Vita e avventure di Riccardo Joanna/III
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III.
I CAPELLI DI SANSONE.
Quando Riccardo Joanna schiuse la porta a cristalli per entrare nell’ufficio del Quasimodo si trovò avvolto in un nugolo di polvere che lo fece tossire. Gregorio, l’usciere, dando certi impetuosi colpi di scopa, si spingeva innanzi un mucchio di spazzatura. Gregorio, spazzando, conservava il suo eterno malumore misterioso contro la razza umana: malumore che ora assumeva la forma collerica di un borbottamento ringhioso, ora si manifestava in uno scetticismo pieno di malinconia.
“Quanta polvere!” esclamò Riccardo.
“Più ne levo e più ce ne sta,” rispose Gregorio, crollando il capo, sfiduciato.
Stavano l’uno di contro all’altro, il redattore e l’usciere, divisi dal mucchio di spazzatura: Gregorio lungo, allampanato, pallido, colla barbetta rada sulle guance giallastre, appoggiato alla scopa; il redattore, l’articolista brillante, Riccardo Joanna, bel giovanotto, dagli occhi azzurri pieni di languore, dalle palpebre livide cariche di stanchezza, dal fine mustacchio castagno sopra una bocca ancora fresca e rossa, dalle mani bianche femminili, ma tenaci come l’acciaio.
“Ci sono lettere per me?” domandò il bel giornalista con la sua voce infranta da una grande lassezza.
“Un mucchio,” e crollò filosoficamente le spalle, come compiangendo coloro che ancora scrivono delle lettere.
Riccardo scavalcò le spazzature ed entrò nella redazione, vuota, dove si sentiva forte ed acre l’odore della polvere smossa e quello dell’inchiostro di stamperia già rancido. In una cartella di metallo a compartimenti vi era un fascio di roba al suo indirizzo. In una busta gialla vi era un biglietto rosso con cui si avvertiva Riccardo Joanna che poteva pagare sino all’una pomeridiana del giorno seguente, al banco Savelli, l'effetto di lire mille che scadeva in quel giorno. Leggendo quell’avviso, mezzo stampato, mezzo manoscritto, stando solo in quella stanza dalla luce grigiastra, il volto di Riccardo Joanna si decompose.
“Banco Savelli,” ripetè piano.
E all’idea tormentosa di quelle mille lire che non avrebbe mai potuto pagare l’indomani, si unì subito quella di donna Clelia Savelli, la bella moglie del patrizio banchiere. Erano già due volte in nove mesi che rinnovava quell’effetto di mille lire all’onesto strozzino che gli prendeva solo il tre per cento al mese, novanta lire alla volta: e da tre mesi faceva invano la corte a donna Clelia Savelli, la rosea, sorridente signora, dai grandi occhi grigi, dai denti sfolgoranti, la crudele e dolce signora che tanti uomini avevano amata invano. Questa volta lo strozzino aveva detto no, pel rinnovamento, voleva riavere il suo capitale, d’altronde la cambiale era girata: ma donna Clelia Savelli non diceva no, non diceva sì, rideva, rideva, nella sua irresistibile ilarità di donna bella e felice.
— Proprio al marito, proprio a lui, — mormorava Riccardo, a cui quel biglietto rosso scottava le dita. Distratto aprì la seconda lettera: era un vecchio abbonato di Mondovì Breo che rimproverava a Riccardo Joanna le idee audaci espresse nell’ultimo articolo sul divorzio; ma gliele rimproverava con un ossequio profondo, dandogli dell’illustre pubblicista. Invece uno studente, da Trieste, gli scriveva una cartolina piena d’entusiasmi e piena di punti ammirativi, a proposito dell’articolo sul divorzio: una maestra elementare da Colle Val d’Elsa, piena di una melanconica e sentimentale ammirazione, gli mandava una novellina, Fior di mughetto, sperando che egli la leggesse, e cercasse di farla pubblicare nello spiritoso Quasimodo; un suo amico di Napoli gli scriveva una cartolina domandandogli se era possibile trovar lavoro letterario e giornalistico in Roma. Già rasserenato a quel mite soffio di adulazione, Riccardo sorrideva: malgrado il continuo incensamento che da due anni gli facevano il pubblico e la critica ed i colleghi giornalisti, egli non era ancora disgustato dall’adulazione, era ancora quella una carezza soave che gli calmava i nervi. Con un puerile moto di vanità lasciò lettere e cartoline sulla scrivania, perchè i redattori del Quasimodo potessero leggerle, e schiuse un giornale della sera innanzi, mandato al suo indirizzo: non intendeva bene perchè glielo avessero mandato. E guardandolo con l’occhio giornalistico, scorse subito un segno rosso accanto ad un annunzio del concerto di Beniamino Cesi, per le due, alla Sala Dante: e trasalì di piacere. Doveva esser lei, proprio lei, la taciturna pensosa signora Caterina, dal volto di perla, dalle labbra sottili d’un tono di rosa morta, che non sapeva sorridere, che non voleva amare, ma che chinava il volto quando dal pianoforte toccato da mano appassionata uscivano i singhiozzi che scoppiano, lugubri, solitari nel Clair de lune, di Beethoven; nulla diceva Caterina, che tutti chiamavano santa Cecilia, ma dentro doveva tremarle l’anima per una emozione suprema. Macchinalmente, smorto innanzi a quel favore femminile, Riccardo si mise in tasca il giornale e nel giovane cuore, tutto pieno di fantasmi femminili, s’innalzò, sottile, potente, il fantasma tutto vibrante d’armonia di Caterina.
“È venuto il Pierangeli,” disse Gregorio, entrando.
“Ah! e che vuole?”
“È venuto per quel conto di fiori.”
Riccardo fece un gesto di fastidio. Ora, dopo aver spazzato la stanza, Gregorio spolverava i mobili: ma non aveva piumacciolone nè strofinaccio. Tutto torvo, colle sopracciglia aggrottate, soffiava sul piano delle scrivanie e degli scaffali: la polvere si levava da un posto per posarsi altrove; ma Gregorio si riposava ogni tanto, come stanco per tutto quel fiato buttato. La stanza, male illuminata, conservava il suo aspetto impolverato e triste: Riccardo stava ritto, come indeciso, pensando a chi chiedere mille lire per pagare la cambiale l’indomani. Poi, seccato da quelle nuvolettine di polvere che Gregorio andava sollevando, voltò sulle calcagna e andò nella stanzetta dell’amministratore. Ivi Gaetanino Gargiulo, l’amministratore, un giovanotto bruno e smilzo, silenzioso ed ardente fumatore di sigarette, teneva aperto il registro degli abbonamenti innanzi a sè e contemplava il soffitto. Stava dalla mattina alla sera inchiodato su quel seggiolone di pelle, come se non potesse staccarsene, fumando sempre, con le unghie ingiallite dalle sigarette, gli occhi un po’ inebetiti di colui che fuma troppo, lasciandosi andare a quella vita di contemplazione che i meridionali amano per contrasto.
“Crescono gli abbonati eh?” domandò Riccardo.
“Sì.”
“Allora dammi cento lire.”
“Non posso.”
“Come non puoi?”
“Ho pagato or ora una cambiale di duemila lire.”
“Anche ieri avevi pagato una cambiale di duemila lire.”
“Anche ieri ti sei preso cento lire,” ribattè Gargiulo, quietamente.
“Via, hai ragione sempre tu: ma dammi queste cento lire.”
“Non posso, non le ho.”
“Non è possibile.”
“Non le ho, posso darti delle sigarette, se le vuoi.”
“Cinquanta lire?”
“Neppure dieci.”
“Eh va al diavolo!” gridò Joanna, con la sua voce lamentosa e rabbiosa di fanciullo viziato.
Gargiulo lo guardò coi suoi occhi chiari e inespressivi, ma non rispose. Egli nascondeva, sotto l’apparenza di persona istupidita dal fumo, la naturale e necessaria durezza della sua anima amministrativa. In fondo egli invidiava silenziosamente quei giovani redattori del Quasimodo che raccoglievano i minuti suffragi della stampa: biglietti ai teatri, sorrisi delle attrici, viaggi gratuiti per le inaugurazioni delle ferrovie; e prima di dar loro quattrini, quando li vedeva innanzi a sè, stretti da un fittizio o imperioso bisogno, egli si dava il piacere d’assaporare la sua potenza. Riccardo era già quasi uscito, quando Gregorio lo richiamò e gli disse:
“Ha letto quello che ha scritto sulla lavagna il direttore?”
Riccardo, senza rispondere, andò difilato nello stanzino che pomposamente si chiamava salotto di ricevimento: stanzino adorno di due divani di tela russa, tutt’unti sulle spalliere e sui bracciuoli per le teste che vi si erano appoggiate, adorno di un falso caminetto in tela russa con un galloncino azzurro stinto, adorno di uno specchio coperto da un velo verde. Ivi all’odore di stantío della polvere si univa il puzzo dei sigari che vi erano stati fumati, e qua e là, su qualche mensoletta, sul falso caminetto, sul pianoforte vi erano dei mucchietti di cenere fredda, nauseante. Sopra una lavagna sospesa al muro, il direttore, capitato alle dieci in redazione, aveva scritto delle domande ai suoi redattori, che aveano risposto così:
— “Lamberti, lo fai un articolo sull’Afganistan?”
— “No, ci ho la moglie in parto: Lamberti.”
— “Scano, fammi il capocronaca sul muratore sfracellato: va all’ospedale.”
— “Sì: ma fammi pagare la carrozza da Gargiulo: Scano.”
La domanda: “Franceschetti, te la senti di tradurmi l’articolo del Fremdenblatt, sbagliando solo una ventina di parole?” non aveva risposta. Franceschetti non era ancora venuto in ufficio. Per Riccardo vi era questo:
— “Joanna, se le tue signore ti lasciano il tempo, fammi un articolo sulla principessa Pignatelli.” E Riccardo, preso il bastoncello di gesso, scrisse, superbamente:
— “Non ho nulla da dire alla gente sulla principessa Pignatelli: farò un articolo sul concerto Cesi, alle tre.”
Per le scale Riccardo Joanna incontrò Carlo Mosca, un redattore, quello che faceva i resoconti giudiziari, un fiero consumatore di aggettivi sanguinolenti.
“Vai già a lavorare?”
“No, cerco Gargiulo,” disse l’altro, alzando la faccia preoccupata.
“È inutile,” disse Riccardo, con un gesto di sfiducia.
“Perchè inutile?” e la voce era piena di desolazione.
“Non ha un soldo.”
“Proprio niente?”
“Come ti dico.”
E restarono fermi sul pianerottolo, ambedue oppressi, guardando per la finestra, senza vederlo, il cortiletto semibuio, dove pendevano dai balconcini tanti cenci di vario colore, il piccolo bucato familiare delle serve vicine.
“Tenterò,” fece Mosca, con un gesto disperato.
Riccardo fece sentire un risolino d’ironia e discese via: nell’androne, incontrando il postino delle raccomandate, preso da una curiosità bizzarra, gli domandò:
“Nulla per Joanna?”
“Nulla,” rispose l’altro, senza voltarsi, con la sua voce cantante.
