Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/XVII
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MARINO
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Questo mondo lirico che nella Gerusalemme si trova mescolato con altri elementi, apparisce in tutta la sua purezza idillica ed elegiaca nell’Aminta. Ivi il Tasso incontra il vero mondo del suo spirito e lo conduce a grande perfezione.
L’Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, come erano le tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia. Citerò la Virginia dell’Accolti resa celebre dall’imitazione di Shakespeare. Essa è in fondo una novella allargata a commedia di quel carattere romanzesco che dominava nell’immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de’ due protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione. Di tal genere erano anche le egloghe, o commedie pastorali, iniziate fin dai tempi del Boiardo nella corte di Ferrara, e giunte allora a una certa perfezione d’intreccio e di meccanismo nel Sacrificio del Beccari, nell’Aretusa del Lollio e nello Sfortunato dell’Argenti. Queste egloghe, che dalla semplicità omerica e virgiliana erano state condotte fino ad un serio sviluppo drammatico, furono dette senza più favole boscherecce, e anche commedie pastorali.
L’Aminta è un’azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L’interesse è tutto nella narrazione sviluppata liricamente, e intramessa di Cori, il cui concetto è l’apoteosi della vita pastorale e dell’amore: s’ei piace, ei lice. Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di carattere e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloquii, comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è nell’ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un’apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa semplicità è un raffinamento. Ai contemporanei parve un miracolo di perfezione, e certo non ci è opera d’arte così finamente lavorata.
Tentò il Tasso anche la tragedia classica, e ad imitazione di Edipo re scrisse il suo Torrismondo. Ma l’Italia non aveva più la forza di produrre nè l’eroico, nè il tragico, e lì non ci è di vivo, se non quello solo di vivo che era nel poeta e nel tempo, l’elemento elegiaco, massime ne’ Cori. I contemporanei credettero di avere il poema eroico nella Gerusalemme, e non molto soddisfatti del Torrismondo aspettavano ancora la tragedia classica.
Delle sue rime sopravvive qualche sonetto e qualche canzone, effusione di anima tenera e idillica. Invano vi cerco i vestigi di qualche seria passione. Repertorio vecchio di concetti e di forme, con i soliti raffinamenti. Dipinge bella donna così:
Chè del latte la strada
Ha nel candido seno,
E l’oro delle stelle ha nel bel crine,
Ne’ lumi ha la rugiada.
Fonti profonde son d’amare vene
Quelle ond’io porto sparso il seno e il volto;
È infinito il dolor, che dentro accolto
Si sparge in caldo pianto e si mantiene:
Nè scema una giammai di tante pene,
Perchè il mio core in dolorose stille
Le versi a mille a mille.
Quel che sieno le sue prose, si può immaginare. Dottissime, irte di esempi e di citazioni, in istil grave, in andamento sostenuto, ma non inceppato, sfolgoranti di nobili sentimenti. Quando esprime direttamente i moti del suo animo, mostra un affetto rilevato da una forma cavalleresca e di gentiluomo anche nell’abjezione della sua sorte, com’è in alcune sue lettere. Quando specula come ne’ Dialoghi, senti ch’è fuori della vita, e sta in questioni astratte, o formali. Ci è un libro che volontariamente ha chiuso, ed è il libro della libera investigazione. Nella sua giovinezza l’autore del Rinaldo, dedito a furtivi e disordinati amori, era anche infetto dalla peste filosofica. La gran quistione era qual fosse superiore, la fede o la religione, la volontà o l’intelletto. I filosofi moderni rivendicano, egli dice, la sovranità dell’intelletto, e sostengono che l’uomo non può credere a quello che ripugna all’intelletto. Tratto dalla corrente, il giovine Tasso non crede all’incarnazione, nè all’immortalità dell’anima, e di quei suoi costumi e di queste opinioni i suoi avversarii gli fecero carico presso la Corte, quand’egli era già pentito e confesso e animato da zelo religioso. La sua religione è messa d’accordo con la sua filosofia su questo bel ragionamento, che l’intelletto non può spiegare tante cose che pure esistono, e che perciò esistono anche le verità della Fede, ancorchè l’intelletto non sia giunto a spiegarle. Indi è che ti riesce più erudito e dotto, che filosofo, e rimane segregato da tutto quel movimento intellettuale intorno alla natura e all’uomo che allora ferveva anche in Italia, abbandonandosi al suo naturale discorso timidamente, e non senza aggiungere, che se cosa gli vien detta non pia e non cattolica, sia per non detta. Odia a morte i luterani, ha in sospetto i filosofi moderni, e cerca un rifugio negli antichi, massime in Platone, più affine alla sua natura contemplativa e religiosa. De’ suoi dubbii, delle sue ansietà, della sua vita intellettuale interiore non è rimasto un pensiero, non un grido. Ci è qui l’anima di Pascal o di sant’Agostino, cristallizzata in quell’atmosfera inquisitoriale nelle forme classiche e negli studi platonici. Uno dei suoi più interessanti dialoghi è quello che prende il nome del Minturno, scrittore napolitano, che fra l’altro diè fuori una poetica. Ivi il poeta investiga la natura del bello, confutando tutte le definizioni volgari, e conchiude che il bello è la natura angelica, ovvero l’anima in quanto si purga, che è appunto il concetto della sua Gerusalemme. Evidentemente, confonde il bello col vero e colla perfezione morale, intravede l’ideale, e non lo coglie, e si discosta dalla poesia, quanto più si accosta a quel concetto, come nella Conquistata e nelle Sette giornate. Il dialogo è platonico nel concetto e nell’andamento, ma vi desideri la grazia e la freschezza di quel Divino.
Il secolo comincia con l’Arcadia del Sannazzaro, e finisce con l’Arcadia del Guarini, detta il Pastor fido. L’idillio, attraversato nel suo cammino dalla moda cavalleresca, ripiglia forza e resta padrone del campo, sviluppandosi a forma drammatica.
L’idillico e il comico erano generi viventi insieme col romanzesco, e rappresentavano quella parte di vita poetica rimasta all’Italia. Il tragico e l’eroico erano pura imitazione. Perciò il comico e l’idillico si sprigionano in parte dalle forme classiche e prendono un aspetto più franco.
