Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/XVI

XVI
TORQUATO TASSO

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XV (bis) XVII


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L’Ariosto, il Machiavelli, l’Aretino sono le tre forme dello spirito italiano a quel tempo: un’immaginazione serena e artistica, che si sente pura immaginazione e beffa sè stessa; un intelletto adulto che dà bando alle illusioni dell’immaginazione e del sentimento, e [p. 145 modifica]t’introduce nel santuario della scienza, nel mondo dell’uomo e della natura; una dissoluzione morale, senza rimorso, perchè senza coscienza, perciò sfacciata e cinica. Intorno all’Ariosto si schierano gl’innumerabili novellieri, romanzieri e comici, pasto avido di popolo colto e ozioso, che vive di castelli incantati, perchè non prende più sul serio la vita reale. Intorno al Machiavelli si stringono tutta una schiera d’illustri statisti e storici, come il Guicciardini, il Giannotti, il Paruta, il Segni, il Nardi, e tutt’i grandi pensatori, che cercano la redenzione nella scienza. Attorno all’Aretino si move tutto il mondo plebeo de’ letterati, istrioni, buffoni, cortigiani, speculatori, e mestieranti. L’Ariosto spinge l’immaginazione fino al punto che provoca l’ironia. Il Machiavelli spinge la sua realtà e la logica a tal segno che produce il raccapriccio. E l’Aretino spinge il suo cinismo a tal grado che produce il disgusto. Queste tre forme dello spirito si riflettono in loro ingrandite e condensate.

Quello era il tempo che i grandi Stati d’Europa prendevano stabile assetto, e fondavano ciascuno la patria di Machiavelli, cioè una totalità politica fortificata e cementata da idee religiose, morali e nazionali. E quello era il tempo, che l’Italia non solo non riusciva a fondare la patria, ma perdeva affatto la sua indipendenza, la sua libertà, il suo primato nella storia del mondo.

Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale, anzi ci era una certa soddisfazione. Dopo tante calamità venivano tempi di pace e di riposo, e il nuovo dominio non parve grave a popoli stanchi di tumulti e di lotte, avvezzi a mutare padroni, e pazienti di servitù, che non toccava le leggi, i costumi, le tradizioni, le superstizioni, e assicurava le vite e le sostanze. Alcun moto di plebe ci fu, come a Napoli per l’inquisizione e per la gabella de’ frutti, cagionato da poca abilità nei governanti, anzi che da elevatezza di sentimenti ne’ [p. 146 modifica]sudditi. Quanto alle classi colte, ritirate da gran tempo nella vita privata, negli ozi letterarii e ne’ piaceri della città e della villa, niente parve loro mutato in Italia, perchè niente era mutato nella lor vita. Contenti anche i letterati, a’ quali non mancava il pane delle corti e l’ozio delle Accademie. Questa Italia spagnuola-papale aveva anche un aspetto più decente. A forza di gridare che il male era nella licenza de’ costumi, massime fra gli ecclesiastici, il Concilio di Trento si diede a curare il male riformando i costumi e la disciplina. Si non caste, tamen caute. Al cinismo successe l’ipocrisia. Il vizio si nascose; si tolse lo scandalo. E non fu più tollerata tutta quella letteratura oscena e satirica; Niccolò Franco, l’allievo e poi il rivale di Pietro Aretino, predicatosi da sè flagello del Flagello de’ principi, finì impiccato per un suo epigramma latino. Il riso del Boccaccio morì sulle labbra di Pietro Aretino. La censura preventiva, stabilita già dal Concilio lateranense, fu applicata con severità; fu costituita la Congregazione dell’Indice. Sorsero nuovi ordini religiosi per la riforma de’ costumi e l’educazione della gioventù, i Teatini, i Comaschi, i Barnabiti, i Padri dell’oratorio, i Gesuiti. Si composero poesie sacre, che si cantavano nelle chiese e nelle processioni. San Filippo Neri introdusse gli oratorii, drammi e commedie sacre. L’istruzione cadde in mano a’ preti e a’ frati. Spirava un odore di santità!

Questa fu la Riforma fatta dal Concilio di Trento, e che il Sarpi chiama difformazione. Il tema prediletto dei poeti italiani e de’ protestanti, erano gli scandali della corte Romana. Roma, la meretrice di Dante, la Babilonia del Petrarca, era stata assalita da’ protestanti nel suo lato più debole, e più efficace sulle grossolane moltitudini, nella sua scostumatezza. Il Concilio spezzò quest’arma antica di guerra in mano agli avversarii, riformando la disciplina e dando in questo ragione al [p. 147 modifica]vecchio Savonarola. Rimosso lo scandalo, il Concilio credea di aver tolta alla Riforma protestante la sua ragion di essere, e stimò possibile una conciliazione. Ma la licenza de’ costumi era il pretesto, e non la cagion vera e intima della Riforma germanica e della incredulità italiana, che era l’intelletto già adulto e libero, che non voleva riconoscere autorità di sorta, e reclamava la libertà di esame. Ora il Concilio non dava a questo alcuna soddisfazione, come sarebbe stato un accostare la gerarchia a forme democratiche e lasciare alcuna larghezza di opinione in certe quistioni, anzi fece proprio l’opposto, rafforzò l’autorità papale a spese de’ Vescovi, atteggiando la gerarchia a monarchia assoluta, e definì tutte le quistioni di domma e di fede, negando la competenza della ragione e della coscienza individuale. Così la scissione divenne definitiva, e l’Europa cristiana fu divisa in due campi: dall’un lato la Riforma, dall’altro il Romanismo e il Papismo. La Riforma avea per bandiera la libertà di coscienza e la competenza della ragione nell’interpretazione della Bibbia e nelle quistioni teologiche; il Romanismo avea per contrario a fondamento l’autorità infallibile della Chiesa, anzi del Papa, e l’ubbidienza passiva, il Credo quia absurdum. Questa lotta tra la fede e la scienza, l’autorità e la libertà, è antica, coeva alle origini stesse della religione, ma si manifestava in quistioni parziali intorno a questo o a quel dogma, e solo allora se ne acquistò coscienza, e la differenza fu elevata a principio. In questa coscienza più chiara sta l’importanza della Riforma e del Concilio di Trento. Innanzi di questo tempo, ci era in Italia una specie di ecletismo, per il quale filosofia e teologia andavano insieme, senza troppo saper come, a quel modo che classicismo e cristianesimo, e le idee più ardite si facevano largo, quando erano accompagnate con la clausola: salva la fede. Era una specie di compromesso [p. 148 modifica]tacito, per il quale il mondo, bene o male, andava innanzi, senza troppi urti. Ora non sono più possibili gli equivoci, le cautele e ipocrisie oratorie: le due parti sanno quello che vogliono, e stanno a fronte nemiche. La Chiesa, anzi il Papa si proclama solo e infallibile interprete della verità, e dichiara eretica non questa o quella proposizione solamente, ma la libertà e la ragione, il dritto di esame e di discussione. Da questa lotta esce il concetto moderno della libertà. Presso gli antichi libertà era partecipazione de’ cittadini al governo, nel qual senso è intesa anche dal Machiavelli. Presso i moderni accanto a questa libertà politica è la libertà intellettuale, o, come fu detto, la libertà di coscienza, cioè a dire la libertà di pensare, di scrivere, di parlare, di riunirsi, di discutere, di avere una opinione, e divulgarla e insegnarla; libertà sostanziale dell’individuo, dritto naturale dell’uomo, e indipendente dallo Stato e dalla Chiesa. Di qui viene questa conseguenza, che interpretare e bandire la verità è dritto naturale dell’uomo, e non privilegio di prete: sicchè proprio della Riforma fu il secolarizzare la religione. Il concetto opposto fondato sull’onnipotenza della Chiesa o dello Stato è il diritto divino, la teocrazia, il cesarismo, assorbimento dell’individuo nell’essere collettivo, come si chiami, o Chiesa, o Stato, o Papa, o Imperatore.

Il Concilio di Trento portava conseguenze non solo religiose, ma politiche. Da esso usciva la consacrazione della monarchia assoluta sulle rovine de’ privilegi feudali e delle franchigie comunali. Papa e Re si diedero la mano. Il Re prestava al Papa il braccio secolare, e il Papa lo consacrava, lo legittimava, gli dava i suoi inquisitori e i suoi confessori. La monarchia fu ordinata a modo della gerarchia ecclesiastica, e fondata sullo stesso principio dell’autorità e della ubbidienza passiva. Trono e altare furono del pari inviolabili, e indiscutibili. [p. 149 modifica]E fu atto di ribellione pensare liberamente di Papa o di Re, anzi venne su il motto: De Deo parum, de Rege nihil. Così la religione divenne uno strumento politico, il dispotismo religioso divenne il sussidio naturale del dispotismo politico.

Ma l’autorità e la fede sono di quelle cose che non si possono imporre. E in Italia era così difficile restaurare la fede, come la moralità. Ciò che si potè conseguire, fu l’ipocrisia, cioè a dire l’osservanza delle forme in disaccordo con la coscienza. Divenne regola di saviezza la dissimulazione e la falsità nel linguaggio, nei costumi, nella vita pubblica e privata: immoralità profonda, che toglieva ogni autorità alla coscienza, ed ogni dignità alla vita. Le classi colte incredule e scettiche si rassegnarono a questa vita in maschera con la stessa facilità che si acconciarono alla servitù e al dominio straniero. Quanto alle plebi, vegetavano, e fu cura e interesse de’ superiori lasciarle in quella beata stupidità.

Non mancarono resistenze individuali. Molti uomini pii e anche ecclesiastici, amarono meglio ardere su’ roghi o esulare, che mentire alla coscienza. Intere famiglie abbandonarono l’Italia, e portarono altrove le loro industrie. Uomini egregi di virtù e di scienza onorarono il paese natio scrivendo, predicando nella Svizzera, nell’Inghilterra, in Germania. Operosissimo fra tutti il Socino, da Siena, da cui presero nome i sociniani. Il suo merito è di avere avuto della Riforma una coscienza assai più chiara, che non Lutero e non Calvino, facendo fede quanto l’intelletto italiano era innanzi in queste speculazioni. Perchè il Socino, uscendo dalle quistioni parziali intorno a questo o a quel pronunziato teologico, sulle quali battagliavano Lutero, Melantone e Calvino, proclama la ragione sola competente, negando ogni elemento soprannaturale, e fa centro dell’universo l’uomo nel suo libero arbitrio, negando l’onniscienza divina e la [p. 150 modifica]predestinazione. Ci si vede subito l’italiano, il concittadino di Machiavelli.