A Riccardo era venuto in mente che qualcuno potesse mandargli del denaro, così, per una combinazione, una eredità, un dono di un ammiratore ricco, un amico che glielo confidasse per negoziarlo; la vita è un romanzo, un lungo romanzo inverosimile, pieno di donne amate e di cambiali pagate miracolosamente. Come lo avrebbe salvato un caso simile! Non poter pagare, al banco Savelli, al marito di donna Clelia, era una cosa per lui insopportabile, faceva scattare i suoi nervi. Ritto, sul marciapiedi del Corso, si lasciava passare la folla intorno, senza vederla. Alzando il capo intravide, dentro un coupé, donna Beatrice di Santaninfa; la carrozza andava lenta lenta, egli da Piazza Colonna la vide fermarsi innanzi al pasticciere Ronzi e Singer. Irresistibilmente attratto da quella seducente, provocante testa bionda, egli entrò dal pasticciere a prendere il wermouth. Vestita di nero; alta, flessibile, donna Beatrice, la bionda, dagli occhi verdi e dall’enigmatico sorriso, sceglieva le pastine, i biscotti, i puddings pel suo thè, e ne faceva fare dei pacchetti; con le mani sottili calzate di lunghi guanti di camoscio, prendeva i pasticcini ancora caldi e li mangiava gentilmente, lungamente, con una irritante espressione di voluttà sulla faccia. Riccardo Joanna, col bicchiere del wermouth in mano, senza bere, non distoglieva gli occhi di dosso a lei, la guardava con così fervida espressione di ammirazione, eravi nel suo sguardo tanto calore di vita, che la contessa arrossiva come se stesse accanto al fuoco e si muoveva nell’ambiente di quello sguardo come la salamandra fra le fiamme. Ella conosceva Joanna benissimo, sebbene nessuno glielo avesse mai presentato; sapeva bene che egli era l’articolista prediletto delle signore per quella miscela di languore e di audacia che era nella sua prosa; sapeva bene che egli era il cronista dell’eleganza femminile, il deificatore della bellezza muliebre. Ella, dunque, posava per lui: socchiudeva gli occhi di smeraldo puro, trasparente, rosicchiava le pastine, sorridendo; sulle labbra grosse e rosse vi era un orlo di zucchero finissimo, provocante; stendeva la mano regale, con un gesto vago, per indicare certi biscotti bruni; piegava un po’ il corpo; beveva lentamente, con una linea di braccio alzata, da statua, con gli occhi spalancati, come dilatati nella loro verdezza, con le sopracciglia spianate, il bicchiere colmo di Porto. Riccardo era incantato; nella bottega tutta bianca di marmi entrava un raggio del sole meridiano primaverile; i camerieri andavano, venivano, premurosi, dai tavolinetti al banco, portando i piatti dei pasticcini ed i bicchieri di Malaga, di Marsala, di Xeres; nell’aria stava un odore di cose dolci, zucchero, crema, vainiglia, cioccolatte; nella fontanella del banco l’acqua scorreva, cantando; ogni tanto si udiva il fruscío dell’acqua di seltz che schiumava dal sifone nel bicchiere, — e Riccardo si lasciava andare, dolcissimamente, alla seduzione di questo ambiente che lusingava i sensi. La contessa di Santaninfa lo incantava, in quel sole caldo e mite, fra quegli odori di cose dolci, fra quei riflessi rosei di vini e di sciroppi; quella eleganza sapiente di acconciatura, la ricchezza della stoffa, l’armonia della tinta e della linea, quella bellezza bizzarra e provocante e sicura e altera, quella trionfante civetteria femminile, che più audacemente si manifesta e più attrae, realizzavano i suoi sogni di poeta adoratore della donna. Egli si abbandonava ad un languore estatico, una specie di molle beatitudine, dove la bionda contessa dagli occhi verdi di pietra preziosa gettava un’acredine di fantasia insoddisfatta. Ella uscì, scomparve qual dea. E Riccardo ebbe come un senso di freddo, come se fosse entrato in una vasta, glaciale, solitudine. E in quel freddo, in quel senso amaro di solitudine, il suo segreto tormento finanziario si risvegliò, gli dette una stretta al cuore, lo fece trasalire come la donna che sente nel seno il morso dello scirro. L’idea di far colazione solo, con quella sottile e cocente tortura interiore, gli era insopportabile; passeggiò lentamente pel Corso, cercando qualcuno che volesse mangiare con lui. Invero non aveva denaro, nè per sè nè pel suo futuro invitato, ma al Caffè del Parlamento gli facevano credito, anche per quindici giorni. Trovò Scano, il cronista, un giovanotto che scriveva delle cronache comiche, zeppe di bisticci, di meditate, profonde cretinerie, e che nella vita era di un contegno lugubre, schivava la gente, non andava nei caffè per economia o per amore di melanconia; ogni volta che lo invitavano a pranzo o a colazione, Scano rifiutava, aveva già fatta colazione, si schermiva con una resistenza, una durezza di persona timida e fiera che non vuole essere compatita.
“Fa’ colazione con me,” gli disse Joanna, “mi fai un favore.”
“Ho già fatto, non posso.”
“Non ti credo, sei un orso.”
L’altro arrossì, ma non disse nulla. Riccardo continuò a pregarlo con quella sua voce spezzata dalla stanchezza, guardandolo con quei suoi occhi pieni di una tristezza inguaribile, tanto che Scano si commosse e disse che gli avrebbe almeno tenuto compagnia per non sembrare un orso. Riccardo conservava nella faccia quell’ombra di sfinimento che molti prendevano per una posa, e mentre il cameriere del Caffè del Parlamento gli veniva spifferando la lista delle vivande, egli scoteva il capo, dicendo no, sempre:
“Bove brasato, arrostino annegato, ossobuco, costola di manzo,” incominciava il cameriere.
“Si prende un buco e ci si mette attorno un osso,” mormorò tetramente Scano, pensando a mettere questa scioccheria nella cronaca dell’indomani.
“Non hai nulla, nulla di diverso?” chiese Joanna al cameriere.
Il cameriere fece un cenno di desolazione, come se mai vi potesse essere nulla di nuovo nella sua trattoria e in tutte le trattorie. E nella memoria dello stomaco di Joanna era così lunga la fila dei buoi brasati, degli ossobuchi, degli arrostini annegati, delle costole di manzo, che nulla poteva più farlo trasalire di desiderio, lo stomaco giaceva in una atonia donde non valse a trarlo neppure la magnifica offerta di una trota.
“Dammi delle ostriche e del caviale,” disse Joanna, alla fine.
“Se egli ti avesse dato del bue, tu potevi dargli dell’asino,” mormorò Scano, con quella mite intonazione di malinconia che gli serviva a ripetere le sue vecchie freddure.
“O Scano, tu mi contristi, amico mio.”
“O Riccardo, più felice di te, in Roma non vi è che l’acqua di tal nome. Noi t’invidiamo tutti; noi abbiamo trovato così un mezzo di nutrirci economicamente, poichè si dice: L’invidia, figliuol mio, sè stessa macera.”
“Non puoi tu parlare semplicemente, come parlano tutti gli altri di questa terra?” gridò Riccardo, esasperato. “Devi per forza irresistibile fare la freddura? Ti sei abbrutito?”
“Credo,” rispose Scano, sorridendo pallidamente.
Non voleva mangiare nè le ostriche, nè il caviale. Riccardo dovette obbligarlo; Scano si difendeva con fiacchezza, sostenendo sempre che aveva già fatta colazione, timido dinanzi alle cortesie, temendo sempre che gliele facessero per un senso di pietà; ed esagerando come tutte le persone ingenue, disse male delle ostriche, sostenne che il caviale non valeva le uova di tonno.
“Perchè m’invidiate?” chiese Riccardo.
“La tua prosa va: tutti la vogliono. Tu prendi cinquanta lire ad articolo, ne puoi fare uno al giorno, perchè non ne fai due al giorno?”
“Per questo,” rispose Riccardo, brevemente.
“Fossi in te, li farei.”
“Fossi tu in me, non li faresti,” ribattè Riccardo, sempre più scuro nella faccia.
“Perchè?”
“Perchè non si può.”
Tacquero. Scano non voleva dividere con Joanna i crostini in salsa di alici, un cibo piccante da stomachi guasti; ma il caviale, le ostriche e il Capri bianco lo avevano eccitato, la sua resistenza fu di pura forma. Joanna era sempre buono per lui, Scano lo ammirava ingenuamente, si lasciava andare a qualche confidenza con lui.
“Vedi, Riccardo, tante volte le penso anch’io quelle cose che tu scrivi, così bene, con tanta efficacia; perchè non le scrivo mai? Non so. Hai ragione, ho il cervello guasto; quello del cronista è un morbo cronico. Il fatto di sangue ci entra nel medesimo e la data di cronaca diventa quella di tutta la nostra vita.”
Riccardo sorrideva; quelle volgari freddure non lo irritavano più. Era quello il nuovo vocabolario giornalistico, con cui si parlava e si scriveva, e lo sentiva da due anni; ci si ribellava ogni tanto, nei momenti di maggior nervosità, ma in fondo quel frasario bizzarro e convenzionale, quello spezzamento metodico e cervellotico delle parole, quel doppio significato cavato fuori a forza, stillato dopo intiere mezz’ore di riflessioni mute, per cui i fredduristi hanno sempre l’aria di filosofi profondi o di uomini perfettamente infelici, per cui la loro compagnia è funebre, quel vocabolario falso, così lontano dalle verità quotidiane della vita, lo cullava. Quello, infine, era uno dei vari gerghi giornalistici, il più alla moda fra il pubblico grosso, come il gergo poetico e aggettivante di Riccardo era alla moda fra i letterati e le signore.
“Io, alla fine,” proseguì Scano, “non ho che un solo desiderio: non vorrei essere il re di tal nome, che andò a finir male, secondo dicono gli storici, sebbene la storia l’abbiano inventata gli storici per poi poterla scrivere....”
“E che vorresti?”
“Vorrei avere mille lire, tutte insieme....”
“Oh!” fece dolorosamente Riccardo.
“Se qualcuno me le prestasse, io gliele restituirei. Sicuro, a venti franchi al mese, togliendole dai duecento che guadagno.”
“Ci vorrebbero cinque o sei anni.”
“Giusto quattro anni e due mesi. Credi tu che qualcuno me le presterà mai?”
“Io non lo credo, Scano mio.”
Tacquero di nuovo, pensosi. Mentre prendeva il caffè, Scano scriveva delle cifre con la matita sul piano di marmo del tavolino.
“Che fai?” chiese Riccardo.
“Calcolo.... calcolo che potrei pagare anche venticinque lire al mese, stringendomi un poco. Ma i calcoli.... i calcoli, come sai, sono una malattia....”
Riccardo non pagò, non volle vedere neppure il conto: anzi prese dal cameriere anche venti sigari di avana, regalias, e una scatola di sigarette russe. Scano non volle accettare che un sigaro e quattro sigarette; per schermirsi egli disse che i sigari napoletani erano superiori a tutti gli altri, e che lui li preferiva.