Il comico sviluppato in una moltitudine di novelle e di commedie lasciava quel fondo convenzionale di Plauto e Terenzio, e produceva caratteri freschi e vivi, e per piacere si accostava alle forme della vita popolare e anche a quel linguaggio, ora mescolando con l’italiano il dialetto, ora scrivendo tutto in dialetto. Le farse napolitane accennavano già a questo genere. Ne scrisse anche di simili Beolco, o il Ruzzante, detto il famosissimo. Gli attori cominciarono a contentarsi del canavaccio o del semplice ordito, come si fa nei balli teatrali, e improvvisavano il linguaggio, a quel modo che facevano gli antichi novellieri. Compagnie di rapsodi o improvvisatori si sparsero in Italia, e anche più tardi a Parigi e a Londra, traendosi appresso un repertorio, dove attinsero molti soggetti e pensieri e situazioni drammatiche Shakespeare e Molière. Come ci era un fondo comune d’invenzione, così ci erano caratteri fissi e determinati, che comparivano in maschera, e alcuni anche senza, come Pantalone, Brighella, Arlecchino, Pulcinella, il dottore Bolognese, il capitan Spavento, o il capitano Matamoros, il servo sciocco, come Trappola, e simili. Rappresentazioni, che ricordavano le Atellane dell’antica Roma, e si chiamavano commedie a soggetto, dove non ci era altro di espresso che il soggetto. Gli attori erano anche autori, e spesso rappresentavano prima una commedia erudita, e poi per far piacere al pubblico improvvisavano una commedia a soggetto, o dell’arte. Intrighi amorosi, combinazioni straordinarie della vita e certe parti episodiche convenute, certi caratteri tradizionali, come lo sciocco, il buffo, il discolo, il pedante, la mezzana, l’usurajo, sono il fondo di questi repertorii popolari, a’ quali si avvicinano molto le commedie dell’Aretino. Ivi si trovano i secreti della vita e del carattere italiano assai più che in tutte le imitazioni classiche. Una storia della commedia e della novella in tutte le sue forme sarebbe un lavoro assai istruttivo, e se ne caverebbero elementi preziosi per la storia della società italiana. Un ricco repertorio di soggetti sceneggiati ci ha lasciato nelle sue cinquanta giornate Flaminio Scala, autore e attore così famoso, come il famosissimo Ruzzante, e Andrea Calmo, stupore e miracolo delle scene. Flaminio rappresentava la parte dell’innamorato, e fu il capo di quella compagnia comica, che aprì il primo teatro italiano a Parigi, nel 1527, sotto Enrico III. Celebre attrice fu sua moglie Orsola, e più celebre fu Isabella di Padova, sposata a Francesco Andreini, che rappresentava la parte del capitan Spavento. Isabella, celebrata dal Tasso, dal Castelvetro, dal Campeggi, dal Chiabrera, morì a Lione, e nella scritta posta al suo sepolcro è detta Musis amica et artis scaenicae caput. Pari a lei di fama e di genio e di virtù fu Vincenza Armani, di Venezia, scrittrice e attrice, che ne’ drammi pastorali rappresentava la parte di Clori. La parte del Dottore fu resa celebre dal Graziano, e Arlecchino ebbe il suo grande interprete in Giovanni Ganassa, da Bergamo, che nel 1570 introdusse nella Spagna la commedia dell’arte come Flaminio aveva fatto a Parigi e a Londra. Il Roscio del secolo fu il Verato, di Ferrara, celebrato dal Tasso e dal Guarini, che intitolò dal suo nome un’apologia del suo dramma. La commedia dell’arte non era altro se non la stessa commedia erudita tolta di mano agli accademici e rinfrescata nella vita popolare, maneggiata da scrittori meno dotti, ma più pratici del teatro e più intelligenti del gusto pubblico, perciò più svelta e vivace nel suo andamento, e rallegrata da quello spirito che viene dall’improvviso e dall’uso del dialetto, non senza cadere a sua volta nel vizio opposto alla pedanteria, ne’ lazzi sconci degli arlecchini. Di essa non sono rimasti che gli scheletri; tutto ciò che vi aggiungeva l’immaginazione improvvisatrice vive solo nell’ammirazione de’ contemporanei.
Accanto al comico e al romanzesco si sviluppava il sentimento idillico, con tanto più forza quanto la società era più artificiata e raffinata. L’idillio si presentava come contrasto tra l’onore e l’amore, tra la città e la villa, tra le leggi sociali e le leggi della natura. Naturalmente è l’amore o la natura che vince. La felicità posta nell’età dell’oro, cioè a dire fuori de’ travagli e delle agitazioni della vita reale, nel riposo o tranquillità dell’anima, la vita rustica con quelle bellezze della natura, con quella vita di godimenti semplici, con quella spontaneità e ingenuità di sentimenti, era quel naturale contrapposto di un mondo convenzionale, che senti nell’Aminta e nel Pastore di Erminia. L’ideale poetico posto fuori della società in un mondo pastorale rivelava una vita sociale prosaica, vuota di ogni idealità. La poesia incalzata da tanta prosa si rifuggiva, come in un ultimo asilo, ne’ campi, e là gli uomini di qualche valore attingevano le loro ispirazioni; di là uscirono i versi del Poliziano, del Pontano e del Tasso. Come la commedia a soggetto era il pascolo della plebe, il dramma pastorale era il grato trattenimento delle corti, che ci trovavano un linguaggio più castigato e predicatore di virtù fuori di ogni applicazione alla vita pratica. Perciò, come la commedia divenne sempre più licenziosa e plebea, il dramma pastorale prese aria cortigiana, e quel mondo semplice della natura si manifestò con una raffinatezza degna delle nobili principesse spettatrici. Questo carattere già visibile nell’Aminta diviene spiccatissimo nel Pastor Fido. Giambattista Guarini fu poeta di occasione e cortigiano di natura, dove il Tasso fu tutto l’opposto, cortigiano per bisogno e per istinto poeta. Il Guarini era nobile e ricco, e non lo strinse alla vita di corte che la sua natura irrequieta e ambiziosa. Passò il tempo errando di corte in corte, e dopo i disinganni correva dietro a nuovi inganni. Aveva molto ingegno, non comune coltura, assai pratica della vita e degli uomini; mente chiarissima, grande attività. Compagno negli studii col Tasso a Padova, fu a Ferrara suo emulo, e quando il Tasso capitò in prigione, prese il suo posto e fu battezzato poeta di corte. Disgustato a sua volta degli Estensi, si ritirò in una sua bellissima villa, e vi concepì e vi scrisse il Pastor Fido, acclamato da tutta Italia. Anche lui ebbe le sue intenzioni critiche. Volle fare una tragicommedia, mescolanza di elementi tragici e comici in un ordito largo e ricco dove fossero innestate più azioni. Questo parve eresia a’ critici, tenaci al simplex et unum, e che non concepivano l’arte se non come un ideale tragico o comico. Si ravvivarono adunque quelle polemiche letterarie, che dal Castelvetro e dal Caro in qua mettevano in moto tante accademie. Il Guarini si difese assai bene nell’apologia, e mostrò coscienza chiarissima della sua opera. Forse il teatro spagnuolo non fu senza influenza sulla sua critica, ma come tutto si diffiniva con l’autorità de’ classici, difese quell’innesto di azioni e quella mescolanza di caratteri con Aristotile alla mano e con l’Andria di Terenzio. Oggi gli si fa gloria di quello che allora si reputava peccato. Si dice ch’egli abbia intraveduto il dramma moderno, e non solo lo intravide, ma lo concepì con l’esattezza di un critico odierno. La poesia dee rappresentare la vita così com’è, con le sue mescolanze e i suoi sviluppi; questo è il concetto ch’esce chiaramente dal suo discorso. Ma quello che in Shakespeare e in Calderon è sentimento dell’arte sviluppato naturalmente in una vita nazionale, ricca e piena, in lui è visione intellettuale e solitaria, è concetto di critico, non sentimento di artista; concepiva il dramma quando del dramma mancavano tutte le condizioni in Italia, principalmente una vita seria e sostanziale. La sua critica fa onore all’intelletto italiano, allora nel fiore del suo sviluppo, e rivela insieme la decadenza della facoltà poetica.