A questi esempii e a questi martirii l’Italia rimaneva indifferente. Quistioni che insanguinavano mezza Europa, non la toccavano. Ed erano quistioni, dalle quali sciolte nell’uno o nell’altro modo, dipendeva l’avvenire della civiltà e la sorte delle nazioni. Rimase romana tutta la gente latina, Spagna, Francia, Italia. Ma in Francia e nella Spagna non fu, se non dopo accanite persecuzioni, che resero indimenticabile il Tribunale della inquisizione e la giornata di san Bartolomeo. In quelle lotte lo spirito nazionale si ritemprò, e si svegliarono gl’intelletti, e il sentimento religioso esaltato dagl’interessi politici e dal fanatismo delle plebi fu fattore di civiltà, accentrò le forze intorno alla monarchia assoluta, costituì fortemente l’unità nazionale e impresse alla vita intellettuale un moto più celere. La Spagna di Carlo V e di Filippo II ebbe il suo Cervantes, il suo Lopez, e il suo Calderon, e la Francia ebbe il suo secolo d’oro, co’ suoi poeti, filosofi e oratori, ebbe Cartesio, Malebranche e Pascal, ebbe Bossuet e Fénelon, Corneille, Racine, e Molière. Le due nazioni uscirono dalla lotta potenti, prospere, e saldamente unificate.

In Italia non ci fu lotta, perchè non ci fu coscienza, voglio dire convinzioni e passioni religiose, morali e politiche. Le altre nazioni entravano pure allora in via; essa giungeva al termine del suo cammino, stanca e scettica. Rimase papale con una coltura tutta pagana ed antipapale. Il suo romanismo non fu effetto di rinnovamento religioso negli spiriti, come tentò di fare frate Savonarola, fu inerzia e passività; mancava la forza e di combatterlo, e di accettarlo. Piacque quella maggiore castigatezza e correzione nelle forme, stucchi della licenza, nè dispiaceva quel nuovo splendore del Papato, e non avendo patria si fabbricavano volentieri una [p. 151 modifica]patria universale o cattolica, col suo centro a Roma. Venne in voga predicare contro gli eretici, e celebrare le vittorie cattoliche sopra i turchi come quella di Lepanto, e più tardi quella di Vienna. Papa e Spagna imperavano, nessuno riluttante. Ma se Filippo II o Luigi XIV potevano dire: Lo Stato son io; Spagna e Papa non potevano dire: L’Italia siamo noi. Mancavano loro quei gagliardi consensi che vengono dal di dentro e formano il vincolo nazionale. Lo spirito italiano ubbidiva inerte e non scontento, ma rimaneva al di fuori, non s’immedesimava in loro. Le idee vecchie non erano credute più con sincerità, e mancavano idee nuove, che formassero la coscienza e rinvigorissero la tempra: indi quel consenso superficiale ed esteriore, quello stato di acquiescenza passiva e di sonnolenza morale. L’intelletto in quella sua virilità non apparteneva a loro, era contro di loro. E se vogliamo trovare i vestigi di una nuova Italia, che si vada lentamente elaborando, dobbiamo cercarli nell’opposizione fatta a Spagna e Papa. La storia di questa opposizione è la storia della vita nuova.

Il primo fenomeno di questa sonnolenza italiana fu il meccanismo, una stagnazione nelle idee, uno studio di fissare e immobilizzare le forme. Si arrestò ogni movimento filosofico e speculativo. Il Concilio di Trento avea poste le colonne d’Ercole, avea pensato esso per tutti. La scienza fu presa in sospetto. Permesso appena il platonizzare. I grandi problemi della destinazione umana, etici, politici, metafisici, furono messi da parte, ed al pensiero non rimase altro campo che lo studio della natura ne’ limiti della Bibbia. Crebbe invece lo studio delle forme.

Fu allora che si formò l’Accademia della Crusca, e fu il Concilio di Trento della nostra lingua. Anch’essa scomunicò scrittori e pose dommi. E ne venne un arruffio concepibile solo in quell’ozio delle menti. [p. 152 modifica]La nostra lingua avea già una forma stabile e sicura in tutta Italia. Il toscano era il fiore della lingua italiana, così dice Speron Speroni. Ci era dunque una lingua italiana, vale a dire un fondo comune di vocaboli con una comune forma grammaticale, atteggiato variamente e colorita secondo le varie parti d’Italia. Allora, come ora, si sentiva nello scrittore l’italiano, e anche il toscano, il lombardo, o il veneziano o il napolitano. Questa varietà di atteggiamento e di colorito, questo elemento locale era la parte viva della lingua che lo scrittore attingeva dall’ambiente in cui era. Se Firenze fosse stata un centro effettivo d’Italia come Parigi, la lingua fiorentina sarebbe rimasta lingua viva di tutti gli scrittori italiani, che ivi avrebbero avuto la loro naturale attrazione. Ma Firenze era allora per gli italiani un museo, da studiarsi ne’ suoi monumenti, voglio dire ne’ suoi scrittori. L’Accademia della Crusca considerò la lingua come il latino, vale a dire come una lingua compiuta e chiusa in sè, di modo che non rimanesse a fare altro, se non l’inventario. Chiamò puri tutt’i vocaboli contenuti nel suo dizionario e usati da questo o da quello scrittore, e scomunicò tutti gli altri. Fece una scelta degli scrittori, e di sua autorità creò gli eletti ed i reprobi. Così la lingua, segretata dall’uso vivente, divenne un cadavere, notomizzato, studiato, riprodotto artificialmente, e gl’italiani si avvezzarono a imparare e scrivere la loro lingua, come si fa il latino o il greco. Il Petrarca e il Boccaccio diventarono modelli così inviolabili, come la Bibbia, e il non si può venne in moda anche per le parole, tanto che mancò pazienza fino al gesuita Bartoli. A mostrare in qual modo studiassero i nostri letterati, cito ad esempio un uomo coltissimo e d’ingegno non ordinario, Speron Speroni. «Io veramente fin da’ primi anni desiderando oltramodo di parlare e di scrivere volgarmente i concetti [p. 153 modifica]del mio intelletto, e questo non tanto per dovere essere inteso, il che è cosa degna da ogni volgare, quanto a fine che il nome mio con qualche laude tra’ famosi si numerasse, ogni altra cura proposta, alla lezion del Petrarca e delle cento novelle con sommo studio mi rivolgei: nella qual lezione con poco frutto non pochi mesi per me medesimo esercitatomi, ultimamente da Dio ispirato ricorsi al nostro messer Trifon Gabriele: dal quale benignamente aiutato vidi e intesi perfettamente quei due autori, li quali, non sapendo che notar mi dovessi, avea trascorso più volte.» Questo è un solo periodo! e che affanno! e domando se vi par lingua viva. Ecco ora in iscena Trifone, uno de’ grammatici e critici più riputati, e chiamato il Socrate di quella età. «Questo nostro buon padre primieramente mi fece noti i vocaboli, poi mi diè regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni di nomi e verbi toscani, finalmente gli articoli, i pronomi, i participii, gli avverbii e le altre parti dell’orazione distintamente mi dichiarò; tanto che accolte in uno le cose imparate, io ne composi una mia grammatica, con la quale scrivendo io mi reggeva. Poichè a me parve di esser fatto un solenne gramatico, io mi diedi a far versi: allora pieno tutto di numeri, di sentenzie e di parole petrarchesche o boccacciane, per certi anni fei cose a’ miei amici meravigliose: poscia parendomi che la mia vena si cominciasse a seccare (perciocchè alcune volte mi mancava i vocaboli, e non avendo che dire in diversi sonetti, uno istesso concetto mi era venuto ritratto), a quello ricorsi che fa il mondo oggidì: e con grandissima diligenzia feci un rimario o vocabolario volgare, nel quale per alfabeto ogni parola che usarono questi due distintamente riposi: oltre di ciò in un altro libro i modi loro del descriver le cose, giorno, notte, ira, pace, odio, amore, paura, speranza, bellezza siffattamente raccolsi, che nè parole, nè concetto [p. 154 modifica]usciva di me, che le novelle e i sonetti loro non ne fossero esempio. Era d’opinione che la nostra arte oratoria e poetica altro non fosse che imitar loro ambidue, prosa e versi a lor modo scrivendo». Adunque la lingua, la testura delle parole, i loro numeri e la loro concinnità, frasi del tempo, si studiavano nel Boccaccio e nel Petrarca, e se ne cavarono grammatiche, dizionarii e repertorii di frasi e di concetti. Così insegnava Trifone Gabriele, detto Socrate, e così praticava Speron Speroni, riuscito con questa scuola a scrivere in quel gergo artificiale e convenzionale, che si è visto. Così la lingua, fatta classica e pura, rimase immobile e cristallizzata come lingua morta, e il suo studio divenne difficilissimo. Si voleva non solo che la parola fosse pura, ma che fosse numerosa ed elegante. Si formò una scienza de’ numeri non pure in verso, ma in prosa. Il periodo divenne un artificio complicatissimo. Eccone un saggio nello Speroni: «Come la composizione delle parole è ordinanza delle voci delle parole, così i numeri sono ordini delle sillabe loro; con li quali dilettando le orecchie, la buona arte oratoria comincia, continua e finisce l’orazione; perciocchè ogni clausola, come ha principio, così ha mezzo e fine; nel principio si va movendo, e ascende; nel mezzo quasi stanca della fatica stando in piè si posa alquanto; poi discende e vola al fine per acquetarsi. La prosa alcuna volta ben compone le parole non belle, e altra volta le belle malamente va componendo; e può occorrere che, siccome nella musica bene e spesso le buone voci discordano, e le non buone o per usanza o per arte sono tra loro concordi; così i pari, i simili, e i contrarii, cose tutte per lor natura ben risonanti, qualche volta con voce aspra e difforme, qualche volta scioccamente e a bocca aperta va esplicando l’orazione. Finalmente molte fiate intravviene, che la prosa perfettamente composta, quasi fiume del proprio corso [p. 155 modifica]appagandosi, non si cura non che di giungere al fine, ma di posarsi per lo cammino, e va sempre, e se il fiato non le mancasse, continuamente tutta sua vita camminerebbe: però a’ numeri ricorriamo li quali attraversando la strada piacevolmente con lusinghe e con vezzi a rinfrescarsi e albergare con loro la invitino, e non volendo la cortesia, vogliono usare le forze e per ben suo, mal suo grado, con violenzia l’arrestino.» Con questi criterii non è maraviglia che a lungo andare si sia giunto a tale, che un predicatore componeva i suoi periodi a suon di musica. E si comprende anche che lo Speroni fabbricasse a questo modo i suoi periodi, e quanta ammirazione dovessero destare i periodi con tanto artificio congegnati del Bembo, del Casa o del Castiglione. La parola ebbe una sua personalità, fu isolata dalla cosa; e ci furono parole pure e impure, belle e brutte, aspre e dolci, nobili e plebee. Nella scelta delle parole stava il segreto della eleganza. Si cercava non la parola propria, ma la parola ornata, o la perifrasi; la ripetizione era peccato mortale, e se la cosa era la stessa dovea cercarsi una diversa parola, tacere i nomi proprii, e ogni cosa delle altrui voci adornare, come lo Speroni nota del Petrarca, il quale chiamò la testa oro fino o tetto d’oro; gli occhi soli, stelle, zaffiri, nido e albergo d’amore; le guance or neve e rose, or latte e foco; rubini i labbri, perle i denti; la gola e il petto ora avorio, ora alabastro. Una lingua viva è sempre propria, perchè la parola ti esce insieme con la cosa; una lingua morta è necessariamente impropria, perchè la trovi ne’ dizionarii e negli scrittori bella e fatta, mutilata di tutti quegli accessorii che il popolo vi aggiungeva, e che determinavano il suo significato e il suo colore. Così la nostra lingua, giunta a un alto grado di perfezione, che pure allora nella Eneide del Caro e nel Tacito del Davanzati mostrava la sua potenza, si arrestò [p. 156 modifica]nel suo sviluppo, a quel modo che la vita italiana, e disputavano come si avesse a chiamare, o toscana, o fiorentina o italiana, quando era già bella e imbalsamata, ben rinchiusa e coperchiata nel Dizionario della Crusca.

