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il quarto d’ora di rabelais. |
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sensibilità, un’espansione fortissima di calore, come se la sua vitalità si andasse di minuto in minuto centuplicando per morir poi tutta quanta d’un tratto. Cominciò a scernere le carte: fra le prime, gli capitò il verbale del suo ultimo duello, col direttore della Pace, per un articolo veemente dell’Uomo che ride. Lo rilesse, lentamente, per richiamarsene tutti i più minuti particolari, per riprovare la sensazione della morte che aveva avuto quella mattina, acutissima, quando i padrini comandarono l’attacco ed egli si lanciò addosso all’avversario, con la spada avanti, e si sentì la punta fredda entrare nella spalla, profondamente. Accese una candela, accese alla fiamma il verbale. A che serviva? Quella era stata la prova della morte: ora veniva la rappresentazione vera della tragedia. Subito, la stanza si empì di fumo: quel mezzo non andava; i romanzieri avevano torto di adoperarlo sempre, nella catastrofe dell’amore. L’amore! Povero amore! Povera e meschina passione che non salva gli uomini dalla rovina, nè dalla morte, e che non li rovina, nè li uccide. Prese un pacco di lettere, le ultime, l’ultima passione. Non le rilesse, non sentì il desiderio di leggerne neppur una: tutto era finito: proprio. Si alzò, s’accostò alla finestra, l’aprì: nel cortiletto buio