Sulla soglia del caffè Riccardo fu preso dalla incertezza; era l’una e mezzo, doveva andare alla Lotteria di beneficenza, in Via Nazionale, dove avrebbe trovato donna Tecla Spada, la mordente marchesa, dal naso sottile, dal mento acuto e dagli occhi neri e pizzicanti come il pepe. Ogni volta che si trovavano lui e la marchesa, che portava sempre un nastro rosso infantile negli arruffati capelli neri, vi era un lungo ed acuto combattimento di parole, di frizzi, di paradossi. Ella posava per la donna di spirito e talvolta era spiritosa; ma la sua reputazione la rovinava, ella voleva far dello spirito a qualunque costo, spesso diventava insolente, la sua voce strideva come metallo limato. Riccardo usciva da quella conversazione nervosa, eccitante, con una irritazione che aveva il suo lato piacevole. Ora nel momento della digestione, con la fantasia risvegliata dal Capri, gli veniva una grande voglia di combattere una battaglia di sillogismi bislacchi con la simpatica marchesa dalla bruttezza attraente. Ma alle due cominciava il concerto Cesi e Via Nazionale era così lontana! Forse, prendendo una carrozza.... trattenendosi soltanto per mezz’ora.... ma come l’avrebbe pagata questa carrozza? Basta, un santo avrebbe provveduto. Scano e Joanna si divisero; ognuno salì in carrozza, innanzi al caffè; Scano vi andava coi quattrini della cronaca, Joanna senza quattrini affatto; i pedoni oziosi invidiavano, sospirando, i due giornalisti.
“Corsa di consolazione,” esclamò Scano, che andava all’ospedale omonimo.
Sulla porta del palazzo dell’Esposizione Riccardo lasciò la carrozza, dicendo al cocchiere di aspettare; tanto lo prendeva a ora, avrebbe pagato più tardi, anche in quel momento la dilazione, la speranza dei disperati, lo lusingava. La lotteria era nel salone terreno, in fondo: attorno alla tavola vi era pochissima gente, le signore sbadigliavano, annoiate, dando ogni tanto un colpetto al manubrio delle urne, dove rotolavano i cartoccetti sottili dei numeri, mentre nel fondo, sopra una piattaforma, vi era l’esposizione degli oggetti, una farragine di tutte cose meschine. La marchesa Spada aveva il suo tavolino presso la porta, chiamò subito Riccardo.
“Joanna, Joanna, venga qui, si prenda un migliaio di numeri.”
Egli rimase interdetto, non aveva pensato a questo. Pure si accostò:
“È fatta l’elemosina,” disse, cercando di scherzare.
“Io sono una poverella privilegiata, mi hanno rilasciato brevetto, s. g. d. g., come nelle scatolette dei fiammiferi. Prenda dei numeri, Joanna, può guadagnare l’anello del Kedive.”
“Ma che! L’anello del Kedive non è nei numeri, o è falso, o non è mai esistito anello di Kedive: questo è un covo di vagabonde, oziose, mendicanti e truffatrici,” e rideva rideva nervosamente, volendo nascondere con l’audacia il suo imbarazzo. “Perchè non va al concerto Cesi, invece di seccarsi qui?”
“Perchè non ho bisogno di un accompagnamento di Mendelssohn per flirtare, io!”
“Preferisce Cimarosa?”
“Non flirto io.”
“Sì? e allora che son venuto a fare, io, qui?”
“Un corso d’impertinenza, a quel che pare.”
“Grazie della lezione,” fece Riccardo inchinandosi. Ella rise: era ben seducente, ridendo, per Joanna, la marchesa Tecla Spada. Le labbra sottili si distendevano su certi dentini minuti minuti, e i piccoli occhi neri brillavano, mordevano, bruciavano.
“Io me ne vado a sentire Beethoven, marchesa; egli è più onesto di lei, che non flirta, che tende dei tranelli ai suoi amici, con le lotterie. Ci va, almeno, a Villa Borghese oggi?”
“Ci vado: porterò meco cento numeri per lei, Joanna.”
“Inoltrerò querela al procuratore del Re, per rapina. E all’Apollo ci viene, questa sera?”
“Joanna, lei ha l’aria di volermi sedurre, come una inesperta fanciulletta.”
“Questa è infatti la mia intenzione, marchesa,” soggiunse Joanna, gravemente.
“Stia attento alla sua riputazione, allora: ella si compromette orribilmente con me.”
“Oh!” fece lui, come desolato, “non ho più nulla da perdere.”
E girando sulle calcagna, andò via subito senza voltarsi indietro, temendo d’essere richiamato; si buttò con un sospiro di sollievo dentro la sua carrozza, guarito della orribile angoscia di quei minuti, disfatto dallo sforzo, ma tranquillo. Pensava fra sè: — Avrà capito la marchesa che non avevo un soldo in tasca? — Questo dubbio lo crucciava, gli faceva venire i sudori freddi come nel salone dell’Esposizione, lo faceva tremare di collera e di vergogna, di nuovo, soffrendo nel suo esacerbato, sconfinato amor proprio, che infuriava a qualunque contatto. Era vergognoso di quella sua povertà, nascosta con tutta la cura, ma che ogni tanto trapelava: era arso da desiderii sempre più forti e più larghi, disprezzava quel migliaio di lire che guadagnava al mese, sfacchinando, buttando via il meglio di quello che pensava e sentiva, sfruttando il suo successo, imponendosi con quella sua ardente voglia di guadagnar quattrini. Mille lire! che erano mille lire, consumate a cinquanta lire alla volta, in un giorno talvolta? Erano così feroci i suoi desiderii, e così poche quelle mille lire, in un lungo mese di tanti giorni! Era così duro, così pesante fare un articolo, e cinquanta lire duravano tanto poco! Ma un pensiero sprezzante lo calmò, ad un tratto:
— Queste femmine crudeli non sanno nulla della vita: la marchesa non avrà capito niente. —
La Sala Dante era piena di gente. Beniamino Cesi era un artista molto amato nella società romana: in tutta la lunghezza della sala vi erano cinque file profonde di signore, nell’aria tepida primaverile alitava quel delicato soffio femminile, odore di stoffe, odore di capigliature, odore di pelle macerata nei profumi. Con le nari dilatate e frementi, Riccardo Joanna respirò quell’alito, un’espressione di benessere gli si dipinse sul volto. Tenendo il cappello in mano, lasciando vedere la ricciuta testa dalla bianchissima fronte, cercando vagamente con gli occhi una persona ancora introvabile, Riccardo Joanna si avanzava, senza far rumore, strisciando fra le sedie, con la cautela del gentiluomo che non vuol disturbare, con l’aria della persona illustre ma modesta che non vuole attirare l’attenzione. Qualche testa femminile si volse a guardare due volte il bel giovane dal viso pensoso e languente, qualche voce sussurrò: Joanna. Piccolo mormorio dilettoso che si levava sempre sul passaggio di Riccardo, e che il suo orecchio fino coglieva a volo, suffragio carezzevole dell’ammirazione, che gli produceva sempre un trasalimento di vanità. Sul lato sinistro della sala, accanto a due signore, vi era una sedia vuota, vi sedette, senza far rumore, cercando con gli occhi Caterina. Era poco lontana da lui, la bruna creatura mistica, dai grandi occhi neri e torbidi — un nero opaco di carbone, — ed il viso pallidissimo, di anima inferma, non ebbe neppure un brivido, scorgendo Riccardo Joanna solo. Come aveva guardato nella bottega del pasticciere la contessa Beatrice di Santaninfa, Riccardo guardava intensamente donna Caterina, mettendo tutta la potenza de’ suoi nervi in quello sguardo. Naturalmente solo la donna aveva il potere di fissare e di concentrare l’anima vagabonda di Riccardo, solo la donna ne attraeva tutti i sogni in un sogno solo, solo la donna gli dava l’obblio di ogni cura. E della donna lo attraeva tutto: bellezza aperta, sfacciatamente luminosa, assorbente come il sole, o timida purità di bellezza immersa nella penombra, fantasia mondana che di frivolezze vive e di frivolezze non sa morire — o immaginazione sentimentale che cerca l’amore e non vuol subirlo, avendolo trovato — o cuore profondo e sconosciuto che si ammanta di leggerezza, ma palpita di passione — o grande mistero indecifrabile di cuore, di sensi, di fantasia, come spesso la donna è. — Le labbra della bionda contessa impolverate di zucchero chiamavano i baci dell’amatore pazzo e irriverente; gli occhi cocenti di donna Tecla Spada davano all’amatore crudele il desiderio di vederli dolcificati dalle lagrime dell’amore; ma egualmente strano doveva essere il segreto delle labbra violette e dei neri occhi di carbone di donna Caterina Spinola. Baciavano quelle labbra smorte che non sapevano ridere? Che erano, nell’amore, quegli occhi spenti? Riccardo guardava donna Caterina, profondamente interessato, amandola con tutto l’impeto dei suoi nervi, come aveva amato la contessa di Santaninfa e donna Tecla Spada: e desiderando di essere amato da lei, non volendo altro, non desiderando altro, come aveva desiderato l’amore di donna Beatrice e di donna Tecla, parendogli che oltre quell’amore niente altro vi fosse.
Nel grande, religioso silenzio degli ascoltatori, Cesi sonava: e sonava con quel concentramento, con quell’assorbimento delle sue ore di musica solitaria. Giammai si voltava al pubblico, sonando, e distrattamente, come se nulla vedessero, i suoi occhi seguivano il volo delle sue mani sulla tastiera bianca e nera. Un pensiero di Beethoven, pensiero grave, quasi solenne, si allargava nella nota di una musica eminentemente semplice: e il pensiero parlava di cose alte e pure, di nobili cose che nascono dal cuore e al cuore arrivano. Donna Caterina Spinola, sotto la falda nera del gran cappello piumato alla Rubens, stava a sentire con la faccia immobile, senza batter palpebra. Non si voltava mai a guardare Riccardo Joanna, solo un lievissimo rossore le si distendeva di mano in mano sotto gli occhi, a striature. Non si scosse neppure quando Cesi fu applaudito alla fine del pezzo. Riccardo, scontento di quella indifferenza, di quella freddezza, cominciava ad irritarsi, un senso di collera si mescolava al suo desiderio. Non era dunque lei che gli aveva mandato il giornale, segnato col lapis rosso? Non era quella una dichiarazione chiara ed aperta, nel medesimo tempo un appuntamento dato senza essere stato richiesto? Ed ella non si smoveva, inflessibile, in quella morte apparente del suo viso; tanto che, profittando del movimento fra un pezzo e l’altro, egli si tolse donde era seduto, e scivolando fra la gente, andò a sedere alle spalle di donna Caterina.
“Ebbene?” le disse, duramente, con la prepotenza dell’uomo imperioso.
“Che cosa?” domandò lei, senza voltarsi, senza turbarsi.
“Niente,” fece lui, chinando il capo, umiliato, sentendosi salire un flutto di lagrime agli occhi, un nodo di singhiozzi alla gola.
E un lamentío, un singhiozzo era nell’aria divina di Pergolese: Tre giorni son che Nina, che Cesi sonava al pianoforte. Nina era ammalata, Nina si moriva d’amore, e la musica piangeva sulla giovinetta morente con una insistente mestizia, con un abbandono di note musicali che si trascinavano, tristi, monotone, profonde, appassionate di dolore. Donna Caterina Spinola, che le amiche chiamavano Santa Cecilia, piegava un po’ il capo, come se poca forza ornai lo reggesse, come se avesse bisogno di un petto su cui appoggiarsi e piangere.
“Caterina,” mormorò la voce tramutata del fanciullo infelice.
E fu così forte l’appello, giunse così direttamente alle fibre profonde di quel cuore di donna, fu così potente l’evocazione, come quella di Cristo innanzi alla tomba di Lazzaro, che senza voltarsi, ella disse:
“A San Pietro, dopo il concerto.”
