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La nostra lingua avea già una forma stabile e sicura in tutta Italia. Il toscano era il fiore della lingua italiana, così dice Speron Speroni. Ci era dunque una lingua italiana, vale a dire un fondo comune di vocaboli con una comune forma grammaticale, atteggiato variamente e colorita secondo le varie parti d’Italia. Allora, come ora, si sentiva nello scrittore l’italiano, e anche il toscano, il lombardo, o il veneziano o il napolitano. Questa varietà di atteggiamento e di colorito, questo elemento locale era la parte viva della lingua che lo scrittore attingeva dall’ambiente in cui era. Se Firenze fosse stata un centro effettivo d’Italia come Parigi, la lingua fiorentina sarebbe rimasta lingua viva di tutti gli scrittori italiani, che ivi avrebbero avuto la loro naturale attrazione. Ma Firenze era allora per gli italiani un museo, da studiarsi ne’ suoi monumenti, voglio dire ne’ suoi scrittori. L’Accademia della Crusca considerò la lingua come il latino, vale a dire come una lingua compiuta e chiusa in sè, di modo che non rimanesse a fare altro, se non l’inventario. Chiamò puri tutt’i vocaboli contenuti nel suo dizionario e usati da questo o da quello scrittore, e scomunicò tutti gli altri. Fece una scelta degli scrittori, e di sua autorità creò gli eletti ed i reprobi. Così la lingua, segretata dall’uso vivente, divenne un cadavere, notomizzato, studiato, riprodotto artificialmente, e gl’italiani si avvezzarono a imparare e scrivere la loro lingua, come si fa il latino o il greco. Il Petrarca e il Boccaccio diventarono modelli così inviolabili, come la Bibbia, e il non si può venne in moda anche per le parole, tanto che mancò pazienza fino al gesuita Bartoli. A mostrare in qual modo studiassero i nostri letterati, cito ad esempio un uomo coltissimo e d’ingegno non ordinario, Speron Speroni. «Io veramente fin da’ primi anni desiderando oltramodo di parlare e di scrivere volgarmente i concetti