Il medesimo era della grammatica. Si cercò il criterio non nella natura e nel significato delle cose, e non nella logica necessità, ma nell’uso variabilissimo degli scrittori. Indi regole arbitrarie e più arbitrarie eccezioni, e quella folla di significati attribuiti a una sola parola, e tante inutilità decorate col nome di ripieno, e sottigliezze infinite su di una lettera o una sillaba. Onde nacque una ortografia in molte parti campata in aria e tentennante, una sintassi complicata e incerta, un guazzabuglio di particelle, pronomi, generi, casi, alterazioni e costruzioni, una grammatica che anche oggi è una delle meno precise e semplici. Avemmo una lingua senza proprietà e una grammatica senza precisione; perchè lingua e grammatica furono considerate non in rispetto alle cose, ma per se stesse come forme vacue e arbitrarie.

L’attenzione era tutta al di fuori, sulla superficie. La letteratura fu un artificio tecnico, un meccanismo. E si cercò il suo fondamento non nelle ragioni intrinseche di ciascuna forma messa in relazione con le cose, ma nell’esempio degli scrittori. Come del periodo, così immaginarono uno schema artificiale e immobile di composizione, la cui base fu posta in una certa concordanza del tutto e delle parti, come in un orologio, e questo chiamavano scrivere classico. Smarrito il sentimento dell’arte e della poesia, non rimase che un concetto prosaico di perfezione meccanica, la regolarità e la correzione. Davano una importanza straordinaria alla lingua, alla grammatica, all’elocuzione, al periodo, alla composizione: e qui erano le colonne di Ercole, qui finiva la critica. Gli scrittori giudicati secondo questi criterii erano più o [p. 157 modifica]meno lodati secondo che più o meno si avvicinano al modello. Si vantavano le commedie e le tragedie di quel tempo per la loro conformità alle regole. E come un effetto bisognava ottenere sugli spettatori, e quella regolarità ammiratissima era pur la più noiosa cosa di questo mondo, cercavano l’effetto ne’ mezzi più grossolani e caricati, a cui sogliono ricorrere gli uomini mediocri. Le commedie erano buffonerie, le tragedie erano orrori, e tra le più insopportabili era appunto la Canace dello Speroni. Una sola cosa mancava all’Italia, il genere eroico, e lo Speroni è tutto sconsolato di non trovarne l’esempio nel Petrarca: «Quasi nuovo alchimista, lungamente mi faticai per trovare l’eroico, il qual nome niuna guisa di rima dal Petrarca tessuta non è degna di appropriarsi.» Il Trissino era mal riuscito. L’Orlando furioso era fuori regola, e gli si perdonava, perchè era romanzo e non poema. Il problema era di trovare l’eroico, come diceva lo Speroni. Ciascun vede, quanto Pietro Aretino entrasse innanzi per ingegno critico a tutti costoro.

Conforme a quei criterii era la pratica. Comenti al Boccaccio e al Petrarca infiniti. Molte traduzioni di classici, tra le quali il Livio del Nardi, la Rettorica e l’Eneide del Caro, le Metamorfosi dell’Anguillara, il Tacito del Davanzati. Grammatiche e Rettoriche tutte ad uno stampo dal Bembo al Buommattei, detto messer Ripieno, anzi sino al Corticelli. Imitazioni, anzi contraffazioni classiche in uno stile artificiato, che tirava a sè anche i più robusti ingegni, anche il Guicciardini. E le accademie che moltiplicavano sotto i nomi più strani, dove, finiti i baccanali, regnavano vuote cicalate e dispute grammaticali. Come contrapposto, non mancavano gli eccentrici, che cercavano fama per via opposta, come il Lando che chiamava imbecille il Boccaccio e [p. 158 modifica]animalaccio Aristotile, e solleticava l’attenzione pubblica co’ suoi Paradossi.

Nella prima metà del secolo la libertà, anzi la licenza dello scrivere gittava in mezzo a quell’aspetto uniforme e pedantesco della letteratura la vivezza, la grazia, la mordacità, la lubricità, la personalità dello scrittore. Dirimpetto al classico ci era l’avventuriere.

Ultimo di questi avventurieri fu Benvenuto Cellini, morto nel 1570. Natura ricchissima, geniale e incolta, compendia in sè l’italiano di quel tempo, non modificato dalla coltura. Ci è in lui del Michelangiolo e dell’Aretino insieme fusi, o piuttosto egli è l’elemento greggio, primitivo, popolano, da cui usciva ugualmente l’Aretino e Michelangiolo.

Artista geniale e coscienzioso, l’Arte è il suo Dio, la sua moralità, la sua legge, il suo dritto. L’artista, secondo lui è superiore alla legge, e gli uomini, come Benvenuto, unici nella loro professione, non hanno ad essere obbligati alle leggi. Cerca la sua ventura di corte in corte, armato di spada e di schioppetto, e si fa ragione con le sue armi e con la lingua non meno mortale, che fora e taglia. Se incontra il suo nemico, gli tira una stoccata, e se lo ammazza suo danno; perchè li colpi non si dànno a patti. Se lo mettono prigione, gli pare uno scandalo, e gli fanno uno scellerato torto. È divoto, come una pinzochera, e superstizioso come un brigante. Crede a’ miracoli, ai diavoli, agl’incantesimi, e, quando ne ha bisogno, si ricorda di Dio e de’ Santi, e cantasalmi e orazioni, e va in pellegrinaggio. Non ha ombra di senso morale, non discernimento del bene e del male, e spesso si vanta di delitti che non ha commessi. Bugiardo, millantatore, audace, sfacciato, pettegolo, dissoluto, soverchiatore, e sotto aria d’indipendenza, servitore di chi lo paga. È contentissimo di sè, e non si tiene al di sotto di nessuno, salvo il [p. 159 modifica]divinissimo Michelangiolo. Potentissimo di forza e di vita interiore, questo cavaliere errante dettò egli medesimo la sua vita, e si ritrasse con tutte queste belle qualità, sicurissimo di alzare a sè un monumento di gloria. Queste qualità vengon fuori con la spontaneità della natura ed il brio della forza in uno stile evidente e deciso, come il suo cesello.

Nella seconda metà del secolo questa vita ricca e licenziosa è compressa e la personalità scompare sotto il compasso dell’Accademia e del Concilio di Trento. Rimangono stizze, passioncelle, denuncie, calunnie, furori grammaticali, la parte più grossolana e pedantesca di quella vita. In quel tempo l’Inghilterra avea il suo Shakespeare; Rabelais e Montaigne, pieni di reminiscenze italiane, preludevano al gran secolo; Cervantes scrivea il suo Don Chisciotte, e Camoens le sue Lusiadi. E i nostri critici scrivevano gli Avvertimenti grammaticali e i Dialoghi sull’Amore platonico, sulla Rettorica, sulla Storia, sulla Vita attiva e contemplativa, e cercavano e non trovavano il genere eroico.

Tra queste preoccupazioni e miserie venne in luce la Gerusalemme Liberata.

L’Italia avea il suo poema eroico, non so che simile all’Iliade e all’Eneide, e i critici dovevano essere soddisfatti. Il giovane Pellegrini annunziò la buona novella a suon di tromba, con l’entusiasmo dell’età.

La Gerusalemme intoppava in un mondo non più poetico, ma critico. Il sentimento dell’arte era esausto, l’ispirazione e la spontaneità nel comporre e nel giudicare era guasta da ragionamenti fondati sopra concetti critici, generalmente ammessi e tenuti come vangelo. L’Ariosto si pose a scrivere come gli era dettato dentro, e non guardava altro. Il suo argomento divenne innanzi al suo genio un vero mondo, con la sua propria maniera di essere e con le sue regole. Il Tasso, come Dante, era [p. 160 modifica]già critico prima di esser poeta, aveva già innanzi a sè tutta una scuola poetica. Ciò che sta avanti a lui non è il suo argomento, ma certi fini, certe preoccupazioni, certi modelli, e Orazio e Aristotile, e Omero e Virgilio. A diciotto anni è già una maraviglia di dotto, e conosce Platone e Aristotile, e sviluppa a maraviglia tesi di filosofia, di rettorica e di etica. Scrive il Rinaldo, e, come aveva imparato il simplex et unum, studia all’unità dell’azione e alla semplicità della composizione e ne chiede scusa al pubblico. Ma il pubblico, avvezzo alle larghe e magnifiche proporzioni dell’Orlando e dell’ Amadigi, trova il pasto un po’ magro e ne torce la bocca. Lasciò allora da parte il poema cavalleresco, o, come dicevano, il romanzo, e pensò di dare all’Italia quel poema eroico, che tutti cercavano. Esitò sulla scelta dell’argomento, avea pronti quattro o cinque temi, e rimise l’elezione, dicesi, al Duca Alfonso, suo mecenate. In somma cominciò la Gerusalemme. Volle fare un poema regolare, come dicevano, secondo le regole. L’argomento rispondeva a’ tempi pel suo carattere religioso e cosmopolitico, e vi poteva senza sforzo introdurre un eroe estense, e come l’Ariosto, far la sua corte al Duca. Si diè una cura infinita delle proporzioni e delle distanze per conservare l’unità e la semplicità della composizione. Guardò al verisimile, per dare al suo mondo un aspetto di naturale e di credibile. Introdusse un’azione seria, intorno a cui tutto convergesse, e fece del pio Goffredo un protagonista effettivo, un vero capo e re a uso moderno. Soppresse i cavalieri erranti, e cavò l’intreccio non dallo spirito di avventura, ma dall’azione celeste e infernale, come in Omero. Umanizzò il soprannaturale, rendendolo spiegabile e quasi allegorico, e come una semplice esteriorità degl’istinti e delle passioni. Nobilitò i caratteri, sopprimendo il volgare, il grottesco e il comico, e sonò la tromba dal primo all’ultimo verso. [p. 161 modifica]Tolse molta parte al caso e alla forza brutale, e molta ne diè all’ingegno, alla forza morale, alle scienze, come nei suoi duelli e battaglie. Mirò a dare al suo racconto un’apparenza di storia e di realtà. Si consigliava spesso con i critici, e dava loro a leggere il poema canto per canto, e mutava e correggeva, docilissimo. Tra questi critici consultati era Speron Speroni.

Il Tasso voleva fare un poema seriamente eroico, animato da spirito religioso, possibilmente storico e prossimo al vero o verisimile, di un maraviglioso naturalmente spiegabile, e di un congegno così coerente e semplice, che fosse vicino ad una logica perfezione. Questo era il suo ideale classico, che cercò di realizzare, e che spiegò ne’ suoi scritti sul poema eroico e sulla poesia, ne’ quali mostrò che ne sapeva più de’ suoi avversarii.