Quando Riccardo Joanna scese la scaletta della Sala Dante, trovò il suo cocchiere che lo aspettava pazientemente con le gambe incrociate, leggendo un giornaletto del mattino, molto popolare fra i vetturini. Joanna fu interdetto, un minuto, pensando che non aveva nulla da dare a questo cocchiere, ma la sua fantasia correva già a San Pietro; pure, macchinalmente, cavò di tasca un taccuino, ne lacerò una paginetta e ci scrisse:
“Caro Carlo, non posso farti il concerto Cesi, vengo alle cinque in ufficio a fare il giovedì santo a San Pietro. Ciao. — Riccardo.”
Non osando salire in ufficio, passando innanzi il portone del Quasimodo, lasciò il bigliettino al portinaio, perchè lo portasse su al direttore del giornale, e fece galoppare il cavalluccio della botte verso San Pietro, vinto da una grande impazienza, cercando domare la febbre dei suoi polsi. L’atmosfera fresca e la penombra della basilica lo calmarono subito: tanto che essendovi entrato di corsa, immediatamente rallentò il passo, placato, felice, come l’uomo che è accanto alla felicità. Donna Caterina Spinola non si vedeva, la basilica era quasi vuota, e in fondo ad una cappella laterale, certi preti e certi diaconi cantavano nasalmente, inascoltati, le antifone della passione di Gesù. Riccardo andava attorno, senza far rumore, cercando il cappello piumato di donna Caterina, sapendo di doverlo trovare da un minuto all’altro. Infatti vide un’ombra nera inginocchiata al cancello di bronzo della cappella di papa Della Rovere; le si accostò, la lasciò pregare, non le disse nulla, non la chiamò. Ella sapeva bene che egli era là, ma reclinato il capo, le mani congiunte, orava fervidamente. Non si alzò che dopo qualche tempo, s’inchinò, fece un ampio segno di croce e si pose accanto a Riccardo. Passeggiarono insieme, guardando distrattamente i monumenti, scambiando qualche parola.
“La chiesa è troppo vasta.”
“E fredda,” e rabbrividì sotto il suo mantello di velluto nero che sembrava una coltre funebre.
“Voi pregate però, qui, signora.”
“Prego sempre.”
“Che gli dite a Dio?”
“Tutto.”
“Ditelo anche a me.”
“No.”
“Perchè?”
“Perchè.... così.”
“Che volete da me, allora?”
“Non voglio nulla.”
Tacquero, ella già chiusa e diffidente, gelata nel misticismo bizzarro del suo spirito, indietreggiando spaventata e sospettosa innanzi al fatto che stava per compiersi: egli scontento ed offeso nel suo amor proprio di uomo, sentendo il ridicolo di quella posizione, di due che non si amano e che si pentono di aver voluto cominciare ad amarsi.
Riccardo specialmente, anima ansiosa di amore, ardente ricercatore di avventure, credendo tutto dovuto al suo ingegno e alla sua bellezza, era crudelmente mortificato; sotto la calma esteriore, sotto il consueto pallore del bel viso giovanile, infuriava una grande collera di amor proprio. Come un fanciullo che tutto vuole e a cui tutto è negato, egli avrebbe voluto piangere, strillare, battere i piedi in terra, far male a quella donna, lacerarle il vestito; ma si dominava con un forte sforzo, cercava di lasciarsi vincere da quel disprezzo del femminile che ogni tanto trapelava attraverso il suo entusiasmo per la donna.
“Vi piace la Nina, signora?” chiese freddamente, come se si trovasse in un salone e non in quella immensa chiesa fresca e silenziosa, a un convegno d’amore.
“Mi piace assai,” rispose l’altra, fissandogli in viso i suoi occhioni tetri.
“E perchè vi piace?”
“Perchè intendo il suo dolore.”
“Che!” fece lui, con un disprezzo profondo, con un riso fierissimo d’ironia.
“Addio, signore.”
“Addio, signora.”
Ella affrettò il passo, senza voltarsi, senza neppure farsi il segno della croce, uscendo dalla chiesa. Riccardo, non soddisfatto di quello che le aveva detto, rabbioso contro sè stesso e contro tutte le femmine, non la seguì neppure, la lasciò allontanare, mandando alla malora le beghine e la musica e l’amore. Uscì dopo; la vista della sua carrozza che lo aspettava lo fece trasalire di nuovo, come se una trafittura, per poco calmata, ricominciasse a trapassargli l’anima.
“Dove andiamo?” chiese il cocchiere.
“Andiamo.... al Corso, va piano, che non c’è premura.”
E morsicchiando il suo sigaro avana, al mezzo trotto del cavalluccio, Riccardo si domandava, ostinatamente, come avrebbe fatto a pagare quel cocchiere; erano le cinque, forse, doveva dargli tre ore e mezzo, almeno sette lire, doveva trovare sette lire fra tre minuti, per darle a quell’odioso cocchiere, che gli pesava sullo stomaco come un incubo. Per Via Borgo, lungo il Tevere, per Ponte Sant’Angelo, Joanna si guardava attorno vagamente, con una curiosità disperata, come se dovesse trovare nelle insegne delle botteghe, nelle vetrine, nelle acque sacre del fiume, nelle statue brune, le sette lire per pagare il suo cocchiere, il suo feroce nemico che non lo abbandonava. Oramai l’offesa al suo orgoglio di uomo che gli aveva fatto subire donna Caterina Spinola si affievoliva sempre più, dinanzi al cruccio reale, presente, di queste sette lire mancanti, che egli doveva trovare ad ogni costo: e si rammentava di donna Caterina, perchè era proprio lei che se lo era trascinato dietro a San Pietro, aumentando così a ogni minuto il suo debito verso il cocchiere, facendolo morsicare sempre più profondamente da quel verme roditore che è la carrozza presa a ora. Nella stretta via di Tordinona, la sua carrozza si fermò; un coupé ingombrava la via, fermo innanzi ad una bottega di antiquario. Sulla porta della bottega, una signora parlava vivamente con un commesso dell’antiquario, un giovanotto pallido, anemico, coi capelli rossi, gli occhi lattei e le guance macchiate di lentiggini. Era donna Clelia Savelli, che vedendo Riccardo, subito gli sorrise, facendogli un amichevole cenno del capo: egli restò incantato innanzi a quel sorriso, d’un tratto rasserenato, con una letizia che gli penetrava nel cervello, gli si diffondeva per le vene. Scese dalla carrozza, raggiunse donna Clelia.
“Eccomi sorpresa,” disse ella, ridendo. “È un gran mistero, tutta un’istoria, ma per carità, non la racconti sul giornale!”
“Io la racconto sicuro.”
“No no, la prego, sia discreto.”
“Me la paga, questa discrezione?”
“A che prezzo?”
“A discrezione.”
“Bene, si vedrà. Sa, si ricorda, che io desiderava da gran tempo una portantina? Quella portantina tutta dorata, dipinta sulle quattro pareti, così barocche, così artistiche nel loro barocchismo? Vari amici mi avevano promesso di trovarmela, una portantina, anche lei doveva far ricerca, si rammenta? Ebbene, io ho da ieri la mia portantina, foderata di vecchio velluto rosso, una tinta disfatta che è seducentissima....”
“Come lei....”
“Come me, più di me, anzi! Indovini chi me l’ha data?”
“Io non indovino mai nulla, presso lei.”
“Mio marito, glielo dico subito: quel caro e buon marito che attraverso i suoi affari di banca ha il tempo di pensare alle mie portantine. Che marito!”
“Eccellente,” mormorò Riccardo, come distratto.
“Ha duecento anni la mia portantina, è vecchia assai, una perla di portantina, credo che l’abbia pagata mille franchi, per la rarità. È, del resto, bruttina, ma io la desideravo tanto!”
“Si farà condurre in portantina?”
“Ma no: quella non serve a nulla, la terrò in salone, vi metteremo in penitenza quelli che mancano da troppo tempo da casa nostra.”
“Non io vi andrò.”
“No; lei è molto fedele. Ritornando al mio discorso, io cerco di rendere la cortesia a mio marito. Voglio donargli una bella cosa pel suo scrittoio, che ne dice? un pugnale, un bel pugnale moresco, ricurvo....”
“Il coltello divide, contessa.”
“Dividere per regnare,” e rise in un modo seducentissimo. “Io tengo al mio pugnale, ma qui non ve ne sono; ne ha visti, lei, dei pugnali, dei bei pugnali, in qualche posto?”
“Nel mio cuore, contessa, come si dice nei vecchi romanzi.”
“I vecchi romanzi sono più belli dei nuovi articoli: ma dove potrei trovare il pugnale per mio marito? Da Cagiati?”
“No, non credo.”
“Da Janetti, allora?”
“Forse; o dalla Beretta, vi sarà qualche pugnale giapponese con cui quella brava gente ha l’onesta abitudine di aprirsi il ventre.”
“Bene, venga con me, Joanna, bibelotteremo assieme.”
“È che dovrei andare al giornale,” disse lui, abbozzando un pallido sorriso.
“Oh! il giornale, a che serve? io l’aspetto dalla Beretta, venga.”
E lestamente salì nel coupé. Riccardo rimase sulla soglia della bottega di antiquario, stupefatto, guardando fuggire la carrozza.
“Lo vuole, un bel cofano da nozze?” domandò placidamente a Joanna il commesso pallido dai capelli rossi.
“No, no.”
“Allora una lampada di argento antico?”
“Non mi serve,” rispose il giornalista, sempre più imbarazzato.
Ma ancora gli balenava dinnanzi la luce di quegli occhi incantatori, luce tutta temperata di dolcezza che infondeva una letizia a colui che la contemplava; e non esitò più, si buttò in carrozza, ordinando al cocchiere di condurlo in Via Condotti, accordando a sè stesso un’altra dilazione, tutto preso di donna Clelia. Anzi, di nuovo trasportato nelle esaltazioni della fantasia, scese precipitosamente davanti al grande magazzino della Beretta: ma la contessa non v’era ancora, egli restò interdetto. Erano le cinque e mezzo, il gas era già acceso in quel negozio che sembra un piccolo appartamento esotico, tutto caldo e chiuso, in una temperatura orientale.
“Vuole qualche cosa?” domandò, dolcissimamente, la piccola signorina Beretta, dal pallore di avorio giapponese, dai lunghi pensosi occhi giapponesi.
“Mi faccia vedere.... delle scatole da thè.”
Mentre lui sogguardava la porta, sperando di veder entrare la contessa, la signorina dalle lunghe mani candide, dalla vocina discreta, veniva disponendo, innanzi a lui, le scatole di lacca bruna su cui si rileva qualche bizzarro fiore d’oro, le scatole di legno leggerissimo dove s’incrosta qualche piccolo animale metallico, madreperlato, una lumachetta, una mosca, un ragno; le scatole di metallo traforato, dove la pesante materia è vinta dal magistero di un lavoro che la fa rassomigliare a una trina.
“Bambou con applicazioni di metallo; cloisonné, metallo dalla patina di porcellana; avorio scolpito,” mormorava la signorina vestita di nero, portando le scatole brune, azzurre, gialle.