Il Pastor fido, come meccanismo ed esecuzione tecnica, è ciò che di più perfetto offriva la poesia. Due azioni entranti naturalmente l’una nell’altra e magnificamente innestate, caratteri ben trovati e ben disegnati e perfettamente fusi nella loro mescolanza, una superficie levigata con l’ultima eleganza, una versificazione facile, chiara e musicale fanno di questo poemetto, per ciò che si attiene a costruttura e ad abilità tecnica, un giojello. Tutto ciò che chiarezza d’intelletto e industria di stile e di verso può dare, è qui dentro. Il concetto, come nell’ Aminta, è il trionfo della Natura, con la quale il Destino in lotta apparente si riconcilia da ultimo mediante le solite agnizioni. Il poema è un’apoteosi della vita pastorale e dell’età dell’oro, contrapposto alla corruzione e alle agitazioni della città, e invocata spesso da’ personaggi con senso d’invidia nella stretta delle loro passioni. Abbondano invocazioni, preghiere, sentenze morali e religiose; ma il fondo è sostanzialmente pagano e profano, è il naturalismo, la natura scomunicata e condannata come peccato, che qui, dopo lunga lotta, si scopre non essere altro che la stessa legge del destino. La conclusione è: Omnia vincit Amor, riconciliato col destino e divenuto virtù, con tanto più sapore, con quanto più dolore:
Quello è vero gioire,
Che nasce da virtù dopo il soffrire.
Ma la virtù è nome, e la cosa è il godimento amoroso sotto forme così voluttuose, che il Bellarmino ebbe a dire aver fatto più male con quel suo libro il Guarini, che non i luterani. Dal concetto nasce tutto l’intrigo. Corisca e il satiro sono l’elemento comico e plebeo: l’una è la donna corrotta della città, tornata a’ campi e divenuta il mal genio di questa favola, l’altro è l’ignoranza e la grossolanità della vita naturale ne’ suoi cattivi istinti, e tutti e due sono la macchina poetica, l’istrumento che annoda gli avvenimenti e produce la catastrofe. I protagonisti sono Mirtillo e Amarilli, che si amano senza speranza, essendo Amarilli fidanzata a Silvio, il quale, come la Silvia dell’Aminta, è dedito alla caccia, ed ha il core chiuso all’amore, invano amato da Dorinda, invano fidanzato ad Amarilli. Mirtillo ed Amarilli per inganno di Corisca e per la bestialità del satiro sono dannati a morte, mentre Silvio per errore ferisce Dorinda travestita e scambiata per lupo. All’ultimo Silvio s’intenerisce e sposa Dorinda, e Mirtillo, scopertosi esser egli il vero Silvio, figlio di Montano, che dovea essere fidanzato ad Amarilli, la sposa. Così la Natura posta d’accordo co’ responsi dell’oracolo trionfa, e tutti contenti, la Natura e il Destino, gli Dei e gli uomini. Certo, qui ci sono tutti gli elementi di un dramma, e dramma lo chiamano i critici per l’innesto delle azioni, per la mescolanza de’ caratteri, e per la parte data al Destino secondo la tragedia greca: cose non lodevoli e non biasimevoli, che possono essere e non essere in un dramma. Il valore di una poesia bisogna cercarlo non in queste condizioni esterne del suo contenuto, ma nella sua forma, cioè nella sua vita intima. Il Pastor Fido è così poco un dramma, come l’Aminta, ancorchè ne abbia maggiore apparenza nel suo meccanismo. Ma la sua vita organica è quella medesima dell’Aminta, suo specchio e sua reminiscenza, e tutti e due sono poemi lirici, narrazioni, descrizioni, canti, non rappresentazione. Le situazioni drammatiche si sviluppano fuori della scena, e non te ne giunge sul teatro che l’eco lirica. Vedi sfilare i personaggi l’uno appresso l’altro, e non è ragione che venga l’uno prima, e l’altro poi, e ci narrano i loro guai, parlano, non operano. Indi monologhi e narrazioni interminabili. Hanno operato o vogliono operare, e ci raccontano quello che hanno fatto o son disposti a fare, aggiungendovi le loro riflessioni e impressioni. L’azione è un’occasione all’effusione lirica. Abbondano i Cori, ma ciascun personaggio fa eso medesimo ufficio di coro, perchè non opera, ma discorre, riflette, effonde i suoi dolori e le sue gioie. Non manca al Guarini un ingegno drammatico, e lo mostra nella scena tra il Satiro e Corisca, o tra Silvio e Dorinda, o dove Dorinda ferita s’incontra con Silvio. Ciò che gli manca, è la serietà di un mondo drammatico, non essendo questo suo mondo che un prodotto artificiale e meccanico di combinazioni intellettuali. Manca a lui e manca all’Italia un mondo epico e drammatico, e perciò non ci è epica, e non ci è dramma. Quel suo mondo dell’Arcadia era per lui cosa così poco seria, come il mondo cavalleresco era all’Ariosto, salvo che l’Ariosto se ne ride, e lui lo prende sul serio, a quel modo che il Tasso. Cosa n’esce? Sotto pretensioni drammatiche esce un mondo lirico, come di sotto alle pretensioni eroiche del Tasso usciva un poema lirico. Il secolo era vuoto di passione e di azione, e vuoto di coscienza, nè il concilio trentino potè dargliene altro che l’apparenza ipocrita. Questo è un secolo di apparenza, scrive il Guarini, e si va in maschera tutto l’anno. Ma egli pure andava in maschera, e fu col secolo, non fuori e non sopra di esso. Rimaneva l’idolatria della letteratura, considerata come un bel discorso nella eleganza delle sue forme, condimento di una vita molle tra le feste e le pompe e gli ozii idillici delle Corti. E questa è la vita che ti dà il Guarini, bei discorsi lirici e musicali, per entro ai quali spira un’aria molle e voluttuosa. Questa è la vita intima del Pastor Fido, come dell’Aminta, e se vogliamo gustarlo, lasciamo lì il dramma co’ suoi innesti, le sue mescolanze e il suo Destino, e mettiamoci a questo punto di vista.