Il poema fu accolto con quello spirito che fu composto. Letto prima a bocconi, quando uscì tutto intero, scorretto e senza saputa dell’autore, si destò un vespaio. I critici lo combatterono con le sue armi. Se volevate fare un poema religioso, diceva l’Antoniano, dovevate darci un poema che potesse andar nelle mani anche delle monache. Gli uomini pii, che allora davano il tuono, mostravano scandalo di quegli amori rappresentati con tanta voluttà, malgrado che il povero Tasso ne chiedesse perdono alla Musa coronata di stelle fra’ beati cori. E per farli tacere, costruì una allegoria postuma e particolareggiata, che fosse di passaporto a quei diletti profani. Come arte, il poema fu esaminato nella composizione, nella elocuzione, nella lingua e fino nella grammatica, che era la materia critica di quel tempo. Trovavano la composizione difettosa, soprattutto per l’episodio di Olinto e Sofronia, lasciati lì e dimenticati nel rimanente dell’azione. Parea loro che la vera e seria azione comprendesse pochi canti, e il resto fosse un tessuto di episodii e avventure legate non necessariamente con quella. [p. 162 modifica]L’elocuzione giudicavano artificiata e pretensiosa, la lingua impura e impropria, e non abbastanza osservata la grammatica. Facevano continui confronti con l’Eneide e con l’Iliade, e disputavano sottilmente e futilmente sul genere eroico e sulle sue regole. Corsero confronti stranissimi tra l’Orlando e la Gerusalemme, e chi facea primo l’Ariosto e chi il Tasso. La contesa occupò per qualche tempo l’oziosa Italia, e oscurò ancora più il senso poetico, e non fe’ dare un passo alla critica. Si rimase come in un pantano. Fra tanti opuscoli merita attenzione quello di un giovane, chiamato a grandi destini, Galileo Galilei, che ne scrisse con un gran buon senso, con molto gusto e con un retto sentimento dell’arte.

L’accademia della Crusca ebbe molta parte in questa contesa. E si comprende. Mancava alla lingua del Tasso il sapore toscano, quel non so che schietto e natio con una vivezza e una grazia che è un amore. Ma il Salviati rese pedantesca l’accusa, facendo il pedagogo e notando i punti e le virgole. L’esagerazione dell’accusa suscitò l’entusiasmo della difesa, e il libro fu più noto e desiderato. Oggi, in tanto silenzio e indifferenza pubblica, un autore si terrebbe fortunato di svegliare tanta attenzione. Ma il Tasso ne venne malato del dispiacere, e, quasi fossero assalti personali, trattò i suoi critici come nemici. In verità, il principal suo nemico era lui stesso. Si difendeva, ma con cattiva coscienza, perchè, professando i medesimi principii critici, sentiva in fondo di aver torto. E venne nell’infelice idea di rifare il suo poema, e dare soddisfazione alla critica. Così uscì la Gerusalemme conquistata. Purgò la lingua, ubbidì alla grammatica. Le armi cessarono di essere pietose e non divennero pie; il Capitano divenne il cavalier sovrano; il gran sepolcro sparve del tutto e il sublime io ti perdon fu trasformato nel prosaico perdon io. Le correzioni sono quasi tutte infelici, di seconda mano, fatte a freddo. Non [p. 163 modifica]ci è più il poeta, ci è il grammatico e il linguista, coi suoi terribili critici dirimpetto. Corresse anche l’elocuzione, rifiutò i lenocinii, cercò una forma più grave e solenne, che ti riesce fredda e insipida. Peggior guasto nella composizione. Soppresse Olindo e Sofronia, e vi sostituì una fastidiosa rassegna militare. Cacciò via Rinaldo come reminiscenza cavalleresca, e vi ficcò un Riccardo, nome storico delle Crociate, divenuto un Achille, a cui diè un Patroclo in Ruperto. Trasformò Argante in Ettore, figliuolo del re, di Aladino divenuto Ducalto. Fe’ di Solimano un Mezenzio, e lo regalò di un figliuolo per imitare in sulla fine la leggenda virgiliana. Troncò le storie finali di Armida e di Erminia mutata in Nicea. Anticipò la venuta degli egizii, e moltiplicò le azioni militari per occupare il posto lasciato vuoto dagli episodii abbreviati o soppressi. E gli parve così di aver rafforzata l’unità e la semplicità dell’azione, resa più coerente e logica la composizione, e dato al poema un colorito più storico e reale. Ma non parve al pubblico, che non potè risolversi a dimenticare Armida, Rinaldo, Erminia, Sofronia, le sue più care creazioni e più popolari. E dimenticò piuttosto la Gerusalemme conquistata, che oggi nessuno più legge.

La poetica del Tasso è nelle sue basi essenziali conforme a quella di Dante. Lo scopo della poesia è per lui il vero condito in molli versi, come era per Dante il vero sotto favoloso e ornato parlare ascoso. Il concetto religioso è anche il medesimo, la lotta della passione con la ragione. Passione e ragione sono in Dante inferno e paradiso, e nel Tasso Dio e Lucifero, e i loro istrumenti in terra Armida e la celeste guida di Ubaldo e Carlo. L’intreccio è tutto fondato su questo antagonismo, divenuto il luogo comune de’ poeti italiani. L’Armida del Tasso è l’Angelica del Boiardo e dell’Ariosto, salvo che il Boiardo affoga il concetto nella immensità [p. 164 modifica]della sua tela, e l’Ariosto se ne ride saporitamente, dove il Tasso ne fa il centro del suo racconto. Questo, che i critici chiamavano un episodio, era il concetto sostanziale del poema. Omero canta l’ira di Achille, cioè canta non la ragione, ma la passione, nella quale si manifesta la vita energicamente. Le sue divinità sono esseri appassionati, Giove stesso non è la ragione, ma la necessità delle cose, il Fato. Virgilio s’accosta al concetto cristiano, togliendo il pio Enea agli abbracciamenti di Didone. Pure poeticamente ciò che desta il maggiore interesse non è il pio Enea, ma l’abbandonata Didone. Nella leggenda cristiana il paradiso perduto e il peccato di Adamo sono argomenti epici, ne’ quali erompe la vita nella violenza de’ suoi istinti e delle sue forze. Nella passione e morte di Cristo l’interesse poetico giunge al suo più alto effetto tragico, perchè è il martirio della verità. In Dante questo concetto preso nella sua logica perfezione produce l’astrazione del Paradiso e l’intrusione dell’allegoria, come nel Tasso produce l’astrazione del Goffredo. Si confondeva il vero poetico che è nella rappresentazione della vita, col vero teologico o filosofico, che è un’astrazione mentale o intellettuale della vita. L’Ariosto se la cava benissimo, perchè canta la follia di Orlando; e quando viene la volta della Ragione, volge il fatto a una soluzione comica e piccante, mandando Astolfo a pescarla nel regno della Luna. Il Tasso vuol restaurare il concetto nella sua serietà, e mirando a quella perfezione mentale, gli esce l’infelice costruzione del Goffredo e la fredda allegoria della donna celeste.

Non è meno errato il suo concetto della vita epica. Ciò che lo preoccupa, è la verità storica, il verisimile o il nesso logico, e una certa dignità uguale e sostenuta. E non vede che questo è l’esterno tessuto della vita, o il meccanismo, il semplice materiale con appena la sua ossatura e il suo ordine logico. Il suo occhio [p. 165 modifica]critico non va al di là, e quando il poeta morì e sopravvisse il critico, esagerando questi concetti astratti e superficiali, guastò miserabilmente il suo lavoro, e ci diè nella Gerusalemme conquistata di quella ricca vita il solo scheletro, il quale perchè meglio congegnato e meccanizzato gli parve cosa più perfetta.

Ma il Tasso, come Dante, era poeta, ed aveva una vera ispirazione. E la spontaneità del poeta supplì in gran parte agli artificii del critico.

Torquato Tasso, educato in Napoli da’ gesuiti, vivuto nella sua prima gioventù a Roma, dove spiravano già le aure del Concilio di Trento, era un sincero credente, ed era insieme fantastico, cavalleresco, sentimentale, penetrato ed imbevuto di tutti gli elementi della coltura italiana. Pugnavano in lui due uomini: il pagano e il cattolico, l’Ariosto e il Concilio di Trento. Mortagli la madre che era ancora giovanetto, lontano il padre, insidiato da’ parenti, confiscato i beni, tra’ più acuti bisogni della vita, non dimentica mai di essere un gentiluomo. Serve in corte e si sente libero; vive tra’ vizii e le bassezze, e rimane onesto; domanda pietà con la testa alta e con aria d’uomo superiore e in nome de’ principii più elevati della dignità umana.

Ha una certa somiglianza col Petrarca. Tutti e due furono i poeti della transizione, gl’illustri malati, che sentivano nel loro petto lo strazio di due mondi, che non poterono conciliare. La Musa della transizione è la malinconia. Ma la malinconia del Petrarca era superficiale; rimaneva nella immaginazione, non penetrò nella vita. Era una malinconia non priva di dolcezza, che si effondeva e si calmava negli studii, e lo tenne contemplativo e tranquillo fino alla più tarda età. La malinconia del Tasso è più profonda, lo strazio non è solo nella sua immaginazione, ma nel suo cuore, e penetra in tutta la vita. Sensitivo, impressionabile, tenero, [p. 166 modifica]lacrimoso. Prende sul serio tutte le sue idee, religiose, filosofiche, morali, poetiche, e vi conforma il suo essere. Entusiasta sino all’allucinazione, perde la misura del reale, e spazia nel mondo della sua intelligenza, dove lo tiene alto sull’umanità l’elevatezza e l’onestà dell’animo. Gli manca quel fiuto degli uomini e quel senso pratico della vita, che abbonda ai mediocri. La sua immaginazione è in continuo travaglio, e gli colora e trasforma la vita non solo come poeta, ma come uomo. Immaginatevelo nell’Italia del cinquecento e in una di quelle corti, e presentirete la tragedia. All’abbandono, alla confidenza, all’espansione della prima giovinezza succede tutto il corteggio del disinganno, la diffidenza, il concentramento, la malinconia, l’umor nero e l’allucinazione: stato fluttuante tra la sanità e la pazzia, e che potè far credere, non che ad altri, ma a lui stesso di non avere intero il senno. In luogo di medici e di medicine gli era bisogno un ritiro tranquillo, co’ suoi libri, e vicina una madre, o una sorella, o amici resi intelligenti dall’affetto. Invece ebbe il carcere e la sterile compassione degli uomini, lui supplicante invano a tutt’i Principi d’Italia. Libero, trovò una sorella ed un amico, che se valsero a raddolcire, non poterono sanare un’immaginazione da tanto tempo disordinata. E quando ebbe un primo riso della fortuna, il giorno della sua incoronazione fu il giorno della sua morte.

Guardate in viso il Petrarca e il Tasso. Tutti e due hanno la faccia assorta e distratta: gli occhi gittati nello spazio e senza sguardo, perchè mirano al di dentro. Ma il Petrarca ha la faccia idillica e riposata di uomo che ha già pensato ed è soddisfatto del suo pensiero; il Tasso ha la faccia elegiaca e torbida di uomo che cerca e non trova. E nell’uno e nell’altro non vedi i lineamenti accentuati ed energici della faccia dantesca.