La sottile seduzione di quegli oggetti singolari cominciava ad invadere il cervello di Joanna, prestandosi alle morbose raffinatezze sensuali dei suoi gusti. Quella bizzarria poetica di forme, quella morbida attrazione misteriosa che sta nelle cose dell’estremo Oriente, quella visione di colori e di linee piene di un senso strano andavano sino al cuore ammalato di poesia del giovane giornalista. Nulla egli poteva comperare, ma qualunque oggetto gli presentasse la signorina, egli non sembrava mai contento: quando ella gli proponeva di prendere qualche altro genere, egli annuiva col capo, un po’ stupefatto da quell’ambiente. Ella alzava le mani verso una scansia alta, si chinava ad aprire una cassetta, piccolina, taciturna, come una brava fata silenziosa e sorridente.
“Buona sera, Joanna,” disse una molle voce.
Donna Clelia Savelli era entrata senza che egli la vedesse, tutta ridente negli occhi e nelle labbra. Ella emise un sospiro di soddisfazione, si guardò attorno, si sedette, s’installò, sbottonò il mantello di velluto, e tutt’assorta nella contemplazione di una bella, elegante, slanciata gru di bronzo, chiese alla signorina:
“Mi fate vedere qualche arme?”
La signorina si dette di nuovo a ronzare per quel salotto esotico, senza far più romore di una mosca, e portò a donna Clelia tre o quattro sciabolotti ricurvi, dalla lama d’acciaio, dal manico altissimo, dalla guaina di legno. La signora, tutta serena, con una bell’armonia di movimenti, con la sua tranquillità di persona felice, considerava lungamente le impugnature di avorio, le lame filettate e passava l’arme, in silenzio, a Joanna, e passandogliela, non parlava, solo il suo benefico sorriso le fioriva sulle labbra. Riccardo ritto accanto a lei, seguendo il moto ondeggiante di quel cappellino nero scintillante di perle che si curvava sulle armi o si arrovesciava indietro per contemplare la poesia colorita di un paravento, deliziandosi nella soave linea di quel corpo femminile così placidamente bello nel riposo, così vivo nel movimento, Riccardo prendeva la sciabola e l’osservava collo sguardo acuto e pregno di ammirazione dell’artista — ogni tanto lui e donna Clelia Savelli si guardavano, come per dirsi che nulla valeva ancora la pena della loro scelta. Alla fine un pugnaletto muliebre, dal manico di avorio scolpito, piccolo, sottile, fermò il gusto di donna Clelia, e lo guardava tutta lusingata, ne provava la punta acuta sul dito.
“Sono venute le stoffe?” chiese, con la strascicante e morbida voce.
E a Joanna:
“Che ha comperato?”
“Nulla, guardavo le scatole da thè.”
“Chi glielo fa, il thè, a casa?”
“Nessuno; sono solo.”
“E l’ha trovata la scatola?”
“Io non trovo mai quel che cerco, contessa.”
Insieme si misero a guardare di nuovo le scatole, un po’ curvi ambedue, dando in qualche esclamazione di meraviglia. Il calore del salotto chiuso, tutto foderato di tende e di tappeti, tutto pieno di mobili, faceva salire una fiamma rosea sulle guance di donna Clelia: curvandosi accanto a lei, Riccardo sentiva come un profumo voluttuoso e caldo, che forse veniva da lei, forse si combinava con quello dei legni odorosi e teneri dei mobili. Intanto la signorina tornava con le braccia cariche di un mucchio di stoffe e le depose su una sedia, cominciando a spiegarne una innanzi agli occhi di donna Clelia e di Riccardo. Era una lieve garza colore di latte, color di cielo biancastro, appena appena ricamata di roseo, di verdino, d’oro.
“È un vestito di estate, da signora giapponese,” mormorava la signorina, piegando delicatamente la garza.
“Perchè non si veste così, contessa? Io le farei una poesia in giapponese.”
“Vorrebbe chiamarsi Tien—Tsin?”
“Perchè no?”
La seconda era una stoffa nera, di un nero profondo e tetro, ricamato di rosso e di giallo, a grandi fiori clamorosi. Poi la signorina ne spiegò un’altra, di un grigio ferro, tutta cosparsa di fiori rosei e di cicogne bianche.
“È un sogno,” mormorò donna Clelia.
“Sì, un sogno,” ripetè Riccardo.
La esposizione continuava; sotto le mani bianche della signorina, le stoffe aperte e ripiegate sfrusciavano come vestiti serici femminili, che si affrettino al convegno amoroso; e le tinte che i paesi di Levante amano, le tinte che i grossolani europei non hanno ancora nella loro tavolozza, lusingavano teneramente e ardentemente gli occhi dei due spettatori: il bianco d’argento simile al ventre lucido di certi pesci, il viola che sfuma nel roseo, la vampa fra rossa e gialla, il verde intenso dove l’azzurro si è liquefatto, e infine il roseo giapponese, il roseo del salmone, il roseo che pare carne o che pare corallo, il roseo così vivo e così languente che pare tutta la vibrazione d’un amore — e dappertutto sulle tinte smorte come su quelle accese, sugli azzurri di cielo, sui biancori di latte, sulle tetraggini rosse, la grande nota calda, la grande nota ricca, la nota del lusso e del piacere, — l’oro — il fantastico fiore di oro, di una flora impossibile, il bizzarro animale d’oro, dragone o liocorno d’una impossibile fauna. Donna Clelia, creatura esteriore, ma fine, sorrideva di piacere innanzi a quella galleria, sempre variabile, innanzi a quei quadri apparenti e sparenti, e tendeva un po’ le mani, curiosa, eccitata, desiderosa di portarsi via tutta quella ricchezza artistica, per adornarne i suoi salotti. Ma Riccardo, dai nervi squisiti, dalla vita tutta falsa o falsificata, dai sensi vibranti, godeva profondamente, aspirando il godimento da tutti i pori. La temperatura calda del salotto lo circondava come di una tepida carezza soffiante sul volto e sulle mani, e la luce chiara si arrestava, dolce sui legni, sugli avori, sui bronzi, scintillante sulle porcellane, sulla madreperla; un alito profumato vibrava nell’aria, profumo di donna, profumo orientale; niun rumore; accanto a lui, donna Clelia, bella, sorridente, lievemente esaltata, lievemente accesa dal riflesso de’ colori; e innanzi a lui la piccola fata muta e miracolosa, che dispiegava tutti i tesori dell’estremo Oriente. Un pallore più intenso si allargava nel bel volto del sognatore: e al sognatore sembrava di essere un possente signore, dei paesi del sole, un possente signore carico di ricchezze, nonchè di amore, che tenendosi accanto la bellissima sua donna, in una stanza del gineceo, tutta odorosa di legni, tutta odorosa di acque fragranti, lasciasse errare i suoi occhi stanchi e soddisfatti sopra le stoffe meravigliose, che le schiave ricamano per deliziare l’occhio del loro signore. La visione penetrava in lui per tutti i sensi lusingati e si facea una realtà.
“Addio, Joanna,” disse la molle voce, e una mano strinse la sua dolcemente.
Era solo, sul marciapiede, nella via bruna, dove il freddo della prima ora notturna lo faceva rabbrividire, la carrozza della contessa fuggiva verso la Trinità dei Monti, dietro di lui la porta a cristalli della Beretta s’era chiusa. Finito il sogno esotico, caldo ed odoroso, un fiato umido e acre lo feriva, nell’ombra, nella solitudine.
“Dove comanda?” domandò il cocchiere suo, paziente.
A Riccardo parve più oscura la notte, più triviale la luce dei fanali, più umido il marciapiede; gli parve di essere così solo, così infelice, così infinitamente infelice, di fronte a quell’uomo che gli chiedeva dove andava, che uno smarrimento lo inchiodò sul marciapiede. Dove andava? Non sapeva che dirgli, si guardava intorno, come trasognato.
“Dove comanda?” chiese di nuovo il cocchiere.
Gli doveva dare dieci lire, forse, a quest’uomo che si era trascinato dietro, da tante ore, chissà da quante ore, consumando in sua compagnia il tempo, il tempo che è denaro.
“Va’ a Piazza Colonna,” gli disse.
Percorse quel breve tratto, torvo, concentrato nella sua volontà di far quattrini, per pagare quel cocchiere: era deciso a prendere d’assalto Gargiulo; d’altronde, in ufficio, avrebbe scritto un articolo sul Giappone, il suo vasto sogno esotico.
“Quanto devi avere?” chiese al cocchiere.
“Sei ore: dodici e cinquanta.”
“Bene, ora te le mando giù.”
E corse per la scala, col capo chino, come un soldato che marcia all’assalto di una fortezza; diede un urtone al direttore che scendeva.
“Sei un bel tipo, Joanna,” disse costui, riabbottonandosi i polsini, finendo la sua acconciatura, mentre scendeva; “non mi fai l’articolo sulla Pignatelli, non lo fai sul concerto Cesi, non lo fai su San Pietro, perchè prometti?”
“Vado a farti un articolo sul Giappone.”
“È tardi, il giornale va in macchina.”
“Lo farò stasera, per l’edizione di Roma.”
“Sì. Ci conto.”
Se ne andò quietamente, con la sua aria di manovale indifferente, d’impiegato freddo e puntuale.
“Gargiulo; cinquanta lire?” chiese, entrando dall’amministratore, Riccardo, e la sua voce pareva un grido di dolore.
“Non le ho,” fece costui, togliendosi la sigaretta.
“Cerca bene, te ne prego; fammi questo favore.”
“Sai che conto di anticipazioni è il tuo?”
“Gargiulo, non mi fare la predica, ho da pagare dodici lire di carrozza.”
“Perchè vai dietro le donne?”
“Sono le donne che mi vengono dietro,” fece l’altro, con un moto di fatuità.
Gargiulo, aprì il cassetto, frugò, rovesciò una scodella di soldoni, lentamente, fumando sempre, facendo fremere d’impazienza Riccardo, contento di tenere nelle sue mani scarne di amministratore quel bel poeta fortunato, la cui voce tremava di dolore come se gli cercasse l’elemosina.
“Eccone venticinque....”
“Non basta, non basta, cerca bene.”
“Ventisette, trenta.... trenta dovrebbero bastarti, devi darne solo dodici al cocchiere....”
“E pranzare? fa’ un miracolo, Gargiulo, pesca almeno quaranta lire, te ne prego....”
“Impossibile, contentati di trentacinque lire, te le do del mio.”
“Sia,” fece l’altro con un sospiro doloroso.
“Ma mi devi fare un sonetto, un bel sonetto per nozze, da stamparsi sul raso.”
“Te lo farò: addio!”
“Domani, domani....”
Scappò via, scese nella strada, per pagare il cocchiere.
“Sarebbero tredici lire, sor padrone, è finito un altro quarto d’ora.”
