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il quarto d’ora di rabelais. 239

con passo fermo, senza veder la gente che lo guardava, e che parlava di lui.

“Quello è un uomo che finisce male,” disse un capitano dei carabinieri amico de’ giornalisti.

“Ma che male,” disse il corrispondente del Secolo di Milano, “oggi stesso si sono accordati con Depretis: gli daranno quattromila lire al mese. Vedrete L’Uomo che ride risorgerà.”

“E pure è un bel giornale, è un peccato!” disse Centola, il comproprietario d’un giornale del mattino che aveva fatto la guerra, sordamente, con la camorra dei rivenditori, all'Uomo che ride.

Frati era in istato incandescente, pareva una caldaia a vapore. Con un bicchiere di ponce davanti, col bavero alzato, il cappello indietro sul cranio, gli occhi lucenti, le mani in aria, polemizzava violentemente con quattro o cinque giornalisti, corrispondenti, redattori d’altri giornali. Era il leader dell’Uomo che ride. Giulio Frati, l’entusiasta del suo giornale, il credente nella sua polemica, l’appassionato della discussione. Per lui, non c’era altro giornale al mondo fuori del suo; e la sua voce, per solito piana, era salita a una tonalità imperiosa e burrascosa. Egli urlava, e sbalzava dall’uno all’altro argomento perorativo, soffocando gli avversari sotto l’esuberanza della dimostrazione.