dicevate?” domandò Frati a Bagatti, piano.
“Lasciami stare: sono un asino. Ma ti giuro che è tranquillo, che non pensa ad ammazzarsi: ce ne potremo andare a letto presto, sicuri.”
Pure, il tragico presentimento perdurava in tutti. Joanna, guardando in faccia i suoi amici, aveva quel risolino nervoso che pareva rassicurante, ed era invece un’ipocrisia: nascondeva, l’infelice, sotto quel riso, la convulsione de’ suoi nervi, vi sfogava un tremito di tetano che gli s’era messo alle mascelle, e che percorreva tutto il suo corpo, squassandone ogni atomo sensibile, richiamandogli una intensa e dolorosa vibrazione della vita. E un terrore bizzarro, a tratti, lo assaliva: il sospetto che tutti gli leggessero negli occhi il proponimento fatale, incrollabile; che tutti s’avvedessero dello stromento di morte ch’egli si teneva in tasca, e che faceva una rigonfiatura, sul calzone scuro. E leggendo, ogni tanto alzava lo sguardo furtivamente.
Malgagno seguitava a battere con un dito sopra un tasto, a caso, stonatamente; Stresa leggeva un giornale, bevendo a tratti un sorso di kummel, Bagatti e Frati stavano seduti accanto, sopra un canapè, e parlottavano a bassa voce. “Tieni queste cartelle, serbale,” disse Joanna a quest’ultimo, “è un buon articolo: lo metterai domani, se vengono le altre cartelle. Non scordarti di mandargli i denari, a Brancacci, o di telegrafargli, domani.”
“Che articolo è?” domandò Stresa.
“Un articolo sul Lohengrin,” disse Joanna.
“E quando, mio Dio, non si scriveranno più articoli sul Lohengrin e in favore di Depretis? Quando potrò avere la suprema consolazione di veder fischiati Wagner e Depretis, questi due immortali, questi due grandi impostori?” gridò Bagatti.
La porta a vetri si spalancò di nuovo, e si richiuse con fracasso.
“Chi è?” domandò Malgagno.
“Ciao, cane!” disse Bagatti.
“Buona sera, porci!” rispose Bertarelli entrando, con le mani nelle maniche come un frate, col collo e la barba irsuta nascosti nelle spalle, con gli occhiali scintillanti alla luce del gas. E andò a sedere vicino a Stresa.
“Sapete che si dice per Roma?” disse quell’uomo funebre, che aveva il pettegolezzo malinconico e la malignità iettatoria.
“Che cosa?” domandò Joanna.
“Si dice che dentro la settimana L’Uomo che ride muore, e tu ti ammazzi.”
Ci fu un silenzio glaciale, per un minuto. Frati guardò fissamente Joanna, aspettando una risata. Vide invece come una nuvola oscurar gli occhi del suo amico, il quale disse freddamente:
“Mi dispiace per quelli che te l’hanno raccontato, ma tu non accompagnerai al cimitero nè il giornale, nè me.”
Stresa, il più tranquillo di tutti, il più giovane, il più lontano dal pensiero della morte, preso anche lui dall’inquietudine che tormentava Frati da parecchie ore, si alzò, andò di là. Si fermò un momento davanti alla scrivania, guardò la busta gialla ch’era sotto il timbro, invaso da una curiosità mordente, da un desiderio di aprirla. Resistette, passò in anticamera, a svegliare il gerente, il povero martire che aveva rischiata la pelle in dieci combattimenti per concorrere alla costituzione di una patria ricca di giornali e povera di quattrini:
“Svegliati, Pompeo, rinfresca la tua memoria: rispondimi.”
“Che è stato?” rispose trasalendo il reduce, oramai avvezzo a queste scosse.
“Che ha fatto il direttore stasera, dalle otto alle dieci, mentre noi non ci eravamo?”
“Cosa doveva fare? Ha letto, ha scritto, non so.”
“Non hai notato nulla di straordinario? Non t’ha chiesto nulla?”
“La posta.”
“È venuto il proto?”
“Non ancora.”
“E la cronaca chi l’ha fatta?”
“Non so. Sordini ha lasciato le notizie sul tavolino del signor Frati.”
“Non t’ha data nessuna commissione il direttore?”
“Sì, mi ha mandato a comperare delle capsule.”
“Che capsule? Dal farmacista?”
“No, dal tabaccaio: capsule di fucile.”
Stresa s’accostò vivamente all’uscio del salotto, senza entrare, e chiamò:
“Frati!”
“Che c’è?” disse Frati, venendo premurosamente.
“C’è un guaio,” disse Stresa; e narrò il fatto delle capsule.
Frati diventò bianco.