Riccardo, generoso e superstizioso, per evitare il numero fatale gli dette quattordici lire; quando la carrozza si fu allontanata, egli prese la sua via, fra le onde di persone che rincasavano per pranzare, che si avviavano alle trattorie. Le botteghe del Corso erano sfolgoranti di lumi e di tentazioni, e nell’umidore di quella prima ora serotina, fra i volti pallidi delle persone affaccendate, fra le facce stanche di chi ha consumato le forze in una giornata di lavoro, qualche viso femminile, tutto dipinto, dagli occhi bistorti, appariva e scompariva, nascondendo l’ansietà sotto il sorriso. Ma in Riccardo la distrazione era profonda; cessata l’ansietà del bisogno immediato, una più grave, più profonda si faceva largo, cresceva nella sua anima. Le mille lire della cambiale, girata a Pompeo Savelli, quelle mille lire introvabili, impagabili, erano la sua grande tortura, come il cocchiere era stato la sua piccola tortura. Giusto sopra un cartellone rosso si promettevano mille lire di compenso a colui che sapesse trovare una tintura dei capelli migliore di quella di Zempt: e una mancia competente era promessa, in un piccolo cartellino bianco, a colui che riportasse a chi li aveva smarriti, sei fili di perle orientali. Riccardo pensava se non valeva la pena d’inventare realmente una tintura, per far la burletta di cavare le mille lire al signor Zempt; guardava per terra, macchinalmente, cercando i sei fili di perle, o un portafoglio smarrito: chissà, accadono certe cose così strane! La vetrina di Marchesini lo arrestò; egli si fermava sempre innanzi a quegli splendori, attirato, lusingato nelle sue fantasticherie: e una visione di mani femminili gemmate, di teste femminili coronate di gioie, di colli rotondi e bianchi anelanti mitemente sotto le collane di perle, passò tumultuosamente nella sua immaginazione. La donna lo rapiva di nuovo; in sogni di amore, di bellezza, di lusso: donna Beatrice Santaninfa preferiva gli smeraldi, i vivi gioielli delle bionde ardenti; donna Caterina Spinola amava le misteriose perle brune, tetre come i suoi occhi; donna Paola Spada scintillava di rubini, sempre insieme al suo ingenuo nastro rosso fra i capelli arruffati; donna Clelia Savelli i diamanti grossi legati in argento, i topazi vescovili di un delicato colore di vino bruciato, le amatiste gialle e vive. Donne e gioielli, belli idoli adorni di ricchi voti lo trasportavano via sopra le ali rapide del desiderio, e in fondo, nell’orizzonte del sogno, una leggera figura di biondina smorta appariva. Elsa Maria, una poetica sottile figura di donna dagli occhi dolcissimi, dalle chiome morbide sempre adorne di mughetti, in tutte le stagioni. — Bisogna che io trovi dei mughetti, — pensò il poeta.
E si avviò verso il Pierangeli in Via Frattina, ma a mezza via un’idea lo trattenne. Gli dovea dei quattrini al Pierangeli, non era possibile ritornarvi: eppure gli occorreva un ramo di mughetto, a ogni costo, per quella sera, per piacere a Elsa Maria, la delicata signora di quel grosso e grasso signore che era Pietro Magoz: Elsa Maria andava ogni sera all’Apollo a sentire il Lohengrin. Riccardo cercò il ramoscello di mughetto da tutti i fiorai minori, che stanno nei portoni e da quelli ambulanti, ma non ne avevano, la stagione era troppo inoltrata: e il bisogno di quel ramoscello verde carico di fiorellini bianchi si fece così impetuoso, che Riccardo entrò ansioso nella bottega profumata della Zamperini. Ne aveva, ella, dei mughetti, ma già un po’ mangiati dal caldo primaverile, già un po’ rosicchiati dalla ruggine dei fiori. Il migliore dei ramoscelli Riccardo lo pagò due lire. Lo portò via, felice, tranquillo, coi sensi soddisfatti.
Andava a casa, era per vestirsi in marsina, poichè doveva andare all’Apollo e in casa Savelli: voleva fare la sua toilette quotidiana di scrittore amato dalle donne, pallido, fantasioso, dagli occhi pregni di sogni, pranzare in una trattoria elegante, e poi farsi trascinare al teatro in carrozza, pensando, fumando. Salì una scaletta del numero settantuno, in Via della Vite, bussò al primo piano a una porticina scura, entrò in una stanzetta fredda e buia. La padrona di casa, ferma sulla soglia, aspettava che egli parlasse.
“Sora Rosa, vi sono camice stirate per la marsina?”
“Sicuro, sor Riccardo, sono qui sul letto, cinque o sei, le ha portate la stiratrice oggi.”
Al lume di una stearica fioca, egli osservò quelle camice insaldate, dure, lucidissime. Una era a fiorellini neri da estate: una aveva il goletto troppo alto, un vero capestro: la terza aveva il goletto arrovesciato, di quelli che non usano più: le due ultime avevano gli orli del goletto e dei polsini sfilacciati, da non mettersi.
“O sora Rosa, nessuna di queste va!”
“Figlio mio, che v’ho da dire? Le camice si sciupano presto, a lavarle e stirarle sempre, con quel lucido che vi mangia la tela....”
“Ma come faccio, io, ora?”
“Facciamo la barba alle camice, si radono le sfilature.”
“Ma che, ma che....” fece l’altro crollando il capo desolato.
“Tenetevi questa che portate, è buona ancora....”
“Ma vi pare, sora Rosa? E indecente, mi occorre una camicia fresca, lucida: ho da andare in teatro, dalle signore, dappertutto, non posso farne senza....”
“Figlio mio, quello che posso fare è di darvene una di Toto mio, ma non vi andrà, è troppo più grasso di voi....”
“No, no. Sora Rosa, piuttosto fatemi un favore, ve ne prego, andate a comprarmene una, dai De Paolis, qui al Corso: prendete la misura del collo, la camicia costa otto lire e cinquanta, eccole qua.”
“Io, sor Riccardo mio, per voi ci vado volentieri, che fosse per un altro, non lo farei; ma qui, in casa non ci ho nessuno, se bussano, mi dovreste fare il favore di aprire.”
“Va bene, sora Rosa, aprirò....”
“Già non verrà nessuno, ma se capitasse Toto, ditegli che torno subito, avesse a pensar male....”
E la romana chiacchierona, dal floscio viso cinquantenne, se ne andò, dicendo ancora qualche parola contro le lavandaie, e raccomandando la porta a Riccardo.
Costui, già distratto, cercava nel cassetto una cravatta bianca e i bottoni di metallo dorato per la camicia: e nel cassetto era una gran confusione di cravatte smesse, di guanti vecchi, spaiati, di calzettine di seta dal tallone bucato: e prima di raccapezzare i cinque bottoni, la cravatta bianca, il fazzoletto di batista pulito, un paio di guanti presentabili, Riccardo dovette perdere la testa, rimestare in tutti i cassetti, in tutte quelle anticaglie, buttando in aria certe camice da notte un po’ logore, scotendo i vecchi gilets estivi, tutto un ciarpame di roba inutile, un rimescolío di stracci eleganti e buoni a nulla.
Lo tenevano la malinconia e il dispetto: la malinconia, perchè oramai non avrebbe più potuto pranzare al Caffè di Roma o da Morteo, non aveva più che dieci lire e cinquanta, non poteva rimanere senza un soldo, doveva andare all’Apollo, all’Esquilino, aveva bisogno della carrozza, e ad andare in una trattoria mediocre ci soffriva troppo; e il dispetto di quella mancanza continua di quattrini, il dispetto di quel continuo squilibrio, il dispetto dell’assetato a cui danno due dita di acqua. Andava su e giù nella stanzetta magramente mobiliata, con un tappeto stinto sul pavimento, con un lettuccio stretto stretto; e la fioca stearica si agitava al passaggio nervoso del pallido scrittore.
Alla fine si decise: aprì un balconcino, e chiamò un giovanotto, un cameriere in marsina senza falde che si pavoneggiava alla porta di un’osteria, là dirimpetto; costui dovette capire, perchè attraversò subito la strada, e si ficcò nel portoncino.
“Portami da pranzo,” gli mormorò Riccardo piegandosi sulla ringhiera.
“Che ho da portare? Gnocchi al sugo? Pollo alla cacciatora? Un po’ di trippa in umido?”
“Portami gli gnocchi e il pollo, ma subito.”
“Vino e pane?”
“Sì.”
“Frutta?”
“Sì, sì.”
Riccardo rientrò chinando il capo, era il pranzo cattivo, segreto e umiliante dei giorni poveri, il pranzo da poeta bello, vanitoso e sognatore fatto in fretta nella piccola stanza in disordine, al chiarore di una stearica, scostando un calamaio dove l’inchiostro si era seccato, un volume di Baudelaire tutto macchiato di cera, una bottiglia di acqua di fieno. Dopo dieci minuti il cameriere era risalito un paio di volte taciturnamente, lasciando la porta socchiusa, portando due o tre piatti coperti, stendendo un tovagliolo grossolano sul tavolino, posandovi sopra dei panini biancastri, poco cotti, due mele e un fiaschettino impagliato pieno di un vinello color giallo. Sempre in silenzio, il cameriere dalla giacchettina troppo corta coi risvolti unti, posò accanto al piatto degli gnocchi il conto che ammontava a due lire e sessanta. Riccardo pagò, prima di pranzare, e dette venti centesimi al cameriere. Solo solo, torvo, soffrendo solitariamente, col capo abbassato, egli divorò quegli gnocchi su cui il grasso si era gelato, quel mezzo pollo tutto coperto di grosso pepe nero, bevve quel vinello romano acidulo che raschiava la gola, mangiò una mela e respinse sul tavolino tutti i piatti sporchi.
“Ecco la camicia,” disse trionfalmente la sora Rosa rientrando.
E per fargliela ammirare, ella andò a prendere un suo lume a petrolio, che diffuse un maggior chiarore e un po’ di allegria in quella stanzuccia.
“Avete pranzato qua? Chi sa che intrugli vi avrà portato Checco? Volete che ve lo faccia un poco di caffè?”
Egli disse di sì, voltando la testa per non vedere quei piatti sudici e la posata sporca. Come sempre, le donne erano carezzevoli con lui, gli volevano bene istintivamente, sedotte da quella pura fronte bianca, dalla melanconia di quei begli occhi languenti, dalle linee delicate e affaticate di quel volto giovanile.
Cominciava a vestirsi lentamente, di migliore umore, indossando volentieri quella livrea nera e bianca, dando con la sua persona una grazia all’abito moderno, un po’ tetro: e quella sua lenta trasformazione da lavoratore stanco e infelice in uomo di società, pallido ma elegante, quell’appressamento graduale che egli veniva compiendo ad un mondo più felice, più ricco, gli ridavano la coscienza di sè stesso.
Profumandosi i ricci e bruni capelli, arricciando il molle mustacchio sulle morbide labbra, dando una correzione britannica a tutto il suo vestito, egli sentiva svanire la sua malinconia.
“Per carità, sora Rosa, toglietemi dinnanzi tutti questi piatti sudici.”
“Sì, figlio mio: bevete il vostro caffè. Grandi conquiste stasera? Volete venire a guardarvi tutto nello specchio del mio armuàr?”
La padrona di casa reggeva il lume nella sua camera e Riccardo si guardò due o tre volte di faccia e di profilo, nel grande specchio dell’armadio.
Passò il fazzolettino di batista nello sparato del gilet e se ne ritornò in camera sua, dove lo seguì la sora Rosa.
“Non dimenticate nulla,” gli disse la padrona, e gli porse i guanti, il portafogli, la mazzetta.
Macchinalmente egli aprì il portafogli e vide sette lire da una parte, il biglietto rosso del banco Savelli dall’altra. Uno smarrimento subitaneo, rapido, lo colse: calcolò mentalmente quante ore lo separavano dall’indomani a mezzogiorno, in cui doveva pagare le mille lire. Erano le nove; in quindici ore doveva trovare mille lire o far protestare la sua firma.