Manca al Guarini l’ispirazione, la malinconia, la concentrazione fantastica, il profondo sentimento del Tasso, e come poeta, gli è di gran lunga inferiore. Parla sempre di amore, ma non lo sente. E non sente la vita pastorale, quella inclinazione alla solitudine e alla pace idillica, lui che ambizione e cupidigia tenea distratto tra le più prosaiche occupazioni della vita. La virtù, la religione, il Destino, tutto ciò che la vita ha di più elevato, è nella sua mente, non è nella sua coscienza. O per dir meglio coscienza non ha, quel focolare interno, dove convivono e si raffinano tutte le potenze dell’anima, condizionandosi a vicenda, dove si genera il filosofo, il poeta, l’uomo di stato, il gran cittadino, centro di vita, da cui solo esce la vita. E perchè questo centro di vita gli manca, il Guarini ha immaginazione, e non ha fantasia, ha spirito e non ha sentimento, ha orecchio musicale, e non ha l’armonia che nell’anima si sente. Lo diresti un gran poeta in potenza, a cui sia fallita la formazione per la distrazione delle forze interiori. Perciò non ha la produzione geniale del poeta, ma la mirabile costruzione di un artista consumato: della quale si può dire quello che il Coro dice della chioma finta di Corisca, che gli è un cadavere d’oro. Splende e non scalda, lusinga l’orecchio e i sensi, e non lascia alcun vestigio nell’anima; tutti quei personaggi vestiti di oro e di porpora sono morti con esso Mirtillo e Amarilli. Ma quali splendori! qual maraviglia di costruzione! Fra tanti costruttori il primo posto tocca al Guarini, a cui stanno prossimi il Caro e il Monti. La sua ricca immaginazione si spande al di fuori come iride nella pompa de’ suoi più smaglianti colori; il suo spirito chiaro e acuto profonde con brio e facilità i concetti più ingegnosi, più delicati e più fini; il suo verso ti sembra nato insieme con que’ colori e con quei concetti: così è duttile, molle, vezzoso ed elegante. Se ci è lì dentro un sentimento, è una sensualità raffinata, la poesia della libidine. È lo stesso mondo del Tasso con le stesse qualità, esagerate dall’emulo, che pretendea di far meglio: un mondo plasmato nelle Corti e ritratto della coltura. Quel mondo che nel Tasso apparisce malinconico e contraddittorio tra gli strazii e le confuse aspirazioni della transizione, eccolo qui sfacciato e a bandiera spiegata. È il naturalismo del Boccaccio nella sua ultima forma, purgato e castigato, involto in apparenze morali e religiose, un naturalismo con licenza de’ superiori, o in maschera, come direbbe il Guarini. Non basta la licenza; il nudo disgusta e non alletta; la sensualità intorpidita ha bisogno degli stimoli dell’immaginazione e dello spirito. Il cavallo di battaglia per i poeti platonici erano gli occhi; qui è il bacio. Già il Tasso avea fatto qualche allusione al giogo del bacio. Il Guarini ne fa una pittura voluttuosissima, e il bacio preso per furto diviene il luogo comune dell’Arcadia. Quanti raffinamenti sul bacio! Odasi il Guarini:
... quello è morto bacio a cui
La baciata beltà bacio non rende.
Ma i colpi di due labbra innamorate,
Quando a ferir si va bocca con bocca,
Son veri baci, ove con giuste voglie
Tanto si dona altrui, quanto si toglie.
Baci pur bocca curiosa e scaltra
O seno, o fronte, o mano; unqua non fia
Che parti alcuna in bella donna baci,
Che beatrice sia,
Se non la bocca, ove l’un’alma e l’altra
Corre e si bacia anch’ella, e con vivaci
Spiriti pellegrini
Dà vita al bel tesoro
De’ bacianti rubini:
Sicchè parlan tra loro
Quegli animati e spiritosi baci,
Gran cose in picciol suono.
Tal gioia amando prova, anzi tal vita
Alma con alma unita:
E son come d’amor baci baciati
Gl’incontri di due cori amanti amati.
Bocca baciata a forza,
se il bacio sputa, ogni vergogna ammorza.
La soverchia facilità rompe ogni misura. Ciascuna situazione diviene un tema astratto, sul quale l’immaginazione intesse i più preziosi ricami. I discorsi, dialoghi o monologhi, sono vere canzoni, dove riccamente è sviluppato qualche sentimento, divenuto un’astrazione dello spirito. La canzone spesso si sveste la maestà e solennità petrarchesca, e divenuta elegiaca e idillica anche nella sua esteriorità, ti si presenta innanzi spezzata in sè, intramessa di versetti e di rime, in brevi periodetti, tutta vezzi e languori e melodie, assai vicina al madrigale concettoso e galante, dove il Guarini era maestro. Bellissimo esempio sono le canzonette, che cantano le Ninfe intorno ad Amarilli nel giuoco della cieca.
Il secolo si chiude sotto le più belle apparenze di progresso letterario. La sua vita interna è il naturalismo in viva opposizione con l’asceticismo. Vi si sviluppa l’idillico, il comico, il romanzesco, portandosi appresso come parti morte il petrarchismo e il classicismo. Questa vita nuova s’inizia nel Boccaccio, ritratto sintetico del secolo, dove commedia, idillio e romanzo fanno la loro prima comparsa. L’idillio, tranquillo riposo dell’anima nel seno della natura, ideale di felicità contrapposto all’inquieto ideale ascetico, attinge la sua perfezione estetica nelle Stanze, e fa sentire i suoi susurri tra le fantasie ariostesche. L’idillio è il sentimento della natura vivente e delle belle forme, che si scioglie dal soprannaturale; è un naturalismo, non è ancora umanissimo, e accosta l’arte alla natura, e nella maggior finitezza del disegno, de’ contorni e delle figure raggiunge l’idealità della bella forma, e produce i miracoli dell’arte e della poesia italiana. Il comico ha già nel Boccaccio il suo grande poeta. È il riso della nuova generazione, che fa la parodia del passato ne’ suoi diversi aspetti, religioso, etico, dottrinale, in novelle, capitoli e commedie: onde si sviluppa una ricca letteratura, buffonesca, ironica, licenziosa, umoristica. E come il comico non chiude in sè alcuna affermazione, anzi viene da indifferenza e da scetticismo, ha tutt’i segni di una dissoluzione morale, di cui la più sfacciata espressione sono le commedie dell’Aretino, e riesce in ultimo superficiale e frivolo. L’immaginazione in quella insipidezza della vita interiore, in quella poca serietà della vita esteriore si gitta al romanzesco, e vi si trastulla colla coscienza superiore di un intelletto adulto, con la coscienza che gli è un gioco e un passatempo; situazione che attinge la sua bellezza artistica nel mondo armonico dell’Ariosto, e si scioglie nell’umorismo del Folengo. E quando, giunta la licenza al suo ultimo segno ne’ costumi e nello scrivere, vi si volle porre un rimedio, e sopravvenne la reazione ascetica e platonica, quando si volle imporre alla coscienza italiana un’affermazione, e alla letteratura un ideale, risorse l’idillio, l’ideale del naturalismo, e fu la sola forza viva fra tanti ideali religiosi, morali, platonici, con visibile contrasto tra i concetti platonici e religiosi, e la sensualità dell’idillio. La letteratura prende un’apparenza religiosa e morale, epica e tragica; e la pompa delle sentenze, il lusso de’ colori, la grandiloquenza rettorica, la finezza de’ concetti rivelano la poca serietà di quelle tendenze. Sotto a quelle apparenze vive ne’ più seducenti colori un mondo lirico idillico; il naturalismo condannato nelle parole è la vera vita organica, che vien fuori in una forma di apparenze meno licenziose, ma più raffinata e voluttuosa. Il sentimento di questa transizione nelle sue contradizioni e nella sua sincerità si riflette nella nobile anima del Tasso, e ne cava suoni malinconici, elegiaci, voluttuosi, musicali, che sono l’ultimo raggio della poesia. Quel mondo idillico fra tanta pompa di sentenze morali e d’intenzioni platoniche si afferma nella sua nudità presso il Guarini, e diviene il motivo della nuova generazione poetica. Il seicento non è una premessa, è una conseguenza.