Manca al Tasso, come al Petrarca, la forza con la [p. 167 modifica]sua calma olimpica e con la sua risoluta volontà. È un carattere lirico, non è un carattere eroico. E come il Petrarca, è natura subbiettiva, che crea di sè stesso il suo universo.

Se fosse nato nel medio evo sarebbe stato un santo. Nato fra quello scetticismo ipocrita e quella coltura contraddittoria, vive tra scrupoli e dubbii, e non sa diffinire egli medesimo, se gli è un eretico o un cattolico, più crudele e inquisitore di sè, che il Tribunale dell’inquisizione. Cominciò molto vicino all’Ariosto col suo Rinaldo. E gli parve che non se ne fosse discostato abbastanza con la sua Gerusalemme Liberata. Scrupoli critici e religiosi lo condussero alla Gerusalemme conquistata, ch’egli chiamava la vera Gerusalemme, la Gerusalemme celeste. E non parsogli ancora abbastanza, scrisse le sette giornate della creazione.

Se in Italia ci fosse stato un serio movimento e rinnovamento religioso, la Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo nuovo mondo, animato da quello stesso spirito che senti nella Messiade o nel Paradiso perduto. Ma il movimento era superficiale e formale, prodotto da interessi e sentimenti politici più che da sincere convinzioni. E tale si rivela nella Gerusalemme liberata.

Il Tasso non era un pensatore originale, nè gittò mai uno sguardo libero su’ formidabili problemi della vita. Fu un dotto e un erudito, come pochi ce n’erano allora, non un pensatore. Il suo mondo religioso ha de’ lineamenti fissi e già trovati, non prodotti dal suo cervello. La sua critica e la sua filosofia è cosa imparata, ben capita, ben esposta, discorsa con argomenti e forme proprie, ma non è cosa scrutata nelle sue fonti e nelle sue basi, dove logori una parte del suo cervello. Ignora Copernico, e sembra estraneo a tutto quel gran movimento d’idee che allora rinnovava la faccia di Europa, e allettava in pericolose meditazioni i più nobili intelletti d’Ita[p. 168 modifica]lia. Innanzi al suo spirito ci stanno certe colonne d’Ercole che gli vietono andare innanzi, e quando involontariamente spinge oltre lo sguardo, rimane atterrito e si confessa al padre inquisitore, come avesse gustato del frutto proibito. La sua religione è un fatto esteriore al suo spirito, un complesso di dottrine da credere e non da esaminare, e un complesso di forme da osservare. Nel suo spirito ci è una coltura letteraria e filosofica indipendente da ogni influenza religiosa, Aristotele e Platone, Omero e Virgilio, il Petrarca e l’Ariosto, e più tardi anche Dante. Nel suo carattere ci è una lealtà e alterezza di gentiluomo, che ricorda tipi cavallereschi anzi che evangelici. Nella sua vita ci è una poesia martire della realtà, vita ideale nell’amore, nella religione, nella scienza, nella condotta, riuscita a un lungo martirio coronato da morte precoce. Fu una delle più nobili incarnazioni dello spirito italiano, materia alta di poesia, che attende chi la sciolga dal marmo, dove Goëthe l’ha incastrata, e rifaccia uomo la statua.

Che cosa è dunque la religione nella Gerusalemme? È una religione alla italiana, dommatica, storica e formale: ci è la lettera, non ci è lo spirito. I suoi cristiani credono, si confessano, pregano, fanno processioni: questa è la vernice; quale è il fondo? È un mondo cavalleresco, fantastico, romanzesco e voluttuoso, che sente la messa e si fa la croce. La religione è l’accessorio di questa vita, non ne è lo spirito, come in Milton o in Klopstok. La vita è nella sua base, quale si era andata formando dai Boccaccio in qua, col suo ideale tra il fantastico e l’idillico, aggiuntavi ora un’apparenza di serietà, di realtà e di religione.

Il tipo dell’eroe cristiano è Goffredo, carattere astratto, rigido, esterno e tutto di un pezzo. Ciò che è in lui di più intimo, è il suo sogno, che è pure imitazione pagana, reminiscenza del sogno di Scipione. Il concetto [p. 169 modifica]religioso è manifestato in Armida, la concupiscenza, o il senso, e in Ubaldo, voce della donna celeste o della ragione. Ma la ragione parla, e il senso morde, come dice il Petrarca, e l’interesse poetico è tutto intorno ad Armida. La ragione usa una rettorica più pagana che cristiana, e mostra aver pratica più con Seneca e con Virgilio che con la Bibbia; il fonte della sua morale non è il Paradiso, ma la gloria. La ragione parla, e Armida opera, circondata di artificii e di allettamenti. E l’autore qui si trova nel campo suo, e s’immerge in fantasie ariostesche, profane, idilliche, che crede trasformate in poesia religiosa, perchè in ultimo vi appicca la verga aurea immortale di Ubaldo, e la sua rettorica. Rinaldo, il convertito, non ha una chiara personalità, perchè quello che è e quello che diviene non si sviluppa nella sua coscienza, e non par quasi opera sua, ma influsso di potenze malefiche e benefiche, le quali se lo contendono. Il dramma è tutto esterno, e rimane d’assai inferiore alla confessione di Dante, penetrata da spirito religioso. Quanto al rimanente, Rinaldo è una reminiscenza del Rinaldo o Orlando ariostesco in proporzioni ridotte, come Argante è una reminiscenza di Rodomonte, con faccia più seria. Più tardi Rinaldo trasformato in Riccardo divenne una Reminiscenza di Achille, Sveno mutato in Ruperto fu reminiscenza di Patroclo, e Solimano divenne Mezenzio, e Argante Ettore. Reminiscenze cavalleresche, reminiscenze classiche, più vivaci e fresche le prime, come più vicine e ancora sonanti nello spirito italiano.

Il Tasso sentiva confusamente che il poema non gli era venuto così conforme al suo tipo religioso, com’egli aveva in mente. E nella Gerusalemme conquistata cercò supplirvi. Ma cosa fece? Accentuò qualche allegoria, diluì il sogno di Goffredo, appiccò al bel viaggio al di là dell’Oceano, sola ispirazione moderna e degna di [p. 170 modifica]Camoens, un viaggio sotterraneo assai stentato di concetto e di forma, e vi aggiunse una storia anteriore delle Crociate dipinta nella tenda di Goffredo. Rese il poema più pesante, ma non più religioso, perchè la religione non è nel dogma, non nella storia e non nelle forme, ma nello spirito. E lo spirito religioso, come qualunque fenomeno della vita interiore, non è cosa che si possa mettere per forza di volontà.

Volea fare anche un poema serio. Ma la sua serietà è negativa e meccanica, perchè da una parte consiste nel risecare dalla vita ariostesca ogni elemento plebeo e comico, e dall’altra in un ordito più logico e più semplice, secondo il modello classico. E sente pure di non esservi riuscito, e nella Gerusalemme rifatta usa colori ancora più oscuri, e cerca un meccanismo più perfetto. Gitta tutt’i personaggi nello stesso stampo, e per far seria la vita la fa monotona e povera. Cerca una serietà della vita in tempi di transizione, oscillanti fra tendenze contraddittorie, senza scopo e senza dignità. Cerca l’eroico, quando mancavano le due prime condizioni di ogni vera grandezza, la semplicità e la spontaneità. La sua serietà è come la sua religione, superficiale e letteraria.

E voleva soprattutto dare al suo poema un aspetto di credibilità e di realtà. Sceglie i suoi elementi dalla storia; cerca esattezza di nomi e di luoghi; guarda ad una connessione verosimile d’intreccio; e, come uno scultore, ingrandisce i suoi personaggi con tale uguaglianza di proporzioni che sembrano tolti dal vero. Chiude in limiti ragionevoli i miracoli della forza fisica; nè la forza e il coraggio sono i soli fattori del suo mondo, ma anche l’esperienza, la saggezza, l’abilità e la destrezza. Rifacendo la Gerusalemme, accentuò ancora questa sua intenzione, cercando maggiore esattezza storica e geografica. Nelle sue tendenze critiche e artistiche si vede [p. 171 modifica]già un’anticipazione di quella scuola storica e realista che si sviluppò più tardi. Ma sono tendenze intellettuali, cioè puramente critiche in contraddizione con lo stato ancora fantastico dello spirito italiano e con la sua natura romanzesca e subbiettiva. Gli manca la forza di trasferirsi fuori di sè, non ha il divino obblio dell’Ariosto, non attinge la storia nel suo spirito e nella sua vita interiore, attinge appena il suo aspetto materiale e superficiale. Ciò che vive al di sotto, è lui stesso; cerca l’epico, e trova il lirico, cerca il vero o il reale, e genera il fantastico, cerca la storia, e s’incontra con la sua anima.

La Gerusalemme conquistata di aspetto più regolare e di un meccanismo più severo è un ultimo sforzo per effettuare un mondo poetico, dal quale egli sentiva esser rimasto molto lontano nella prima Gerusalemme. La base di questo mondo dovea essere la serietà di una vita presa dal vero, colta nella sua realtà storica e animata da spirito religioso. Rimase in lui un mondo puramente intenzionale, un presentimento di una nuova poesia, uno scheletro che rimpolpato e colorito e animato da vita interiore si chiamerà un giorno I Promessi Sposi.

Come in Dante, così nel Tasso questo mondo intenzionale penetrato in un fondo estraneo vi rimane appiccaticcio. Ci è qui come nel Petrarca un mondo non riconciliato di elementi vecchi e nuovi, gli uni che si trasformano, gli altri ancora in formazione. Il di fuori è assai ben congegnato e concorde; ma è una concordia meccanica e intellettuale, condotta a perfezione nella seconda Gerusalemme. Sotto a quel meccanismo senti il disorganismo, un principio di vita molto attivo nelle parti, che non giunge a formare una totalità armonica. Il fenomeno è stato avvertito dai critici, ai quali è parso che l’interesse sia maggiore negli episodii che nell’insieme, e questi episodii, Olinto e Sofronia, Rinaldo e Armida, [p. 172 modifica]Clorinda ed Erminia sono i soli rimasti vivi nel popolo, giudice inappellabile di poesia. Ma ciò che si chiama episodio, è al contrario il fondo stesso del racconto, la sua sostanza poetica; perchè il poema sotto una vernice religiosa e storica, è nella sua essenza un mondo romanzesco e fantastico, conforme alla natura dello scrittore e del tempo.

Il fantastico è per lungo tempo la condizione di un popolo, che non ha l’intelligenza e la pratica della vita terrestre e non la prende sul serio. La vita di quelle plebi superstiziose e di quelle borghesie oziose e gaudenti era il romanzo, il maraviglioso delle avventure prodotte da combinazioni straordinarie di casi o da forze soprannaturali. Il Tasso stesso era di un carattere romanzesco, insciente e aborrente delle necessità della vita pratica. Il suo viaggio per gli Abruzzi in veste da contadino, e il suo presentarsi alla sorella non conosciuto, e la scena tenera che ne fu effetto è tutto un romanzo. Aggiungi le impressioni letterarie che gli venivano dalla lettura dell’Ariosto e dell’Amadigi, e la gran voga dei romanzi e il favore del pubblico, e ci spiegheremo come la prima cosa che uscì dal suo cervello fu il Rinaldo, e come questo mondo romanzesco si conserva invitto attraverso le sue velleità religiose, storiche e classiche.