“L’affare è serio. Come facciamo?”
“Io esco,” disse Stresa, “vado a cercare qualcuno: qui ci vuole una risoluzione disperata.”
E mentr’egli spalancava la porta per uscire, apparve sul pianerottolo Palumbo, il cronista del Tribunale, basso, secco, con due baffi spelacchiati sulla bocca meschina.
“Dunque Joanna parte, lascia morire il giornale. E noi che facciamo?” domandò.
“Chi t’ha detto questo?” disse Frati.
“Non so: si dice. L’ho sentito nella sala di lettura a Montecitorio.”
“Chi c’è a Montecitorio?” domandò Stresa, sempre con un piede fuori dell’uscio.
“C’è l’onorevole Sinibaldi, c’è Wood, c’è l’onorevole Caselli.”
Joanna s’accostò alla porta del salotto, e vide quei tre che parlottavano piano, confusamente.
“Ecco Joanna, io filo,” disse Stresa, andandosene.
Riccardo e gli altri due se ne andarono nella stanza di redazione.
“È vero che parlano di me stasera in Roma? Dicono ch’io m’ammazzo,” domandò nettamente Joanna a Palumbo.
“No, disse Palumbo, nè meno per sogno. Dicono invece che ammazzi il giornale, e che te ne vai ad Assab, con un incarico del governo.”
“Ah, sì?” disse Joanna, con un sorriso d’ironia.
“Il corrispondente del Secolo stava anzi per telegrafar questa fola: l’ho fermato in tempo.”
“Hai fatto male. A che serve? Tanto, lo telegraferà domani lo stesso; se pure non l’hanno già telegrafato altri. Hai visto il corrispondente della Gazzetta Piemontese?”
“Non c’è: è andato a fare un’escursione nella repubblica di San Marino.”
“Meno male, è uno di meno; ma già, non c’è mezzo di scampare: quando tutto manchi, il corrispondente del Fieramosca e quello della Gazzetta di Parma, domani o domani l’altro ammazzeranno il giornale e me, per telegrafo.”
“Facciamo un articolo violento, smentiamo anticipatamente le voci possibili,” disse vivamente Frati.
“A che serve? Lasciali cantare. Hai fatto la cronaca?”
“Ne ho fatta una metà: vado a terminare.”
“Spicciati. Stresa dov’è?”
“Ora viene.”
Palumbo seguì Frati nella stanza di redazione: Joanna cominciò a passeggiare fumando nel breve corridoio tra l’anticamera e il salotto. Nel salotto, Bagatti, Bertarelli e Malgagno, radunati, stretti in un gruppo, parlavano a bassa voce. Quelli non avevano nessun dubbio: Bertarelli parlava della catastrofe come d’una cosa certa, inevitabile: già la considerava come un fatto di cronaca clamoroso, magnifico, come un grande avvenimento giornalistico; e spiegava minutamente le ragioni: e faceva la critica dell’Uomo che ride, i vizi organici della sua costituzione, la fretta della fondazione, l’inopportunità della sua nascita, l’intempestività del suo ideale politico, il difetto della sua redazione più letteraria che giornalistica; e faceva l’analisi psicologica di Joanna, troppo nervoso, troppo poeta, troppo visionario, un adoratore della parola, un nemico della sostanza. E così, di mano in mano, quel frate francescano del giornalismo, quel padre guardiano della libera stampa, così grossolano di gusti e così sottile di malignità, seguitava l’autopsia di tutto il giornale, di tutti i redattori, di Paolo Stresa, superficiale, vacuo, parolaio, con pretensioni letterarie; di Bagatti, retorico, rimbombante, inconcludente; di Frati incoerente, violento, ignorante, rozzo, che sarebbe rimasto sempre allo stato di mediocre, di speranza; dei reporters che andavano a cercare in Questura delle notizie già recate da tutti i giornali; di Malgagno che copiava dal resoconto analitico le relazioni della Camera; di sè stesso che traduceva gli articoli dal francese. E sotto la lingua velenosa del frate-sbagliato, che tagliava come un paio di forbici inglesi, che addentava, che mordeva, la demolizione di quell’opera ch’era costata tante fatiche, tanti dolori, tante umiliazioni, a cui avevano concorso tante giovani forze, tanta generosità inconscia, tanta abnegazione sconosciuta, avveniva. L’organismo malsano si sfasciava: un terrore riprendeva i due che lo ascoltavano, i quali si guardavano senza osare di più domandarsi: Come andrà a finire? poichè lo sapevano, lo vedevano ormai come doveva andare a finire.
“Che fate adesso?” concluse Bertarelli. “È una sciocchezza inutile quella che s’è messa in testa Frati. Joanna è un uomo finito: si deve ammazzare per forza.”