La letteratura italiana era allora così popolare in Europa, come prima fu la provenzale, e poi la francese. In verità, quanto alla parte tecnica, giungeva allora all’ultima perfezione. I più mediocri scrivono con piena osservanza delle regole grammaticali, con un nesso logico più severo, e con un fare più spedito. Si vede una letteratura già formata, quando le altre erano allora in uno stato di formazione. Critici, retori, grammatici, professori, accademici pullulavano dappertutto, fra una turba di poeti e di prosatori in tutt’i generi. L’Italia del seicento non solo non ha coscienza della sua decadenza, ma si tiene ed è tenuta principe della coltura letteraria. Nessuno le contende il primato, e le altre nazioni cercano ne’ suoi novellieri, ne’ suoi epici, ne’ suoi comici le loro invenzioni e le loro forme.
Dicono che nel seicento si sviluppò una rivoluzione letteraria, e che tutti cercavano novità. Il che prova appunto che la letteratura avea già presa la sua forma fissa, e compiuto il suo circolo. Le novità non si cercano, ma si offrono, quando la letteratura comincia a svilupparsi: allora tutto è fresco, tutto è nuovo. Cercavano novità, perchè si sentivano innanzi ad una letteratura esaurita nel suo repertorio e nelle sue forme, divenuta tradizionale, meccanica, e già materia comica nella Secchia rapita e nello Scherno degli Dei, poemi comici comparsi al principio del secolo, dove sono volte in ridicolo le forme mitologiche ed epiche. Ma è comico vuoto e negativo, perchè gli manca il rilievo nel contrasto di altre forme, e nulla di positivo è nello spirito de’ due autori, il Tassoni e il Bracciolini. Nel loro spirito quelle forme son morte, e perciò ridicole, ma invano cerchi, quali altre forme vivessero nel loro secolo e nella loro coscienza; ond’è che quel comico cade nel vuoto e rimane insipido. Al contrario il don Chisciotte è opera di eterna freschezza, perchè ivi lo spirito cavalleresco si dissolve nella immagine di una nuova società, che gli sta dirimpetto, e con la sua presenza lo rende comico. Il Tassoni volge in ridicolo anche le forme liriche petrarchesche e censura non solo il petrarchismo, ma esso il Petrarca. Parla in nome della semplicità, del buon senso, e del verisimile: gli ripugna tutto ciò che è raffinato e concettoso. Critica caduta nel vuoto, perchè quella semplicità di vita, quel sentimento del reale non era nel secolo; e nella sua coscienza era un’astrazione dell’intelletto; un buon gusto naturale, privo di un mondo plastico, in cui si potesse esplicare. Perciò tutti quelli che scrivono con semplicità e naturalezza, malgrado certe vivezze e certe grazie di stile, riescono insipidi, come il Tassoni e più tardi il Redi. Mancava loro la vita interiore, e l’esteriorità, in mezzo a cui stavano, era affatto insipida, quando non era pretensiosa. Del Tassoni sopravvive il ritratto del conte di Culagna.
Filosofo, poeta e bacchettone,
Che era fuor de’ perigli un Sacripante,
Ma ne’ perigli un pezzo di polmone.
Dico il ritratto, perchè nella rappresentazione è così sbiadito e insipido, come gli altri personaggi. Del Redi è rimasto il Bacco in Toscana, che ricorda le baccanti dell’Orfeo, e per brio e calore d’immaginazione, per naturalezza di movenze, per artificio di verso è di piacevole lettura.
Non solo la letteratura nelle sue forme e nel suo contenuto, ma è anche esaurita la vita religiosa, morale e politica, quantunque ce ne fosse una seria apparenza comandata e servile, via alla fortuna. La storia ha condannato a un giusto obblio le opere servili, frondose e adulatorie, e serba grata memoria di quelle, dove spira alcuna libertà di pensiero, perchè, quando anche non possa ammirare lo scrittore, trova degno d’ammirazione l’uomo. Certo all’uomo è inferiore lo scrittore, perchè la sua critica è negativa, e non move dalla chiara coscienza di una nuova società, ma da un semplice sentimento di resistenza e di opposizione. Anche nel cinquecento la critica è negativa, ma è negazione universale, col consenso e fra le risa di tutti, non è il pensiero solitario dell’artista. Questo spiega il Berni, spiega la Mandragola, le satire dell’Ariosto, le commedie dell’Aretino, i poemi cavallereschi ironici e umoristici. La scienza può esser solitaria; l’arte dee avere a sua materia un mondo plastico e vivente, di cui è la voce. In quel secolo la negazione era libera, ammessa, desiderata, applaudita, ci era comunione simpatica fra l’autore e i lettori; e ci era pure in fondo a quella negazione la coscienza di un mondo nuovo, di un rinnovamento o risorgimento, di un mondo dell’arte e della natura, che succedeva alla barbarie del medio evo. Anche nel trecento Dante avea con sè il secolo, e lo fuse in tutte le sue direzioni in un mondo plastico, che era appunto il mondo del medio evo, l’altro mondo. Ora ci è un mondo ipocrita e inquisitoriale, dove la vita religiosa e sociale fuori della coscienza è meccanizzata e immobilizzata in forme fisse e inviolabili. L’arte intisichisce, priva di un mondo libero intorno a sè. Chi vuol comprendere la differenza de’ secoli, legga i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, l’ardito commentatore di Tacito, caduto sotto il pugnale spagnuolo. Il suo Parnaso, che succede al mondo ariostesco e al dantesco, è di nessunissima serietà, e rimane una semplice occasione, una cornice, dove inquadra pensieri, stizze, frizzi, allusioni e allegorie, senz’altra unità o centro che il suo ghiribizzo. È un mondo sciolto in atomi, senza vita e coesione interna. La critica, priva di un mondo serio, in cui si possa incorporare, si svapora in sentenze, esortazioni, sermoni, prediche, declamazioni e generalità rettoriche, tanto più biliosa, quanto meno artistica. Così apparisce nelle Satire di Salvator Rosa, che pure sono salvate dall’obblio per la maschia energia di un’anima sincera e piena di vita, che incalora la sua immaginazione e gli fa trovare novità di espressioni e di forme pittoriche felicemente condensate.