L’intreccio fondamentale del poema è un romanzo fantastico a modo ariostesco, un’Angelica che fa perdere il senno a Orlando, e un Astolfo che fa un viaggio fantastico per ricuperarglielo. Hai Armida che innamora Rinaldo, e Ubaldo che attraversa l’Oceano per guarirlo con lo specchio della ragione. Angelica e Armida sono maghe tutt’e due, e istrumenti di potenze infernali, ma sono donne innanzi tutto, e la loro più pericolosa magia sono i vezzi e le lusinghe. Come Angelica, così Armida si tira appresso i guerrieri cristiani e li tien lontani dal [p. 173 modifica]campo; nè vi manca l’altro mezzo ariostesco, la discordia, che produce la morte di Gernando, l’esilio volontario di Rinaldo e la cattività di Argillano. Da queste cause, le quali non sono altro che le passioni sciolte da ogni freno di ragione e svegliate da vane apparenze, escono le infinite avventure dell’Ariosto e le poche del Tasso annodate intorno alla principale, Armida e Rinaldo. La selva incantata, che ricorda la selva dantesca, è la selva degli errori e delle passioni, o delle vane apparenze, nè i cristiani possono entrare in Gerusalemme, se non disfacciano quegl’incanti, cioè a dire se non si purghino delle passioni. Questo è il concetto allegorico di Dante, divenuto tradizionale nella nostra poesia, smarrito alquanto nel pelago di avventure del Boiardo e dell’Ariosto, e ripescato dal Tasso con un’apparenza di serietà, che non giunge a cancellare l’impronta ariostesca, cioè quel carattere romanzesco, che gli avevano dato il Boiardo e l’Ariosto. Intorno a questo centro fantastico moltiplicano duelli e battaglie, materia tanto più popolare, quanto meno in un popolo è sviluppato un serio senso militare. Il popolo italiano era il meno battagliero di Europa, e si pasceva di battaglie immaginarie. Vanamente cerchiamo in questo mondo fantastico un senso storico e reale, ancorachè il poeta vi si adoperi. Mancano i sentimenti più cari della vita. Non ci è la donna, non la famiglia, non l’amico, non la patria, non il raccoglimento religioso; nessuna immagine di una vita seria e semplice. Gildippe e Odoardo riesce una freddura. La pietà di Goffredo e la saviezza di Raimondo sono epiteti. L’amicizia di Sveno e Rinaldo è nelle parole. Unica corda è l’amore, e spesso riesce artificiato e rettorico, com’è ne’ lamenti di Tancredi e di Armida, ed anche in Erminia con quelle sue battaglie tra l’onore e l’amore. Nessuna cosa vale tanto a mostrare il fondo frivolo e scarso della vita italiana, quanto questi sforzi [p. 174 modifica]impotenti del Tasso a raggiungere una serietà alla quale pur mirava. Volere o non volere, rimane ariostesco, e di gran lunga inferiore a quell’esempio. Gli manca la naturalezza, la semplicità, la vena, la facilità e il brio dell’Ariosto, tutte le grandi qualità della forza. Quella vita romanzesca, così ricca di situazioni e di gradazioni, così piena di movimenti e di armonie, con una obbiettività e una chiarezza che sforza il tuo buon senso e ti tira seco come sotto l’influsso di una malia se ne è ita per sempre.

Su quel fondo romanzesco il Tasso edifica un nuovo mondo poetico, e qui è la sua creazione, qui sviluppa le sue grandi qualità. È un mondo lirico, subiettivo e musicale, riflesso della sua anima petrarchesca, e, per dirlo in una parola, è un mondo sentimentale.

È un sentimento idillico ed elegiaco che trova nella natura e nell’uomo le note più soavi e più delicate. Già questo sentimento si era sviluppato al primo apparire del risorgimento nel Poliziano e nel Pontano, deviato e sperduto fra tanto incalzare di novelle, di commedie e di romanzi. L’idillio era il riposo di una società stanca, la quale, mancata ogni serietà di vita pubblica e privata, si rifuggiva ne’ campi, come l’uomo stanco cercava pace nei conventi. Sopravvennero le agitazioni e i disordini dell’invasione straniera; e quando fine della lotta fu un’Italia papale e spagnuola, perduta ogni libertà di pensiero e di azione, e mancato ogni alto scopo della vita, l’idillio ricomparve con più forza, e divenne l’espressione più accentuata della decadenza italiana. Solo esso è forma vivente fra tante forme puramente letterarie.

L’idillio italiano non è imitazione, ma è creazione originale dello spirito. Già si annunzia nel Petrarca quale si afferma nel Tasso, un dolce fantasticare tra’ mille suoni della natura. L’anima ritirata in sè è malinconica e [p. 175 modifica]disposta alla tenerezza, e senti la sua presenza e il suo accento in quel fantasticare. La natura diviene musicale, acquista una sensibilità, manda fuori con le sue immagini mormorii e suoni, voci della vita interiore. Prevale nell’uomo la parte femminile, la grazia, la dolcezza, la pietà, la tenerezza, la sensibilità, la voluttà e la lacrima, tutto quel complesso di amabili qualità che dicesi il sentimentale. I popoli, come gl’individui, nel pendìo della loro decadenza diventano nervosi, vaporosi, sentimentali. Non è un sentimento che venga dalle cose, ciò che è proprio della sanità, ma è un sentimento che viene dalla loro anima troppo sensitiva e lacrimosa. Manca la forza epica di attingere la realtà in sè stessa, e questa vita femminile è un tessuto di tenere o dolci illusioni, nelle quali l’anima effonde la sua sensibilità. Il sentimentale è perciò essenzialmente lirico e subbiettivo. Come il lavoro è tutto al di dentro, ci si sente l’opera dello spirito, non so che manifatturato, la cosa non colta nella naturalezza e semplicità della sua esistenza, ma divenuta un fantasma e un concetto dello spirito.

Il Tasso cerca l’eroico, il serio, il reale, lo storico, il religioso, il classico, e si logora in questi tentativi fino all’ultima età. Sarebbe riuscito un Trissino, ma la natura lo aveva fatto un poeta, il poeta inconscio d’un mondo lirico e sentimentale, che succedeva al mondo ariostesco. A quest’ufficio ha tutte le qualità di poeta e di uomo. L’uomo è fantastico, appassionato, malinconico, di una perfetta sincerità e buona fede. Il poeta è tutto musica e spirito, concettoso insieme e sentimentale. La sua immaginazione non è chiusa in sè, come in un ultimo termine, a quel modo che dal Boccaccio all’Ariosto si rivela nella poesia, ma è penetrata di languori, di lamenti, di concetti e di sospiri, e va dritto al cuore. L’Ariosto dice:

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In sì dolci atti, in sì dolci lamenti
Che parea ad ascoltar fermare i venti,

Il sentimento appena annunziato si scioglie in una immagine fantastica. Il Tasso dice:

In queste voci languide risuona
Un non so che di flebile e soave,
Che al cor gli serpe ed ogni sdegno ammorza,
E gli occhi a lacrimar gl’invoglia e sforza.

Nella forma ariostesca ci è una virtù espansiva, che rimane superiore all’emozione, e cerca il suo riposo non nel particolare, ma nell’insieme: qualità della forza. Nella forma del Tasso ci è l’impressionabilità, che turba l’equilibrio e la serenità della mente, e la trattiene intorno alla sua emozione: l’immagine si liquefà e diviene un non so che, annunzio dell’immagine che cessa e dell’emozione che soverchia:

E un non so che confuso istilla al core
Di pietà, di spavento e di dolore.

Anche tra’ furori delle battaglie la nota prevalente è l’elegiaco come nella ottava:

Giace il cavallo al suo signore appresso.

Ne’ casi di morte gli riesce meglio l’elegiaco che l’eroico. Aladino che cadendo morde la terra ove regnò è grottesco. Solimano che

gemito non spande
Nè atto fa se non altero e grande,

ti offre un’immagine indistinta. Argante muore come Capaneo, ma la forma è concettosa e insieme vaga, e quelle voci e que’ moti superbi, formidabili, feroci, non ti dànno niente di percettibile avanti all’immaginazione. L’idea in queste forme rimane intellettuale, non [p. 177 modifica]diviene arte. Al contrario precise, anzi pittoresche sono le immagini di Dudone, di Lesbino, de’ figli di Latino, di Gildippe ed Odoardo, dove le note caratteristiche sono la grazia e la dolcezza. Così è pure nella morte di Clorinda, ispirazione petrarchesca con qualche reminiscenza di Dante. Clorinda è Beatrice nel punto che parea dire: Io sono in pace; ma è una Beatrice spogliata de’ terrori e degli splendori della sua divinità. Il sole non si oscura, la terra non trema, e gli angioli non scendono come pioggia di manna. La religione del Tasso è timida, ci è innanzi a lui il ghigno del secolo, mal dissimulato sotto l’occhio dell’inquisitore. L’elemento religioso era ammesso come macchia poetica, a quel modo che la mitologia: tale è l’Angiolo di Tortosa, e Plutone, messi insieme. È una macchina insipida in tutt’i nostri epici, perchè convenzionale, e non meditata nelle sue profondità. Gli angioli del Tasso sono luoghi comuni, e il suo Plutone, se guadagna come scultura, è superficialissimo come spirito, e parla come un maestro di rettorica. La parte attiva e interessante è affidata alla magia, ancora in voga a quel tempo, dalla quale il Tasso trae tutto il suo maraviglioso. La morte di Clorinda non è una trasfigurazione, come quella di Beatrice, e si accosta al carattere elegiaco e malinconico di quella di Laura, nel cui bel volto Morte bella parea. Qui tutto è preciso e percettibile, il plastico è fuso col sentimentale, il riposo idillico col patetico, e l’effetto è un raccoglimento muto e solenne di una pietà senz’accento, come suona in questa immagine nel suo fantastico così umana e vera e semplice, perchè rispondente alle reali impressioni e parvenze di un’anima addolorata:

.     .     .     .     In lei converso
Sembra per la pietate il Cielo e il Sole.

[p. 178 modifica]La stessa ispirazione petrarchesca è nelle ultime parole di Sofronia:

Mira il ciel com’è bello, e mira il sole
Che a sè par che ne inviti e ne console.

Movimento lirico che ricorda immagini simili di Dante e del Petrarca, accompagnate nel Tasso da un tono alquanto pedantesco, quando vuol darvi uno sviluppo puramente dottrinale e religioso, come nelle prime parole di Sofronia, che hanno aria di una riprensione amorevole fatta da un confessore a un condannato a morte, o nelle parole di Piero a Tancredi, che hanno aria di predica. La sua anima candida e nobile la senti più nelle sue imitazioni petrarchesche e platoniche, che in ciò che tira dal fondo dottrinale e tradizionale religioso. Sofronia, che fa una lezione a Olindo, ricorda Beatrice che ne fa una simile e più aspra a Dante; ma Beatrice è nel suo carattere, è tutta l’epopea di quel secolo, ci è in lei la santa, la donna, ed anche il dottore di teologia; Sofronia è rigida, tutta di un pezzo, costruzione artificiale e solitaria in un mondo dissonante, perciò appunto esagerata nelle sue tinte religiose, a cominciare da quella vergine di già matura verginità per finire in quel bruttissimo:

.    .    .    .    .    .    .    Ella non schiva,
Poi che seco non muor, che seco viva.