E mentre Joanna, posseduto dal fantasma della sua fine che lo divorava silenziosamente, passeggiava tra alcuni suoi amici frementi di strapparlo alla morte e alcuni altri amici che lo abbandonavano alla fatalità, Paolo Stresa, infocato, ansante, rientrò con l’onorevole Sinibaldi, e con Wood. Entrarono tutti e quattro nel salotto, ov’erano quei tre a parlare, e che si empì. Il deputato meridionale, alto, colorito, con molta barba nera, e il giornalista inglese, secco, muscoloso, una pertica, si posero Riccardo in mezzo, sul canapè, parlando di cose indifferenti, travolgendolo in un discorso copioso, un po’ sconcertati dalla sua apparenza tranquilla. A un tratto Wood gli disse bruscamente, lealmente, non sapendo più oltre sopportare quella falsa ipocrisia che non ingannava nessuno, quell’allontanare il discorso dalle cose che tutti pensavano, che tormentavano tutti gli spiriti:
“Non avete più denari? Ammazzate il giornale.”
“Così fanno in Inghilterra?” domandò Riccardo, non persuaso, sorridendo.
“Certamente.”
“Noi siamo più sentimentali.”
“Allora scrivete delle poesie.”
“Non avrete torto; ma oramai ci sono; che volete che faccia?”
“Smettete. Non avete mai comprato rendita turca?”
“No,” disse Riccardo col suo brutto sorriso.
“Fingete d’averla comprata, e di vedervela morire in mano, buttatela via.”
“E poi?”
“Poi, quando sarà il momento, quando la rendita turca risalirà, ne ricomprerete: farete un altro giornale.”
“Sentite, Joanna,” disse il deputato Sinibaldi, alzandosi e traendosi Joanna nel vano della finestra. Gli fece un discorso lungo, pieno di saviezza, pieno di bontà affettuosa: gli voleva bene, aveva conosciuto suo padre. Joanna ascoltava, sorridendo sempre, non rispondendo mai, quasi per una cortesia fredda, per lasciar parlare sino alla fine quel bravo ed onest’uomo che si credeva in dovere di consigliarlo.
“Sentite, Riccardo: persuadetevi. Il vostro bel giornale è prematuro: non può vivere, non può vincere la concorrenza degli altri più forti. Lasciatelo morire. Non abbiate falsi pudori. Nessuno vi rinfaccerà la disfatta. Vedrete: i vostri nemici, finita la concorrenza, saranno i primi a riconoscere che il vostro giornale è stato un miracolo di forza, di costanza, d’ingegno. Anche non riuscendo, voi avete dato una grande prova di voi, del vostro valore. Avete conquistato un nuovo pubblico, il pubblico degli uomini politici, della gente seria. A un nuovo tentativo, troverete appoggio da tutte le parti. Siete una forza, oramai: fra un anno, fra due anni, il punto d’appoggio lo troverete naturalmente, nel bisogno che si avrà di voi. Dove non è riuscito Sella, riuscirà Minghetti, riuscirà Spaventa, riuscirà fors’anche Bonghi. I vecchi partiti sono corrosi, crolleranno. Il partito, anzi la maggioranza del buon senso, della pratica, del lavoro, sta per costituirsi, per forza propria, necessariamente. Allora potrete fare un gran giornale, sopra una larga base parlamentare, sopra un solido fondamento finanziario. Ora abbandonate questo figliuolo, nato prima del tempo, e non vitale: siate spartano, uccidetelo, non vi fate uccidere da lui.”
“Vi ringrazio assai delle buone parole,” disse Joanna, “ma non deve morire nè il padre nè il figlio.”
Il deputato lo guardò, stupito.
“Io parto domattina per l’Alta Italia, vado a Milano, Torino, Venezia, a cercare i fondi necessari a tirare innanzi, finchè il momento buono non sia venuto, e il giornale possa continuare da sè.”
“Buona fortuna,” disse Sinibaldi, non sapendo che pensare, addolorato davanti a quella frenesia persistente; e s’allontanò.