Come suole avvenire, nessun secolo sonò così spesso la tromba epica, quanto questo secolo così poco eroico. Alcuni seguirono le orme del Tasso, come il Graziani nel Conquisto di Granata. Il Chiabrera scrisse il Foresto, la Gotiade, la Firenze, l’Amadeide, il Ruggiero, tutti poemi eroici, oltre ventidue poemetti profani e quattordici sacri. Il Villafranchi, lo Stigliani e altri cantarono la Scoperta dell’America, e anche il Tassoni avea preso a scrivere sullo stesso argomento il suo Oceano, quando con miglior consiglio e con più chiara coscienza delle sue attitudini si volse a fare nella Secchia rapita la parodia delle forme eroiche. Di tanti poemi epici non uno solo è rimasto. Ce n’è di tutti gli argomenti, sacri e profani, cavallereschi, eroici, mitologici, perchè erano capricci individuali, e mancava l’argomento del secolo. Novissimo e popolarissimo argomento era la scoperta dell’America, che ispirò al Tasso la più geniale delle sue concezioni, il viaggio alle Isole fortunate. Ma fu trattato col solito bagaglio classico, e il mondo nuovo apparve stanca e vieta reminiscenza di un mondo poetico già decrepito.
Il mondo eroico di quel secolo era stato fabbricato dal Concilio di Trento. Ed era una ristaurazione del mondo cattolico alle prese co’ turchi, e vincitore meno per virtù propria che per la grazia di Dio. Questo argomento di tutt’i poemi cavallereschi, sciolto nella buffoneria del Pulci e nell’ironia dell’Ariosto, purgato e nobilitato dal Tasso, era divenuto l’accento ufficiale del secolo. Il poeta di questa restaurazione fu Gabriello Chiabrera, che compiuti i suoi studi a Roma, educato da’ gesuiti, guidato da Speron Speroni, ritiratosi nella nativa Savona pieno il capo di testi greci e latini e d’arti poetiche, verseggiò instancabilmente, sino alla tarda età di ottantasei anni, fra le ammirazioni de’ principi e de’ letterati. In tre volumi di liriche non ti è facile incontrare un pensiero o una immagine che ti arresti, e avendo a mano argomenti nobilissimi o affettuosissimi, niente è che ti mova o t’innalzi. Non ci è quasi avvenimento di qualche importanza che non sia da lui celebrato, come le vittorie su’ pirati delle galee toscane, la battaglia di Lepanto, le fazioni de’ veneziani in Grecia. Lodi di principi abbondano, ma non mancano lodi di grandi capitani, e soprattutto di Santi, come di Pietro, Paolo, Cecilia, Maria Maddalena, Stefano, Agata, e simili, a cominciare dalla Vergine. Vi s’inframmettono satire di eretici, come Lutero, Calvino e Beza, che sono vere invettive personali. Naturalmente non mancano anche gli amori, temi astratti, ne’ quali spuntano già le Filli, le Amarilli e le Cloe che più tardi invasero l’Arcadia. Che più? Quando manca l’argomento vivo e presente, si esercita, come i collegiali, sopra generalità astratte, come il verno, le stelle, Muzio Scevola, il ratto di Proserpina, il Diluvio, Golia, Giuditta e simili. Canzoni e canzonette, ditirambi ed epitaffi, sonetti e poemi, trovi qui ogni varietà di forme, come ogni varietà di contenuto. Ora fa l’eroe, ora fa il cascante, e suona con la stessa facilità la tromba, la cetra, la lira e la sampogna, ora scimieggiando Pindaro, ora Anacreonte. Le feste principesche gli forniscono materia di favole boscherecce e di drammi musicali. Ma tutto è a uno stampo, e tratta di argomenti commoventissimi e presenti con la stessa indifferenza che scrive di Proserpina o di Chirone. In luogo di chiudersi nel suo argomento e cercarne le latebre, divaga in fatti mitologici, o in generalità rettoriche, e riesce vuoto e freddo. Dee far le lodi di S. Francesco? Ed eccoti una tirata sulla fame dell’oro. Gli manca ogni talento pittorico, ogni movimento di affetto, o d’immaginazione, e non ha alcuna esaltazione o entusiasmo lirico. C’è più poesia nelle vite del Cavalca, che in queste sue insipide Maddalene, Lucie, Cecilie, Stefani e Sebastiani. Dante in pochi tratti ti fissa nella memoria santo Stefano assai meglio che non fa in sette strofe il Chiabrera, errante tra reminiscenze sacre e profane, e affatto incapace di cogliere l’individuo nella sua personalità. In qualche strofa di fra Jacopone senti la Vergine; ma non la trovi nelle cento strofe che le sono qui consacrate. Il martirio di san Sebastiano è materia pietosissima. In mano al Chiabrera diviene ampollosa e fredda rettorica. Dove non è insipido, riesce pretensioso, come quando, esortando le Muse a cantare il Santo trafitto, dice:
Tendete, Arciere d’ammirabil canto,
Musici dardi al saettato Santo.
