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tenero ha l’elegia, e ciò che di più molle ha l’idillio, ne’ loro accenti più musicali.
Questo è il vero mondo poetico della Gerusalemme, un mondo musicale, figlio del sentimento che dalla più intima malinconia va digradando fino al più molle e voluttuoso di una natura meridionale. Ingegno napolitano, manca al Tasso la grazia e la vivezza toscana e la decisione e chiarezza lombarda così ammirabile nell’Ariosto, ma gli abbonda quel senso della musica e del canto, quel dolce fantasticare dell’anima tra le molli onde di una melodia malinconica insieme e voluttuosa, che trovi nelle popolazioni meridionali, sensibili e contemplative.
Questo mondo del sentimento è insieme il mondo dei concetti. Come il Petrarca, così il Tasso è disposto meno a rinnovare un vecchio repertorio, che ad abbigliarlo a nuovo. Dottissimo, la sua materia poetica è piena di reminiscenze, e non coglie il mondo nel suo immediato, ma a traverso i libri. Lavora sopra il lavoro, raffina, aguzza immagini e concetti: la qual forma nella sua esteriorità meccanica egli la chiama il parlare disgiunto: ed è un lavoro di tarsie, come diceva il Galilei. Cercando l’effetto non nell’insieme, ma nelle parti, e facendo di ogni membretto un mondo a sè raffinato e accentuato, le giunture si scompongono, l’organismo del periodo si scioglie, e vien fuori una specie di parallelismo, concetti e immagini a due a due, posti di fronte in guisa che si dieno rilievo a vicenda. Il fondo di questo parallelismo è l’antitesi, presa in un senso molto largo, cioè una certa armonia che nasce da oggetti simili o dissimili posti dirimpetto, come:
Molto egli oprò col senno e colla mano,
Molto soffrì nel glorioso acquisto:
E invan l’inferno a lui s’oppose, e invano
Si armò di Asia e di Libia il popol misto.