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nel suo sviluppo, a quel modo che la vita italiana, e disputavano come si avesse a chiamare, o toscana, o fiorentina o italiana, quando era già bella e imbalsamata, ben rinchiusa e coperchiata nel Dizionario della Crusca.
Il medesimo era della grammatica. Si cercò il criterio non nella natura e nel significato delle cose, e non nella logica necessità, ma nell’uso variabilissimo degli scrittori. Indi regole arbitrarie e più arbitrarie eccezioni, e quella folla di significati attribuiti a una sola parola, e tante inutilità decorate col nome di ripieno, e sottigliezze infinite su di una lettera o una sillaba. Onde nacque una ortografia in molte parti campata in aria e tentennante, una sintassi complicata e incerta, un guazzabuglio di particelle, pronomi, generi, casi, alterazioni e costruzioni, una grammatica che anche oggi è una delle meno precise e semplici. Avemmo una lingua senza proprietà e una grammatica senza precisione; perchè lingua e grammatica furono considerate non in rispetto alle cose, ma per se stesse come forme vacue e arbitrarie.
L’attenzione era tutta al di fuori, sulla superficie. La letteratura fu un artificio tecnico, un meccanismo. E si cercò il suo fondamento non nelle ragioni intrinseche di ciascuna forma messa in relazione con le cose, ma nell’esempio degli scrittori. Come del periodo, così immaginarono uno schema artificiale e immobile di composizione, la cui base fu posta in una certa concordanza del tutto e delle parti, come in un orologio, e questo chiamavano scrivere classico. Smarrito il sentimento dell’arte e della poesia, non rimase che un concetto prosaico di perfezione meccanica, la regolarità e la correzione. Davano una importanza straordinaria alla lingua, alla grammatica, all’elocuzione, al periodo, alla composizione: e qui erano le colonne di Ercole, qui finiva la critica. Gli scrittori giudicati secondo questi criterii erano più o