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già critico prima di esser poeta, aveva già innanzi a sè tutta una scuola poetica. Ciò che sta avanti a lui non è il suo argomento, ma certi fini, certe preoccupazioni, certi modelli, e Orazio e Aristotile, e Omero e Virgilio. A diciotto anni è già una maraviglia di dotto, e conosce Platone e Aristotile, e sviluppa a maraviglia tesi di filosofia, di rettorica e di etica. Scrive il Rinaldo, e, come aveva imparato il simplex et unum, studia all’unità dell’azione e alla semplicità della composizione e ne chiede scusa al pubblico. Ma il pubblico, avvezzo alle larghe e magnifiche proporzioni dell’Orlando e dell’ Amadigi, trova il pasto un po’ magro e ne torce la bocca. Lasciò allora da parte il poema cavalleresco, o, come dicevano, il romanzo, e pensò di dare all’Italia quel poema eroico, che tutti cercavano. Esitò sulla scelta dell’argomento, avea pronti quattro o cinque temi, e rimise l’elezione, dicesi, al Duca Alfonso, suo mecenate. In somma cominciò la Gerusalemme. Volle fare un poema regolare, come dicevano, secondo le regole. L’argomento rispondeva a’ tempi pel suo carattere religioso e cosmopolitico, e vi poteva senza sforzo introdurre un eroe estense, e come l’Ariosto, far la sua corte al Duca. Si diè una cura infinita delle proporzioni e delle distanze per conservare l’unità e la semplicità della composizione. Guardò al verisimile, per dare al suo mondo un aspetto di naturale e di credibile. Introdusse un’azione seria, intorno a cui tutto convergesse, e fece del pio Goffredo un protagonista effettivo, un vero capo e re a uso moderno. Soppresse i cavalieri erranti, e cavò l’intreccio non dallo spirito di avventura, ma dall’azione celeste e infernale, come in Omero. Umanizzò il soprannaturale, rendendolo spiegabile e quasi allegorico, e come una semplice esteriorità degl’istinti e delle passioni. Nobilitò i caratteri, sopprimendo il volgare, il grottesco e il comico, e sonò la tromba dal primo all’ultimo verso.