Ma Joanna cominciava ad essere stanco. Quella opposizione muta alla sua volontà lo irritava. Egli voleva morire, e tutti lo volevano tenere incatenato alla vita. Egli si voleva buttare nel gran mare del nulla, e tutti, tacitamente, senza dirgli nulla per dissuaderlo, con la sola forza della loro volontà, col solo influsso magnetico dell’amicizia, o della ripugnanza della morte, lo trattenevano alla riva. Per reazione, il fantasma della morte non lo tormentava più: ci si era assuefatto, lo vedeva in sè, con indifferenza. A ogni sguardo, a ogni parola di quelli che lo attorniavano, sentiva una nuova dissuasione dalla morte, e la ribatteva in sè, dicendosi che doveva morire, senza nessuna sensazione troppo viva. Solamente la fatica di quella giornata terribile gli penetrava nelle ossa, fiaccandolo. Pensò: — Come farò a stare sveglio sino all’alba? — E lungamente, meditò se dovesse dormire, prima. Intanto, per non farsi prendere dal sonno, ricominciò a passeggiare. Tutti i gruppi s’erano riuniti in un angolo del salotto: parlavano a bassa voce, mentre Joanna passeggiava: parlavano di lui, della sua sorte, apertamente, tutti, non facendosi più illusioni.
“Ma se mi ha detto che vuole andare a cercar fondi pel giornale? Spera sempre,” disse il deputato.
“Non gli credete,” disse Frati: “deve avere la pistola in saccoccia: ne manca una, in redazione: io non ci avevo pensato.”
“Lasciamolo stare,” consigliò piano Bertarelli.
“Sei pazzo?” urlò piano Stresa, furioso. “Io avvertirei la Questura.”
“Non lo abbandoniamo. Stiamo con lui tutta la notte,” disse Frati: “domattina lo accompagneremo alla stazione. Vedremo. Forse si calmerà.”
Joanna, fatalmente, tornò alla scrivania, al trono che stava per mutarsi in catafalco. La piccola scrivania di falso mogano, tutta scarabocchiata di pupazzetti, tutta istoriata di nomi, di leggende scritte fra una cartella e l’altra, era già, dopo tre mesi, un monumento di lavoro, di dolore, di collera. Guardò la busta gialla, sotto il timbro, la sua condanna. La stanchezza cresceva.
Di là, tutti i suoi amici, radunati insieme, cercavano il modo d’impedire la sua catastrofe, preconizzata da lui, auspicata da lui, annunziata da lui. Lentamente, senza spiegazioni, naturalmente, s’erano reciprocamente intesi. La posizione era imbarazzante. Come fare a sottrarsi? Ammazzarsi in quel momento, mentre essi erano tutti di là, con un colpo solo, d’un tratto?
Di nuovo, il fracasso della porta aperta empì le stanze silenziose. Era il proto. Prese le cartelle della cronaca, si fermò per vedere se Joanna aveva null’altro da dargli. Riccardo, macchinalmente tese la busta gialla. Ma come la vide in mano al proto, un fuoco gl’investì il cervello, le tempie gli batterono furiosamente.
“Dammi quella lettera. Non c’è altro, per ora: verso l’alba, forse, si manderanno poche righe.”
Il proto se ne andò. Joanna restò con la lettera in mano, un tremito convulso lo facea vibrar tutto, era gelato. Pensò alle parole di suo padre, le ultime: “Vedi come si muore!” Un abbattimento lo accasciò, si sentì spezzato, in tutte le molle; e con la penna, che aveva presa, macchinalmente, trasognato, scarabocchiò delle parole incoerenti.
All’alba, alla stazione, tutti i redattori dell’Uomo che ride, tetri, pieni di sinistri presentimenti, non osando più lottare contro la fatalità inevitabile, aspettarono che il treno di Firenze partisse. Non partiva nessuno quella mattina, fredda, funebre, lacrimevole. Joanna era una massa inerte. Bianco, con gli occhi rossi, la faccia contratta. Era un uomo morto. Baciò i suoi amici, lungamente, convulsamente, non nascondendo più il pianto. Li guardò dallo sportello, accasciati, distrutti anch’essi da quella tragica avventura che li aveva tutti trascinati. Gli era caduto il cappello, salendo nel vagone: i suoi bei capelli erano tutto un tumulto.
Non seppe parlare stendendo a Frati la busta gialla che aveva portata seco.
Frati, prendendola, non seppe dir nulla. Tutto era inutile, tutto. Solamente, quando il treno se ne andò, battendo, sbuffando, nella tragica alba romana, quelli che restavano alzarono le braccia a più riprese, agitandole. Joanna si buttò dentro, scomparve. Uscirono dalla stazione come morti. E allora Frati stracciò la busta d’un colpo; lesse: una stupefazione, una collera, uno sdegno gli sconvolsero il volto. Passò la carta al vicino. Se la passarono tutti: lo stesso stupore furioso, in tutti.
Sulla carta era scritto:
“C. 12. Per ragioni indipendenti dalla nostra volontà, L’Uomo che ride cessa le sue pubblicazioni. — La Redazione.”
“Homo est: nil humani ab eo alienum puto,” disse Bertarelli, filosoficamente.