In questa eroina, martire della fede, non ci è la santa con le sue estasi e i suoi ardori oltremondani, e non ci penetra il femminile con la sua grazia e amabilità. È uscita dal cervello concetto cristiano con reminiscenze pagane e platoniche. Colui che l’ha concepita, pensava a Eurialo e Niso, a Beatrice e a Laura. La creatura è rimasta nel suo intelletto, e non ha avuto la forza di penetrare nella sua coscienza e nella sua immaginazione [p. 179 modifica]così com’era, nel suo immediato. Il che avviene quando la coscienza e l’immaginazione sono già preoccupate, e non conservano nella loro verginità le concezioni dell’intelletto. Se è vero che concependo Sofronia, il Tasso pensasse a Eleonora, è una ragione di più, che ci spiega l’artificio e la durezza di questa costruzione. Perciò Sofronia è la meno viva e la meno interessante fra le donne del Tasso, e non è stata mai popolare. Ma Sofronia è umanizzata di Olindo, il femminile, in un episodio, dove l’uomo è Sofronia, Olindo diviene eroe per amore, come altri diviene eroe per paura. Il suo carattere non è la forza, qualità estranea al tempo ed al Tasso, e che senti così bene in quel sublime: me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum, imitato qui a rovescio e rettoricamente. Il carattere di questo timido amante, o mal visto, o mal noto, o mal gradito, presentato a’ lettori in una forma artificiosa e sottile, è l’eco del Tasso, un’anticipazione del Tancredi, la stampa di quel tempo e di quel poeta, un elegiaco spinto sino al gemebondo, un idillico spinto sino al voluttuoso. Il vero eroe del poema è Tancredi, che è il Tasso stesso miniato, personaggio lirico e subbiettivo, dove penetra il soffio di tempi più moderni, come in Amleto. Tancredi è gentiluomo, cioè cavalleresco nel senso più delicato e nobile, gagliardo e destro più che gigantesco di corpo, malinconico, assorto, flebile, amabile, consacrato da un amore infelice. La sua Clorinda è una Camilla battezzata, tradizione virgiliana che al momento della morte si rivela dantesca e petrarchesca. Carattere muto, diviene intelligibile e umano in morte, come Beatrice e Laura. La sua apparizione a Tancredi ricorda quella di Laura, ed è una delle più felici imitazioni. La formazione poetica della donna non fa in Clorinda alcun passo; rimane reminiscenza petrarchesca. E se vuoi trovare l’ideale femminile compiutamente realizzato nella vita in quel suo [p. 180 modifica]complesso di amabili qualità, devi cercarlo non nella donna, ma nell’uomo, nel Petrarca o nel Tasso, caratteri femminili nel senso più elevato, e in questa simpatica e immortale creatura del Tasso, il Tancredi. Si è detto che l’uomo nella sua decadenza tenda al femminile, diventi nervoso, impressionabile, malinconico. Il simile è de’ popoli. E lo spirito italiano fa la sua ultima apparizione poetica tra’ languori e i lamenti dell’idillio e dell’elegia, divenuto sensitivo e delicato e musicale. Il sentimento è il genio del Tasso, che gli fa rompere la superficie ariostesca, e gli fa cavare di là dentro i primi suoni dell’anima. L’uomo non è più al di fuori, si ripiega, si raccoglie. Lo stesso Argante è colpito da questo sublime raccoglimento innanzi alla caduta di Gerusalemme, come il poeta innanzi alle rovine di Cartagine, o quando nell’immensità dell’oceano concepisce e comprende Colombo. Qui è l’originalità e la creazione del gran poeta, che sorprende Solimano nelle sue lacrime e Tancredi nella sua vanagloria. Vita intima, della quale dopo Dante e il Petrarca si era perduta la memoria.

Con l’elegiaco si accompagna l’idillico. L’immagine sua più pura e ideale è l’innamorata Erminia che acqueta le cure e le smanie nel riposo della vita campestre. Quella scena è tra le più interessanti della poesia italiana. Erminia è comica nel suo atteggiamento eroico, e fredda e accademica nelle sue discussioni tra l’onore e l’amore; ma quando si abbandona all’amore, si rivelano in lei di bei movimenti lirici, come:

Oh belle agli occhi miei tende latine!

Nella sua anima ci è l’impronta malinconica e pensosa del Tasso, una certa dolcezza e delicatezza di fibra, che la tien lontana dalla disperazione, e la dispone alla pace e alla solitudine campestre, della quale un pastore gli fa un quadro tra’ più finiti della nostra poesia. Erminia [p. 181 modifica]errante pe’ campi con le sue pecorelle, tutta sola in compagnia del suo amore, pensosa e fantastica e lacrimosa, espande le sue pene con una dolcezza musicale, il cui segreto è meno nelle immagini che nel numero. Trovi reminiscenze petrarchesche e luoghi comuni in una musica nuova, piena di misteri o di non so che nella sua melodia. Un traduttore può rendere il senso, ma non la musica di quelle ottave. L’anima del poeta non è nelle cose, ma nel loro suono, a cui è sacrificata alcuna volta la proprietà, la precisione, la sobrietà, tutte le alte qualità dello stile, che rendono ammirabile il Petrarca, suo ispiratore: pur non te ne avvedi sotto la malìa di quell’onda musicale, che non è un artifizio esteriore e meccanico, ma è il non so che del sentimento, che vien dall’anima e va all’anima.

L’idillico non è in questa o quella scena, ma è la sostanza del poema, il suo significato. La base ideale del poema è il trionfo della virtù sul piacere, o della ragione sulle passioni. Un lato di questa base rimane intellettuale e allegorico, e si risolve poeticamente in esortazioni paterne, come:

Figlio non sotto l’ombra o in piaggia molle,
Tra fronde e fior, fra Ninfe e fra Sirene,
Ma in cima all’erto e faticoso colle
Della virtù riposto è il nostro bene.

Contrapposto alla virtù è il piacere, e qui si sviluppano tutte le facoltà idilliche del poeta. In Erminia l’idea idillica è la pace della vita campestre, farmaco del dolore vòlto in dolce melanconia. Qui l’idea idillica è il piacere della bella natura spinto sino alla voluttà e alla mollezza, come ozio di anima e contrapposto alla virtù e alla gloria: ciò che il poeta chiude nel motto: quel che piace, ei lice, traduzione del dantesco: libito fe’ licito. Questa idea è sviluppata nel canto della Ninfa, [p. 182 modifica]e nel canto dell’uccello, che sono due veri inni al Piacere:

Solo chi segue ciò che piace è saggio.

Il primo canto è di una esecuzione così perfetta per naturalezza e semplicità, che soggioga anche il severo Galilei, e gli fa dire che qui il Tasso si accosta alla divinità dell’Ariosto. L’altro canto è fondato su questo concetto maneggiato così spesso da Lorenzo e dal Poliziano: amiamo, chè la vita è breve. L’immagine è anche imitata dal Poliziano; è la descrizione della rosa, fatta pure dall’Ariosto; ma dove nel Poliziano c’è il puro sentimento della bellezza, qui si sviluppa un elemento sentimentale o elegiaco; l’impressione non è la bellezza della rosa, ma la sua breve vita, e ne nasce un canto immortale, penetrato di piacere e di dolore, il cui complesso è una voluttà resa più intensa da immagini tenere, fatti la morte e il dolore istrumenti del piacere e dell’amore. Il protagonista di questo mondo idillico è Armida, anzi questo mondo è il suo prodotto, perchè essa è la Maga del piacere che gli dà vita. Armida e Rinaldo ricordano Alcina e Ruggiero, e il concetto stesso del guerriero tenuto negli ozii lontano dalla guerra risale ad Achille in Sciro, come l’idea dell’amore sensuale che trasforma gli uomini in bestie è già tutta intera nella maga Circe. Di questa lotta tra il piacere e la virtù si trovano vestigi poetici in tutte le nazioni. Il Tasso con un senso di poesia profondo ha fatto di Armida una vittima della sua magia. La donna vince la maga, e come Cupido finisce innamorato di Psiche, cioè a dire di divino si fa umano, Armida finisce donna, che obblia Idraotte e l’inferno e la sua missione, e pone la sua magia ai servigi del suo amore. Questo rende Armida assai più interessante di Alcina, e le dà un nuovo significato. È l’ultima apparizione magica della poesia, [p. 183 modifica]apparizione entro la quale penetra e vince l’uomo e la natura. È il soprannaturale domato e sciolto dalle leggi più forti della natura. È la donna uscita dal grembo delle idee platoniche e delle allegorie, che si rivela coi suoi istinti nella pienezza della vita terrena. Già in Angelica apparisce la donna; ma la storia di Angelica finisce appunto allora, e allora appunto comincia la storia di Armida. Angelica, terminando le sue avventure nella prosa idillica del suo matrimonio con un povero fante, è salutata e accomiatata dal poeta con quel suo risolino ironico. Il concetto ripigliato dal Tasso diviene una interessante storia di donna, a cui l’arte magica dà il teatro e lo scenario. Così la maga Armida è l’ultima maga della poesia e la più interessante nella chiarezza e verità della sua vita femminile. Vive anche oggi nel popolo più che Alcina, Angelica, Olimpia e Didone, perchè unisce tutti gli splendori della magia con tutta la realtà di un povero core di donna. La sua riabilitazione è in quell’ultimo motto tolto alla Madonna: ecco l’ancilla tua; conclusione piena di senso: molto le è perdonato, perchè ha molto amato. Ed è l’amore che uccide in lei la maga e la fa donna. Trasformazione assai più poetica che non è lo scudo di Ubaldo e la donna celeste: ond’è che Rinaldo nella sua conversione t’interessa assai meno che Armida in questa sua trasfigurazione, perchè quella conversione nasce da cause esterne e soprannaturali, e questa trasfigurazione è il logico effetto di movimenti interni e naturali.

In Erminia e in Armida si compie la donna, non quale uscì dalla mente di Dante e del Petrarca, di cui si trovano le orme in Sofronia e in Clorinda, non il tipo divino, eroico e tragico della donna, ma un tipo più umano, idillico ed elegiaco. La forza di Erminia è nella sua debolezza. Senza patria e senza famiglia, sola sulla terra, vive perchè ama, e perchè ama, opera, ma le sue vere [p. 184 modifica]azioni sono discorsi interiori, visioni, estasi, illusioni, lamenti e lacrime, tutto un mondo lirico, che si effonde con una dolcezza melanconica tra onde musicali. Erminia pastorella è la madre di tutte le Filli e Amarilli che vennero poi, lontanissime dal modello. Nè tra le creature idilliche del Boccaccio, del Poliziano, del Molza, del Sannazzaro c’è nessuna che le si avvicini. In Armida si sviluppa tutto il romanzo di un amore femminile con le sue voluttà, con i suoi ardori sensuali, con le sue furie e le sue gelosie e i suoi odii. Nessuno aveva ancora colta la donna con un’analisi così fina nell’ardenza e nella fragilità de’ suoi propositi, nelle sue contraddizioni. La lingua dice: odio, e il cuore risponde: amo; la mano saetta, e il cuore maledice la mano:

E mentre ella saetta, Amor lei piaga.