“E domani c’è articolo, sor Riccardo?”
“Domani? non so.... forse ci sarà....”
“La signorina del terzo piano si lagna, vorrebbe che scriveste ogni giorno....”
“Si seccherebbe poi, sora Rosa.”
“Non lo dite, non lo dite. Siete così bravo e dite tante cose belle alle donne, voi, come nessuno sa dirle, che le donne non si seccheranno mai di sentirle.”
“Vi metterò nel mio articolo, domani,” disse ridendo Riccardo.
“Uh! Sono troppo vecchia, figlio mio.”
Egli uscì, si mise in carrozza con un piglio deciso, come se buttasse indietro tutte le sue angustie. Voleva non pensare, voleva godersi la sua serata, poichè tanto tormentosa era stata la sua giornata: cercò di dimenticare guardando dalla sua carrozza, mentre fumava voluttuosamente un sigaro, i pedoni che si affrettavano ai teatri, ai circoli, ai caffè; non pensava a donna Tecla Spada, dagli occhi ardenti che avrebbe desiderato vedere molli di lacrime; pensava a Elsa Maria, il fragile fiore del nord italiano, che languiva nel pesante aere romano, povera creatura, a cui giammai forse sarebbe comparso liberatore il cavaliere del cigno. Oh, fosse egli stato un principe, un signore potente e audace, come l’avrebbe portata via, lontano, nel mare glaciale, Elsa Maria, la sottile creatura. Donna Caterina Spinola aveva bisogno delle grandi e brune navate, dei freddi marmi, dell’incenso, dei cantici sacri per essere amata; donna Beatrice di Santaninfa voleva trionfare nei balli, dove è profondo, invincibile il fáscino femminile; donna Tecla Spada amava la viva lotta dello spirito, il suo carattere pugnacemente nervoso si concedeva solo alle stravaganze del paradosso; donna Clelia Savelli aveva bisogno dei velluti antichi, degli argenti smorti, dei bronzi giapponesi, degli avori italiani medioevali per poter essere amata; Elsa Maria, la snella figurina esangue, aveva solo bisogno della candida neve e dei negri abeti. Riccardo Joanna avrebbe voluto fuggire in un grande paese sconosciuto, tutto neve, tutto candido e glaciale, al polo nord.
“Non vi è teatro stasera a Tordinona,” disse il cocchiere, fermandosi innanzi al teatro buio e silenzioso.
“E perchè?” chiese Riccardo, come risvegliandosi da un torpore.
“È giovedì santo. Dove ha da andare?”
“Portami in.... sì, in Piazza Colonna,” rispose il giornalista.
E si rigettò, annoiato e deluso, in fondo alla carrozza.
Natura vivamente impressionabile, ma fugacemente, il teatro chiuso, tutta quella toilette inutile, il non poter vedere donna Tecla e la divina Elsa Maria, tutti questi contrattempi presi insieme gli davano un grande senso d’infelicità. Quando scese di carrozza e pagò due lire al cocchiere, delle sette che possedeva, dette una crollata di spalle da uomo disperato: a capo basso salì le scale del Quasimodo. Era deciso, andava a scrivere l’articolo, tanto non vi era nulla di meglio da fare sino alle undici, in cui decentemente si poteva fare una visita a donna Clelia Savelli: voleva scrivere l’articolo per noia, per collera, odiando i caffè, odiando la gente, odiando la propria debolezza, sentendo che non vi era per lui altro scampo, altro rifugio che il lavoro.
Questo bel giovanotto in marsina era pieno di una foga ardente d’indignazione, entrando nell’ufficio del Quasimodo, dove Gregorio sonnacchiava, con la sua faccia grave di filosofo pessimista. Riccardo non si prese neppure la pena di svegliarlo, entrò nella redazione deserta, rialzò il gas, e col soprabito addosso col bavero rialzato, col cappello sul capo, badando bene a non sporcare il candore dei suoi polsini, egli si curvò a scrivere rapidamente.
E come in uno specchio terso, fedele, tutte le impressioni amare e gioconde della giornata si trasfondevano in quella prosa ora secca, arida e tagliente, ora piena di mollezza e di soavità. Lo scrittore che non studiava più, che non leggeva più, che guardava intorno a sè la vita, ma senza vederla, che sognava sempre, per cui la esistenza era una visione fra dolorosa e leggiadra, lo scrittore traeva dalla viva, fervida anima sua la prosa del suo articolo. Dentro vibrava l’ironia dei cuori insoddisfatti, che non vivono abbastanza per la loro sete ardente di vita, vibrava la malinconia delle esistenze affrante dal lavoro e da una grande delusione o dalle piccole quotidiane delusioni, vibrava la gaiezza talvolta brutale dei temperamenti audaci nel desiderio, molli e deboli nell’urto reale dell’esistenza.
In fine, naturalmente, come sempre, le donne apparvero nella prosa di Riccardo Joanna, che parlava di una lunga e strana giornata romana: e subito un incanto nuovo surse in quella prosa, la parola divenne più efficace, più ardente, la frase si fece più rotonda, più carezzevole, piena di allacciamenti strani, lo stile salì alto. Come allucinato, egli scriveva scriveva, traendo dai suoi nervi la potenza e l’impeto, traendo dal fosforo del suo cervello la verità dell’immagine e la bellezza della parola: egli gettava, col magnifico, generoso abbandono giovanile, tutto un cumulo di forza, sentendosi ancora troppo ricco in quell’ora di eccitamento.
“Fai un articolo?” domandò Scano, entrando e cavandosi il cappello, sedendosi quietamente per fare la cronaca.
“Sì, debbo finirlo presto,” mormorò Joanna.
“Io fo la cronaca; essa è il mio male cronico.”
“Che ora è?”
“Le dieci e mezzo, a Piazza Colonna.”
Riccardo Joanna piegò di nuovo il capo, volendo finire subito, volendo partir subito per l’Esquilino, non resistendo all’idea di veder donna Clelia, dai denti che brillavano, dagli occhi grigi scintillanti. Non aveva più voglia di scrivere, ora, e tutta la sua prosa scritta con tanto fuoco, gli sembrava una cosa miserabile e inutile. La donna era stata la sua forza animatrice, un momento prima; ora diveniva la sua mortale, irresistibile debolezza. Bruscamente irritato contro quell’indegno lavoro da galeotto, che ogni giorno doveva fare, se voleva vivere, strozzò l’articolo. Rileggendolo a freddo, un grande disdegno di sè stesso e dell’arte gli empì di amarezza il cuore: anche in quella serata, al pubblico ignorante e scettico e brutale egli aveva aperto il suo cuore, come si apre alla madre, all’amico più caro, alla donna amata, aveva detto a una folla di sciocchi e d’indifferenti le più intime, le più tenere, le più melanconiche cose, aveva violato i più alti misteri spirituali. Una nausea di sè lo assalse, mentre si spazzolava, per andarsene:
“Che mestiere da cani,” mormorava.
“Almeno, essendo molti, fossimo can-tanti, guadagneremmo più quattrini.”
“Addio, Scano.”
“Addio, Joanna; te fortunato, che vai via!”
“Torneremo tutti, domani, non dubitare,” disse il poeta con malinconia.
Di nuovo macchinalmente si mise in carrozza, dando l’indirizzo del villino Savelli all’Esquilino; un novello cruccio sorse in lui, non potette più pensare ai sereni occhi bigi di donna Clelia senza vedere gli occhi freddi e chiari di don Pompeo, il marito, il banchiere: dietro il sorriso delle labbra rosee di donna Clelia, egli vedeva apparire il biglietto rosso della cambiale di mille lire. Aveva preso fra sè la grande decisione di parlare a don Pompeo della cambiale, perchè gliela rinnovasse, giudicando che non potea negargli questo piccolo favore: ma l’idea di doverlo dire là, nel salone di donna Clelia, lo torturava. Fino allora la parte dolorosa e la parte gioconda della sua vita erano state separate: le donne lo avevano consolato del suo sperpero quotidiano di quattrini, delle alternative crudeli di splendore e di miseria, ma ora questi due elementi contrapposti si univano, si confondevano, il suo tormento e il suo conforto erano una cosa sola. Per un minuto il volto gli si fece di brace, egli pensò di dovere le mille lire a donna Clelia e di non potergliele restituire l’indomani. Ma un largo e mite raggio di luna inondava Santa Maria Maggiore, la chiesa e la piazza, e nel giardinetto che circondava il villino Savelli un rumore di musica si effondeva; la palazzina, con le sue lunghe e sottili finestre dalle tendine increspate di seta rossa, tutta illuminata, pareva rossa e ardente. In silenzio il servo tolse il soprabito e la mazzetta a Joanna e lo precedette, senza far rumore, mentre la musica rinforzava. Joanna rimase sulla soglia, tranquillo, aspettando che la musica finisse, per salutare. Sedevano al pianoforte donna Clelia Savelli, la serenità, ed Elsa Maria, l’ideale, quasi trasparente, quasi consumata da un pensiero dominante; sonavano un pezzo di Beethoven, pieno di nobiltà. Tutta scintillante di coralli neri, di riflessi azzurrognoli, nero vestita, ma come corazzata di acciaio, donna Caterina Spinola si raccoglieva in una poltrona presso il pianoforte, ascoltando sapientemente; vestita di rosso, piccola e pungente, donna Tecla Spada teneva a bada due o tre giovanotti, parlando sottovoce, ridacchiando, scotendo il capo, incapace di prestare attenzione alla musica: mentre donna Beatrice di Santaninfa posava magistralmente sdraiata in una lunga seggiola, quieta nell’indifferenza plastica di chi si sente bella in mezzo a queste donne e a questi uomini felici; era la felicità delle cose belle e artistiche, i fiori freschi, le piante verdi, le azalee bianche e rosee, le delicate, futili statuine di Sassonia, i tappeti molli e le seggiole profonde fatte per i sogni.
Così dalle persone e dalle cose, dalla musica e dai sorrisi delle donne, un’onda di letizia venne a Riccardo Joanna. Perduto nell’ombra di una portiera di velluto, egli sentiva il suo spirito liberarsi da tutte le preoccupazioni, purificarsi da ogni miseria. Questo, questo era il suo ambiente, fra l’intenso magistero del lusso, fra la bellezza femminile, diversamente trionfante, fra gli ondeggiamenti della nobile arte musicale. Giammai, come in quella sera, erano giunte a lui impressioni così complesse e complete, così perfette: e Riccardo si concentrava nell’attenzione, godendo di un alto acutissimo piacere spirituale; alla fine, dopo tanto travaglio, dopo così varia fortuna, in quel giorno, il poeta ritrovava realizzato il mondo dei suoi sogni.
“Buona sera,” disse sottovoce a donna Tecla Spada, mentre la musica finiva.
“Eccola qua, signor poeta: così non mi si è potuta rapire all’Apollo questa sera!”
“Per mia fortuna, contessa. Ho troppa paura per fuggire con lei.”
“Paura? Noi possiamo ardere, signore, bruciare non mai.”
“Manca un pompiere nel mio cuore, contessa.”
“Lo chieda alla sua serva. E poi l’Apollo ha il Tevere vicino.”
“Bel letto freddo e molle, per dormire,” disse Riccardo malinconicamente.
“O per morire,” ribattè donna Tecla.
“Come Amleto.”
