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252 il quarto d’ora di rabelais.

una finestra illuminata versava un fragor di voci, maschili e femminili, miste. Sciolse il pacco, cominciò a stracciar le lettere in pezzettini minuti, le buttò nel cortile, piano, piano: sentiva il freddo umido del vento lambire la sua pelle, senza raffreddarla: pareva anzi che il vento s’infocasse, toccandola. Tornò alle altre carte: cominciò a stracciarle come venivano, tutte senza distinzione, buttando i frammenti nel cestino ov’erano alcuni giornali e parecchi articoli non pubblicati. — A che lasciarsi dietro delle carte inutili? — E distrusse un fascio di fatture non saldate, di lettere impertinenti di creditori, lettere di azionisti che avevano promesso di pagare e non avevano mai pagato, lettere di redattori che si offrivano, o che si dimettevano: tutta la storia dell’Uomo che ride, tutto l’archivio d’un giornale, ch’è importante e ricco, umanamente appassionato come un archivio di questura. Infine, preso da un’impazienza, da una furia, stracciò senza più nemmeno guardare. E sedette da capo, per tornare a scrivere. Ma questa volta senza impeto, senza enfasi. Scrisse a Giulio Frati, semplicemente, affettuosamente, chiedendogli perdono dell’inganno, lasciandogli in eredità il giornale, supplicandolo di fare sforzi sovrumani per tenerlo in piedi, dandogli una folla