Si dirà che tutto questo non è eroico, e non tragico; e appunto per questo elle sono creature viventi, figlie non dell’intelletto, ma di tutta l’anima con l’impronta sulla fisonomia del poeta e del secolo.

Il mondo idillico, figlio della mente d’Armida, è il palazzo e il giardino incantato, cioè la bella natura campestre resa artistica, trasformata dall’arte in istrumento di voluttà, sì che pare che imiti l’imitatrice sua. Nell’Odissea, nelle Georgiche, nelle Stanze, nei giardini ariosteschi la bella natura è sostanzialmente campestre o idillica, e il suo ideale umano è la vita pastorale: l’età dell’oro attinge anche di là le sue immagini. Il quadro abituale della poesia classica e italiana è il verde dei campi, i fiori, gli alberi, il riso della primavera, le fresche ombre, gli antri, le onde, gli uccelli, le placide aurette, quadro decorato dall’arte con le sue statue e i suoi intagli. Questa vista della natura si allarga innanzi al secolo di Colombo e di Copernico, e ne senti [p. 185 modifica]l’impressione nell’immensità dell’oceano, dove il Tasso trova alcune belle ispirazioni. Ma alla fine del viaggio, toccando le isole Felici, soggiorno di Armida, ricasca nel solito quadro, e vi pone l’ultima mano. Qui vedi raccolto come in un bel mazzetto tutto ciò che di vezzoso e di leggiadro avea trovato l’immaginazione poetica da Omero all’Ariosto; ma è nell’ultima sua forma, raffinata o artificiosa. Come Dante crea una natura oltremondana, il Tasso crea una natura oltrenaturale, una natura incantata, il paradiso della voluttà. Non è la natura colta nell’immediato della sua esistenza, ma natura artefatta, lavorata e trasformata da un artista, che ha fini e mezzi suoi, e l’artista è Armida, maestra di vezzi e di artificii, che crea intorno a sè una natura meretricia e voluttuosa. Questa forma testamentaria della natura classica è portata a un alto grado di perfezione da un poeta, che a un sentimento musicale sviluppatissimo aggiungeva tutte le finezze dello spirito.

Abbiamo anche una selva incantata, cioè una selva artefatta, accomodata ad uno scopo a lei estraneo. L’incanto ne’ romanzi cavallereschi è così arbitrario come la natura, e non è altro che combinazione straordinaria di apparenze, che destino curiosità e maraviglia. Qui, come è concepito dal Tasso, l’incanto è ragionevole, e perciò intelligibile, è la natura rimaneggiata dall’arte e indirizzata ad uno scopo. Come il giardino e il palazzo incantato, così la selva incantata è opera di artista che l’atteggia a suo modo e secondo i suoi fini. Il concetto non è nuovo, e la nota selva delle false apparenze, la selva degli errori e delle passioni; ma l’esecuzione è originalissima, e ti offre il microcosmo del Tasso, il suo mondo elegiaco-idillico condensato e accentuato. Ci è lì fuso insieme Erminia e Armida, Tancredi e Rinaldo, tutta l’anima poetica del Tasso, ciò che di più [p. 186 modifica]tenero ha l’elegia, e ciò che di più molle ha l’idillio, ne’ loro accenti più musicali.

Questo è il vero mondo poetico della Gerusalemme, un mondo musicale, figlio del sentimento che dalla più intima malinconia va digradando fino al più molle e voluttuoso di una natura meridionale. Ingegno napolitano, manca al Tasso la grazia e la vivezza toscana e la decisione e chiarezza lombarda così ammirabile nell’Ariosto, ma gli abbonda quel senso della musica e del canto, quel dolce fantasticare dell’anima tra le molli onde di una melodia malinconica insieme e voluttuosa, che trovi nelle popolazioni meridionali, sensibili e contemplative.

Questo mondo del sentimento è insieme il mondo dei concetti. Come il Petrarca, così il Tasso è disposto meno a rinnovare un vecchio repertorio, che ad abbigliarlo a nuovo. Dottissimo, la sua materia poetica è piena di reminiscenze, e non coglie il mondo nel suo immediato, ma a traverso i libri. Lavora sopra il lavoro, raffina, aguzza immagini e concetti: la qual forma nella sua esteriorità meccanica egli la chiama il parlare disgiunto: ed è un lavoro di tarsie, come diceva il Galilei. Cercando l’effetto non nell’insieme, ma nelle parti, e facendo di ogni membretto un mondo a sè raffinato e accentuato, le giunture si scompongono, l’organismo del periodo si scioglie, e vien fuori una specie di parallelismo, concetti e immagini a due a due, posti di fronte in guisa che si dieno rilievo a vicenda. Il fondo di questo parallelismo è l’antitesi, presa in un senso molto largo, cioè una certa armonia che nasce da oggetti simili o dissimili posti dirimpetto, come:

Molto egli oprò col senno e colla mano,
Molto soffrì nel glorioso acquisto:
E invan l’inferno a lui s’oppose, e invano
Si armò di Asia e di Libia il popol misto.

[p. 187 modifica]Quel molto e quell’invano sono il ritornello di una cantilena chiusa in sè stessa ed esaurita nell’espressione di un rapporto tra due oggetti. Naturalmente cercando l’effetto in quel rapporto, l’intelletto vi prende parte più che non si convenga a poeta e riesce nel raffinato e nel concettoso, come:

O di par con la man luci spietate!
Essa le piaghe fe’, voi le mirate.

Questo parallelismo fondato sopra ritornelli di parole, ravvicinamenti di oggetti, e straordinarietà di rapporti, non è un accidente, è il carattere di questa forma con gradazioni più o meno spiccate. E non attinge solo i pensieri, ma anche le immagini, come:

. . . . . . e par che porte
Lo spavento negli occhi e in man la morte.

L’immaginazione nelle sue contemplazioni ha sempre ai fianchi un pedagogo, che analizza e distingue con logica precisione, come:

Sparsa è d’armi la terra, e l’armi sparte
Di sangue, e il sangue col sudor si mesce.

Cerca troppo il poeta lo stacco e il rilievo, dare un significato anche all’insignificante, e cerca il significato nei rapporti intellettuali anche tra la maggiore evidenza della rappresentazione e la concitazione più violenta dell’affetto, come:

O sasso amato ed onorato tanto,
Che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto!

Con questi giuochi di parole e di pensieri si lagna Tancredi e infuria Armida, la quale anche nella [p. 188 modifica]disperazione del suicidio fa un discorsetto alle sue armi assai ingegnoso, e finisce:

Sani piaga di stral piaga d’amore,
E sia la morte medicina al core.

È ciò che fu detto orpello del Tasso o maniera, propria de’ poeti subiettivi, una forma artificiosa di rappresentazione, dove l’interessante non è la cosa, ma il modo di guardarla. In questo caso la forma non è la cosa, ma lo spirito, con le sue attitudini facilmente classificabili nei loro caratteri esteriori, e divenute maniera o abitudine nella rappresentazione, com’è il petrarchismo o il marinismo. Essendo il proprio di questa maniera una cantilena breve e chiusa, che ha il suo valore non solo nel rimanente della clausola, ma in sè stessa, vi si sviluppa l’elemento cantabile e musicale, una enfasi sonora, un suono di tromba perpetuo e monotono, con certe pause, con certi trilli, con certe ripigliate, con un certo sopratuono come di chi gridi e non parli, che non comporta la semplice recitazione, come si può in molti passi di Dante, del Petrarca e dell’Ariosto, ma ti costringe alla declamazione. Ci è un’arma virumque cano dal principio all’ultimo, un accento sollevato e teso, come di chi si trovi in uno stato cronico di esaltazione. Indi scelta di parole sonanti, riempiture di epiteti e di avverbii, nobiltà convenzionale di espressione, povertà di parole, di frasi, di costruzioni e di gradazioni. Con questa forma declamatoria si accompagna naturalmente la rettorica, che è quel tenersi su’ generali, e ravvivare luoghi comuni o concettosi con un calore tutto d’immaginazione, tra uno scoppiettio di apostrofi, epifonemi, ipotiposi, interrogazioni ed esclamazioni, il che gli avviene, massime quando mira alla forza di concitate passioni, come sono i lamenti di Tancredi e i furori di Armida. Questa è la maniera del Tasso, per entro alla quale penetra il [p. 189 modifica]potente soffio di un sentimento vero, che spesso gli strappa accenti nella loro energia pieni di semplicità. Nelle ultime parole di Clorinda ci è un sì e un no in battaglia, al corpo no, all’alma sì, ma, salvo questo, che affetto e quanta semplicità in quell’affetto! Togliete quel fiato al Petrarca e al Tasso, cosa rimane? La maniera, il petrarchismo e il marinismo, il cadavere dei due poeti.

La Gerusalemme non è un mondo esteriore, sviluppato ne’ suoi elementi organici e tradizionali, come è il mondo di Dante o dell’Ariosto. Sotto le pretensiose apparenze di poema eroico è un mondo interiore o lirico, o subbiettivo, nelle sue parti sostanziali elegiaco-idillico, eco dei languori, delle estasi e de’ lamenti di un’anima nobile, contemplativa e musicale. Il mondo esteriore ci era allora, ed era il mondo della natura, il mondo di Copernico e di Colombo, la scienza e la realtà. Anche il Tasso ne ha un bagliore, e visibili sono qui le sue intenzioni storiche, reali e scientifiche, rimaste come presentimenti di un mondo letterario futuro. L’Italia non era degna d’avere un mondo esteriore, e non l’aveva. Perduto il suo posto nel mondo, mancato ogni scopo nazionale della sua attività, e costretta alla ripetizione prosaica di una vita, di cui non aveva più l’intelligenza e la coscienza, la sua letteratura diviene sempre più una forma convenzionale separata dalla vita, un gioco dello spirito senza serietà, perciò essenzialmente frivolo e rettorico anche sotto le apparenze più eroiche e più serie. Di questa tragedia Torquato Tasso è il martire inconscio, il poeta appunto di questa transizione, mezzo tra reminiscenze e presentimenti, fra mondo cavalleresco e mondo storico; romanzesco, fantastico, tra le regole della sua poetica, la severità della sua logica, le sue intenzioni realiste e i suoi modelli classici; agitantesi in un mondo contraddittorio senza trovare un centro [p. 190 modifica]armonico e conciliante; così scisso e inquieto e pieno di pentimenti nel suo mondo poetico, come nella vita pratica. Miserabile trastullo del suo cuore e della sua immaginazione, fu là il suo martirio e la sua gloria. Cercando un mondo esteriore ed epico in un repertorio già esaurito, vi gittò dentro sè stesso, la sua idealità, la sua sincerità, il suo spirito malinconico e cavalleresco, e là trovò la sua immortalità. Ivi si sente la tragedia di questa decadenza italiana. Ivi la poesia prima di morire cantava il suo lamento funebre, e creava Tancredi, presentimento di una nuova poesia, quando l’Italia sarà degna di averla.