Se guardi alla materia, ci è qui tutto il mondo eroico, morale e religioso del cristianesimo, ma non ce n’è lo spirito, nè poteva infonderlo co’ suoi decreti il Concilio di Trento. La letteratura religiosa è una moda anzi che un sentimento; lo spirito vi rimane estraneo, e si conserva classico e letterario quanto alle forme, nell’indifferenza del contenuto. Che cosa move davvero o interessa il Chiabrera? Nulla, perchè nella sua coscienza nulla ci è, non fede, non moralità, non patria, e non amore, e non arte, ancorchè di tutto questo tratti. Certo, il Chiabrera è un bravissimo uomo, sinceramente pio e onesto, natura soave e tranquilla. Ma perchè un contenuto sia poetico, non basta sia nell’animo come un mondo abituale e tradizionale, a quel modo che era nel Chiabrera: dee essere passione, che stimoli l’immaginazione e svegli la meditazione. Una passione l’ha il Chiabrera, e non è pel contenuto, a lui indifferente, quale esso sia, ma per le forme. Dico forme, e non forma, perchè a lui manca pure quel senso della bellezza e della forma, che fa grandi i nostri artisti del cinquecento. Perciò gli fa difetto ogni qualità di poeta e di artista, la fede del contenuto e il senso della forma. Ha pure in grado mediocrissimo quel senso musicale, che natura concede così facilmente a italiani, sgraziato nell’intreccio delle rime e nella combinazione de’ suoni e talora dà in dissonanze e stonature. La sua idea fissa è di trovare, come Colombo, un mondo nuovo, e parve ai contemporanei ci fosse riuscito, sì che Urbano scrisse sulla sua tomba: novos orbes poeticos invenit. Mondi nuovi poetici ci erano allora, ed erano i mondi che creavano Camoens, Cervantes, Montaigne, Shakespeare e Milton. Ma in Italia, mancata ogni vita interiore, la novità era nelle forme, ed esausto il mondo latino, il Chiabrera si mise a cercar novità nel mondo greco: thebanos modos fidibus Hetruscis adaptare primus docuit, dice Urbano. I quali modi tebani sono le strofe, l’antistrofe e l’epodo, accozzamenti di parole fuor dell’usato, costruzioni artificiali, una certa moralità astratta e volgare, una sobrietà e semplicità di colori. Forme meccaniche, le quali non vengono da virtù interiore, ma sono pura imitazione. Anzi niente è più lontano dallo spirito del Chiabrera che la bellezza greca, quel candore, quella grazia, e quella semplicità; e spesso la sua semplicità è aridità, il suo candore è volgarità, e la sua grazia è cascaggine; affettato e pretensioso in quei modi e in quelle forme che presso i greci sono vezzi natii, veggasi il suo Ditirambo. Del resto, più che nell’eroico, riesce nel grazioso, e se oggi alcuna cosa si legge pure di lui, sono alcune sue canzonette. Ma chi ricordi l’Aminta, giudicherà queste canzonette assai povera cosa. Anche il Gravina studiò alla greca semplicità, come medicina al secolo tronfio e manierato; e sforzandosi di esser semplice, riuscì insipido e volgare. Gli è che l’imitazione greca, dopo tanto latineggiare, era il naturale sviluppo di un fatto puramente letterario e meccanico, non animato da alcuna vita interiore di poeta o di secolo.
Un altro poeta eroico fu il senatore Vincenzo Filicaia, di cui rimangono le canzoni per la liberazione di Vienna. Prende volentieri accento di profeta, e si dà tutta l’apparenza di un sacro furore. Sembra non parli, ma canti, anzi urli, col pugno teso, gli occhi stralunati, gli atti convulsi. Ammassa esclamazioni, interrogazioni, ripetizioni, con un grande rimbombo di suoni e di frasi. Pomposa rettorica, nella quale si scopre la simulazione della vita. Non è in lui alcun sentimento del reale, ma un calore d’immaginazione, un orecchio musicale, ed una non mediocre abilità nella fattura del verso, che gli assegna un posto tra’ poeti di second’ordine.
Il Chiabrera e il Filicaia furono anche poeti nazionali. L’uno lamenta la vita molle de’ guerrieri italiani, o, com’egli dice, la leggiadria dell’italica gente:
E dove
Calzar potrassi una gentil scarpetta,
Un calcagnetto sì polito?
Lungo fora a narrar come son gai
Per trapunto i calzoni, e come ornate
Per entro la casacca in varie guise
Serpeggiando sen van bottonature.
Splendono soppannati i ferraiuoli
Bizzarramente; e sulla coscia manca
Tutti d’argento arabescati e d’oro
Ridono gli elsi della bella spada.
O fossi tu men bella, o almen più forte!
Ma l’Italia era per loro un sentimento così superficiale, come la religione, un tema a sonetti, e canzoni, come le Vendemmie, o le lodi di Cristina. Quando il Filicaia domanda all’Italia, dov’è il suo braccio, e perchè si serve dell’altrui, e ricorda che gli stranieri sono tutti nemici nostri, e furono nostri servi, senti ch’è a mille miglia lontano dalla realtà, che vagheggia un’Italia di tradizione e di reminiscenza, di cui non è più vestigio neppure nella sua coscienza, ch’egli medesimo non prende sul serio le sue maraviglie e i suoi furori, e che le sue parole sono ebollizioni e ciance rettoriche. I contemporanei erano pure fatti così; e ammiravano quel bel sonetto tirato giù con un solo impeto tra mille splendori di una calda immaginazione, come ammiravano una bella predica, salvo a far tutto il contrario di quello che diceva il vangelo e il predicatore.
Questa è la vita morale, religiosa e nazionale italiana a quel tempo: un mondo tradizionale tornato in moda, favorito dagl’interessi, mantenuto nelle sue apparenze, rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato, non ventilato e rinnovato, non contrastato e non difeso, non realtà e non idealità, cioè a dire non praticato nella vita, e non scopo o tendenza della vita. Il tarlo della società era l’ozio dello spirito, un’assoluta indifferenza sotto quelle forme abituali religiose ed etiche, le quali, appunto perchè mere forme o apparenze, erano pompose e teatrali. La passività dello spirito, naturale conseguenza di una teocrazia autoritaria, sospettosa di ogni discussione, e di una vita interiore esaurita e impaludata, teneva l’Italia estranea a tutto quel gran movimento d’idee e di cose da cui uscivano le giovani nazioni di Europa; e fin d’allora ella era tagliata fuori del mondo moderno, e più simile a museo, che a società di uomini vivi.
La letteratura era a quell’immagine, vuota d’idee e di sentimenti, un gioco di forme, una semplice esteriorità. Si frugava nel vecchio arsenale classico, si giravano e rigiravano quei pensieri e quelle forme. Il mondo greco appena libato era corso in tutte le direzioni, e dava un certo aspetto di novità alle forme letterarie. La poesia italiana nella sua lunga durata avea messo in circolazione un repertorio oramai fatto abituale e vuoto di effetto; e non ci essendo la forza di rinnovare il contenuto, tutti eran dietro ad aguzzare, assottigliare, ricamare, manierare, colorire un mondo invecchiato che non dicea più niente allo spirito. Meno il contenuto era vivo, e più le forme erano sottili, pretensiose, sonore. Nacque una vita da scena, con grande esagerazione e abbondanza di frasi, un eroismo religioso, patriottico, morale a buon mercato, perchè dietro alle parole non ci era altro. Di questo eroismo rettorico il più bel saggio è la Fortuna del Guidi, il quale trovò modo di rendere ridicola e millantatrice la Fortuna di Dante: tanto si era perduto il senso del vero e del semplice. E ne uscì quella maniera preziosa e fiorita, della quale dava già esempio l’Aretino, quando la sua mente non era abbastanza solleticata dall’argomento. Uno degl’ingegni meno guasti fu il Chiabrera; pur sentasi questo suo epitaffio a Raffaello:
Per abbellir le immagini dipinte
Alle vive imitar pose tal cura,
Che a belle far le vere sue natura
Oggi vuole imitar le costui finte.
E il prezioso non è solo ne’ concetti, ma nelle forme, cercandosi i modi più disusati in dir cose le più semplici. Ecco un esempio di queste forme preziose nella Fortuna del Guidi:
Questa è la man che fabbricò sul Gange
I regni agl’Indi, e sull’Oronte avvolse
Le regie bende dell’Assiria a’ crini;
Pose le gemme a Babilonia in fronte,
Recò sul Tigri le corone al Perso,
Espose al piè di Macedonia i troni.