I gruppi si erano sciolti e formati di nuovo, due altri signori erano arrivati. Donna Clelia Savelli aveva presentato Riccardo Joanna a donna Beatrice di Santaninfa: essa lo aveva accolto con un sorriso di sicurezza. Egli taceva, donna Clelia parlava.
“Figurati, Beatrice, che mentre stavo bibelottando sola sola con questo caro signor Joanna, sai che malinconia è bibelottare in solitudine. A chi dire: quanto è bello? con chi dividere la propria gioia? nel negozio di antichità si sente il bisogno del consorzio umano: io amo il prossimo mio, quando compro uno stipo o un piviale. Così.... ho sequestrato Joanna oggi, per tre ore.”
“I suoi parenti saranno stati inquieti,” mormorò donna Beatrice, dicendo profondamente questa banalità.
“Io non ho parenti, signora.”
“Ma se sapessi, cara, se sapessi!” riprese stordita, leggiera come una capinera, donna Clelia. “Abbiamo visto tante stoffe così belle, dalla Beretta, che vi era da cadere in deliquio. Oh, Joanna è un buon compagno: lei verrà spesso con me, nevvero?”
“Sempre.”
“Dalla mattina alla sera?”
“Sempre.”
“Lasciando tutto e sempre?”
“Tutto e sempre.”
“È medioevale, a me piacciono assai le cose e le persone del medio evo. Ti piacciono, Beatrice, i cofani da nozze?”
“Sono volgari,” fece quella, guardandosi gli anelli della mano destra.
Riccardo era alle spalle di Elsa Maria, rimasta presso il pianoforte, come immobile, sfogliando lentamente certe romanze dalle copertine fantasiose.
“Sonavate Beethoven: lo amate molto?” chiese il poeta, parlando sottovoce.
“Lo amo sebbene sia troppo solenne per me,” rispose la gentile, e la voce era come un soffio.
“Ma chi preferite?”
“Chopin.”
“È naturale,” disse lui, “sapete come è morto?”
“Lo so,” disse lei chinando i soavissimi occhi.
“Non amate voi anche i mughetti, signora.”
“Sì, sopra tutti i fiori.”
“E io li porto per voi.”
“Oh,” fece l’altra soltanto.
“Ditemi tutte le cose che amate, ditemele, voglio saperlo per amarle anche io.”
Ella lo guardò lungamente coi suoi puri occhi cristallini, ma non gli rispose. Per fortuna la voce stridula di donna Tecla Spada copriva l’imbarazzo di quel silenzio. Donna Beatrice di Santaninfa se n’era andata, dea pacifica, taciturna, distribuendo sorrisi, incedendo qual dea; e donna Clelia ora chiacchierava di scultura con un professore dell’Accademia di San Luca. Non si moveva donna Caterina Spinola, ma le sue perline nero—azzurre luccicavano come metallo temprato e brunito.
Riccardo, guardando nel salotto, esaminava l’urna bianca, carica di fiori nevosi; ella ne profittò per dirgli sottovoce:
“Voi dovete odiarmi?”
“Chi vi ha detto nulla, signora?” rispose lui duramente.
Ella tremò e impallidì. Ma in questa don Pompeo Savelli entrò tutto sorridente, alto, magro, un po’ angoloso, un po’ duro. Riccardo provò una fitta così dolorosa che gli tolse il respiro: e pensò subito che non era possibile dirgli nulla; era troppo vergognoso parlare della cambiale a questo gran signore, mentre che lo accoglieva in casa sua. E sebbene la conversazione si allargasse, Riccardo taceva, confuso, turbato, combattuto crudelmente, ora decidendosi a dire tutto, immediatamente, ora sentendosene incapace, debole, avvilito: guardava l’azalea, come assorto.
“Il poeta è innamorato: non parla;” disse ridendo don Pompeo.
“È vero che è innamorato, Joanna? Di me forse?” stridette donna Tecla.
“Obbedisco,” disse lui inchinandosi.
Sì, doveva dirglielo, era necessario, era meglio fare un atto solo di coraggio: don Pompeo era un gentiluomo, certo avrebbe acconsentito. Alla fine che costa una parola? E dopo averla detta si resta liberi per tre mesi: in tre mesi si trovano almeno dieci volte mille lire, si hanno amici, si lavora assai. Sì, sì, valeva meglio dirglielo! Ma don Pompeo era così dimentico, così gran signore, così lontano dagli affari, in quel momento! Ora egli parlava col ministro belga a Roma, forse di cose diplomatiche: non era quello il minuto propizio.
Poi don Pompeo provava a far chiacchierare donna Caterina Spinola, non era cortese interromperlo: Riccardo cercava di restar disinvolto, mentre febbrilmente seguiva con l’occhio ogni movimento di don Pompeo, e dava a sè stesso, a ogni minuto, una nuova dilazione. Donna Tecla partiva accompagnata da un giovane conte napoletano; vi fu un po’ di movimento, don Pompeo andò ad accompagnarla sino al giardino: Riccardo Joanna rimase, mentre si faceva ancora della musica; donna Caterina Spinola, al pianoforte, accennava vagamente a quel poema di lamento che è lo Stabat di Pergolese. Riccardo ascoltava, trasalendo dolorosamente, perchè quella musica rispondeva al suo tormento: ma su quella musica così piena di pianto, donna Clelia, la bella signora frivola e sempre allegra, metteva un risolino breve e chiaro ogni tanto.
“Che bella luna vi è in giardino!” disse don Pompeo rientrando.
Riccardo aspettava ancora, agonizzante: ma il suo sorriso fatuo nulla rivelava del suo cuore. Alla fine, decidendosi, salutò sottovoce donna Clelia: aveva deciso di essere vigliacco, di non parlare a don Pompeo. Ma costui, tutto premuroso, lo accompagnò in anticamera.
“Non posso soffrire la musica triste,” disse ridendo il banchiere; “donna Caterina ha l’aria di una coltre funeraria.”
“Neppur io ho voglia di morire,” rispose Riccardo.
Il banchiere uscì col poeta nel giardino: il plenilunio di aprile lo inondava blandamente.
“Che bella sera!” mormorò don Pompeo.
“Bellissima!” disse lentamente il giovanotto, e ad un tratto, bruscamente, rapidamente:
“Avete un effetto mio, in scadenza domani?”
“Ho visto, sì, credo di mille lire....”
“Sarebbe possibile rinnovarlo?”
E la voce pareva rotta da un lieve brivido.
“Impossibile, mio caro,” disse l’altro con una intonazione di freddezza. “La cambiale non è nostra.”
“Mi.... mi farebbe piacere....”
“È impossibile, ve lo assicuro. Ma per voi è così facile essere in misura! Guadagnate quel che volete, voialtri scrittori! noi poveri uomini d’affari....”
“Buona notte,” mormorò Riccardo con molta dolcezza.
“Buona notte.”
Il giornalista traversò la piazza lentamente: sonava l’una. La sua giornata finiva così.
Mentre discendeva per Via Nazionale deserta, lucidissimamente, come se egli fosse uno spettatore disinteressato, innanzi ad un palcoscenico, dove ferveva il dramma, tutto quello che egli aveva pensato e fatto, tutto quello che gli era accaduto, gli riappariva. Senza amarezza, senz’ironia, freddamente, con una potenza grande di visione, egli si rivide sognatore inerte, indeciso, lasciarsi prendere da un profilo femminile, da una mano sottilmente inguantata, si vide vagabondando da una bottega di dolci a un’esposizione di beneficenza, da un concerto ad una chiesa, da un magazzino d’arte a un fioraio, da un teatro, ad un salone, ozioso, senza volontà, senza coraggio, subendo l’attrazione femminile come un fanciullo, sacrificando ad essa il suo tempo, i suoi pochi quattrini guadagnati stentatamente, trascurando il suo lavoro che era tutta la sua forza. Vide tutta la sua immensa, inguaribile vanità; e ne analizzò tutta la vacuità. Poichè queste donne che come Dalila congiuravano serenamente, inconsciamente, a togliergli la forza, in realtà egli non le amava; nessuna di esse gl’ispirava una di quelle ardenti passioni che tutto devastano: e il sentimento per cui tutto egli sacrificava non aveva nè altezza nè nobiltà, era una certa attrazione dell’istinto, una simpatia, un arrovellamento dell’amor proprio. E il più grave di tutto ciò, il più comico e doloroso, nello stesso tempo, era che nessuna di queste donne lo amava, lo guardavano dolcemente, gli sorridevano, lo conducevano in chiesa, al concerto, nel negozio di antichità, mangiavano i pasticcini con lui, sonavano una mazurka di Chopin, ma non lo amavano, no, nessuna. Per loro come per lui, quella compagnia, quella conversazione, quell’essere, insieme, era una piccola soddisfazione di vanità, l’appagamento di una simpatia a fior di pelle, il diletto spirituale senza peccato, la piccola battaglia delle frasi: e anzi tutto, sopra tutto, quel largo odore d’incenso che il poeta tributava loro nella sua prosa e nei suoi versi. Ma niente altro: e a nessuna di esse veniva in cuore il desiderio di amarlo, di entrar nella sua vita, di portarvi la dolcezza ed il coraggio; e quanto egli poteva soffrire, a quelle donne era indifferente. Alta e rotonda brillava la luna nel cielo: e di questi suoi trionfi, di queste sue conquiste che gli fruttavano tanti nemici, egli sentiva la inanità, la miseria; egli sentiva la grande indifferenza femminile che sa ammantarsi di cortesia, ma che più oltre non sa andare; sentiva la grande frivolezza muliebre, la forma più seducente di un egoismo ponderato e tranquillo; fra lui e tutte quelle donne non un legame di affetto, di tenerezza, di amicizia: solo il vincolo della vanità. Egli si sentiva solo, per sempre solo.
“Joanna?” disse una dolce voce femminile, da una carrozza ferma in Piazza Venezia, alla luna.
“Buona sera, Chérie,” disse lui, alla donna tutta ammantata di bianco.
“Dove andate?”
“In nessun posto.”
“Andiamo al Colosseo, allora, a vedere la luna.”
Chérie taceva, alta e magra nel suo mantello di lana: la carrozza andava verso Via Alessandrina.
“Che avete?”
“Niente, Chérie.”
Egli fumava la sigaretta, ella guardava lontano, in cielo. Non si dicevano nulla. All’Arco di Settimio Severo, ella domandò ancora, con quella voce che era la sua maggior seduzione:
“Che avete?”
“Niente, Chérie.”
Alla porta del Colosseo le dette la mano per discendere, ma non le offrì il braccio per camminare nell’ampio circo bagnato dalla luna. La donna si sedette sopra un sasso; e lui rimase in piedi, fumando. Ella guardava tutto, in un silenzio pieno di pensieri.
“Non mi dite la storia del Colosseo, Joanna; preferisco restare ignorante.”
Egli non rispose; e al lume della luna ella dovette vederlo così tramutato di volto che di nuovo ella disse:
“Ditemi che avete, Joanna; quando si ha qualche cosa, è meglio dirla.”
“Ho una cambiale di mille lire da pagare, domani.”
“E non avete i quattrini?”
“No,” e un singulto ruppe il petto del poeta.
“Non importa, non importa,” mormorò ella carezzevolmente, “le cambiali non pagate sono protestate.”
Nella notte, innanzi a Chérie, nel biancore lunare, il poeta piangeva.