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260 il quarto d’ora di rabelais.


“Che dicevate?” domandò Frati a Bagatti, piano.

“Lasciami stare: sono un asino. Ma ti giuro che è tranquillo, che non pensa ad ammazzarsi: ce ne potremo andare a letto presto, sicuri.”

Pure, il tragico presentimento perdurava in tutti. Joanna, guardando in faccia i suoi amici, aveva quel risolino nervoso che pareva rassicurante, ed era invece un’ipocrisia: nascondeva, l’infelice, sotto quel riso, la convulsione de’ suoi nervi, vi sfogava un tremito di tetano che gli s’era messo alle mascelle, e che percorreva tutto il suo corpo, squassandone ogni atomo sensibile, richiamandogli una intensa e dolorosa vibrazione della vita. E un terrore bizzarro, a tratti, lo assaliva: il sospetto che tutti gli leggessero negli occhi il proponimento fatale, incrollabile; che tutti s’avvedessero dello stromento di morte ch’egli si teneva in tasca, e che faceva una rigonfiatura, sul calzone scuro. E leggendo, ogni tanto alzava lo sguardo furtivamente.

Malgagno seguitava a battere con un dito sopra un tasto, a caso, stonatamente; Stresa leggeva un giornale, bevendo a tratti un sorso di kummel, Bagatti e Frati stavano seduti accanto, sopra un canapè, e parlottavano a bassa voce. “Tieni queste cartelle, serbale,” disse