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Amore. 145


La sera passò malinconica.

Editta si ritirò presto. Aveva tante cosuccie da fare, tanti piccoli preparativi per la partenza: eppure, giunta nella sua camera, non diede neppure un’occhiata al baule scoperto ed alle vesti piegate giacenti sulle sedie. Aperse la finestra e guardò fuori nella oscurità della notte.

Gli alberi del giardino erano immobili; nessun uccello zittiva sotto i rami; nessun gufo batteva l’ala trepida rasente i tetti. Un solo rumore lontano, monotono, rompeva l’altissimo silenzio.

Editta ascoltò quel rumore.

Aveva caldo. Il venticello che, accarezzandole le guancie, vi lasciava alla superficie una sensazione fresca come di foglia bagnata, non penetrava al di là dell’epidermide; nelle vene il sangue le scorreva bollente e ribelle.

Ascoltava con attenzione angosciosa quel rumore, che ora pareva un canto, ora un lamento, ora una preghiera — ed ella sapeva bene che cosa fosse.

Si spinse con tutto il busto sul davanzale della finestra tendendo le braccia quasi volesse implorare qualcuno ed al suo tacito scongiuro rispose malinconica l’eco della Sonna.