Tra’ verseggiatori più preziosi e affettati è da porre il Lemene, e tra’ più civettuoli e fioriti Giovambattista Zappi. La degenerazione del genere si vede nel Frugoni, il più vuoto e il più pretensioso.
Spettacolo assai istruttivo è questo di un popolo che per parecchie generazioni spende tutta la sua attività intorno a quistioni di forme, ed erge a suo obbiettivo la parola in sè stessa, staccata da ogni contenuto. Che è divenuta Firenze, la madre di Dante, di Michelangiolo e di Machiavelli? Eccola, quale è vantata dal Filicaia:
Qui del puro natio dolce idioma
L’oro s’affina, e se non è a’ dì nostri
Spenta la gloria de’ toscani inchiostri,
Forse invidia ne avranno Atene e Roma
Qui d’ogni voce il peso, il senso, il suono
A rigoroso esame ognor si chiama,
E il reo si purga e si trasceglie il buono
Onde l’alto valor fregia e ricama
La gran maestra del parlar, che trono
Erge a sè stessa, ed a sè stessa è fama.
Firenze è la gran maestra della parola. Là è il suo trono e la sua fama. E qual maraviglia che gli uomini di qualche ingegno, trovando insipida e invecchiata la parola l’ornano, l’aguzzano, l’imbellettano, e, come dice il Filicaia, vi fanno intorno fregi e ricami? Nè ci è coscienza che con tanto liscio al di fuori, con tanta insipidezza e vacuità nel fondo, è un’ultima forma della decadenza; anzi abbondano i Pindari e gli Anacreonti, moltiplicano i poeti in tutt’i canti d’Italia, e co’ poeti le Accademie, e si tengono primi in tutta Europa, della quale ignorano la coltura.
Possiamo ora spiegarci, come l’Arcadia acquistò la importanza di un grande avvenimento, sì che per parecchie decine di anni occupò l’attenzione pubblica. Si videro uomini dottissimi e gravissimi fanciulleggiare tra quei pastori e pastorelle, e dettar le leggi dell’Accademia con una solennità, come fossero le leggi delle dodici tavole. Parea che a restaurare la poesia e il buon gusto bastasse l’osservanza di alcune regole e moltiplicarono i medici, quando il malato era morto. Gli Arcadi, rimasti proverbiali, come di gente dotta e insieme frivola, per correggere l’eroico si gettarono nel pastorale, come se trasportando la vita nei campi e tra’ pastori, trovassero quella naturalezza e semplicità che non è nella materia, ma nell’anima dello scrittore. Furono aridi, insipidi, leziosi, affettati, falsi.
Il re del secolo, il gran maestro della parola, fu il cavalier Marino, onorato, festeggiato, pensionato, tenuto principe de’ poeti antichi e moderni, e non da plebe, ma da’ più chiari uomini di quel tempo. Dicesi che fu il corruttore del suo secolo. Piuttosto è lecito di dire che il secolo corruppe lui, o, per dire con più esattezza, non ci fu corrotti, nè corruttori. Il secolo era quello, e non potea esser altro, era una conseguenza necessaria di non meno necessarie premesse. E Marino fu l’ingegno del secolo, il secolo stesso nella maggior forza e chiarezza della sua espressione. Aveva immaginazione copiosa e veloce, molta facilità di concezione, orecchio musicale, ricchezza inesauribile di modi e di forme, nessuna profondità e serietà di concetto e di sentimento, nessuna fede in un contenuto qualsiasi. Il problema per lui, come pe’ contemporanei, non era il che, ma il come. Trovava un repertorio esausto, già lisciato e profumato dal Tasso e dal Guarini, i due grandi poeti della sua giovanezza. Ed egli lisciò e profumò ancora più, adoperandovi la fecondità della sua immaginazione e la facilità della sua vena. La moda era alle idee religiose e morali, e il Murtola scriveva il Mondo creato, il Campeggi le Lagrime della Vergine, e il Marino la Strage degl’Innocenti, e le sue stesse poesie erotiche inviluppava in veli allegorici. Ma la vita era in fondo materialista, gaudente, volgare, pettegola, licenziosa; il naturalismo viveva nella sua forma più grossolana sotto a quelle pretensioni religiose. Le prime poesie del Marino furono sfacciatamente lubriche, come la prima sua giovinezza; e quando venne a età più matura, cercò non la correzione, ma la decenza esteriore, decorando i suoi furori erotici di un ammanto allegorico.
Nelle tradizioni della poesia ci è un concetto, che mette capo in Circe ed Ulisse, ed è l’imbestiamento dell’uomo per opera dell’amore, e la sua liberazione per opera della ragione. Questo concetto diviene un episodio importante in tutte le nostre poesie romanzesche ed eroiche, ed è anche la Musa che ispira Dante e il Petrarca. Angelica, Alcina, Armida sono le Circi italiane, co’ loro giardini, co’ loro palagi e castelli incantati, coi loro viaggi attraverso lo spazio. Questo è l’episodio più interessante, anzi è il concetto fondamentale della Gerusalemme liberata. L’episodio del Tasso incastrato fra elementi religiosi ed eroici diviene ora esso solo il poema, diviene l’Adone.
La storia del naturalismo poetico incomincia nella Amorosa visione, e finisce nell’Adone. I due poemi sono assai simili di concetto. L’amore, principio della generazione, è anima del mondo, è la corona della natura e dell’arte, in esso s’inizia, in esso si termina il circolo della vita. Venere e Adone è la congiunzione non solo spirituale, ma corporale del divino e dell’umano; è l’amore sensuale che investe tutta la natura, cielo e terra. Nel paradiso teologico di Dante il corpo si solve nello spirito; ma in questo paradiso mitologico lo spirito ha la sua perfezione e la sua vita nell’amore sensuale. Un senso tragico si aggiunge a questa commedia terrena. L’uomo è mortale, e i suoi piaceri sono lievi e fugaci; e la conclusione è la morte di Adone fra il compianto degl’immortali.
La base è l’amore sensuale rappresentato in tutt’i suoi gradi nel giardino del Piacere, uno di quei giardini dell’amore già celebri nelle rime del Poliziano, dell’Ariosto e del Tasso, qui diviso in cinque giardini corrispondenti a’ cinque sensi, sì che questa sola descrizione prende già buona parte del poema. Nel giardino del Tatto Adone gode gli ultimi diletti, e s’indìa, è rapito in cielo, attinge la felicità. Il cielo o il paradiso del Marino non comprende che la Luna, Mercurio e Venere, tutto l’universo d’amore. La Luna è la sede della natura, Mercurio è la sede dell’arte, e sede dell’amore è Venere. È tutto il cielo della vita, simile a’ diversi gradi dell’ Amorosa Visione. Ma l’apoteosi e il trionfo dell’amore è di breve durata, e Venere non ha il tempo di rendere immortale il suo amato. Adone muore, vittima della gelosia di Marte, e gli ultimi canti narrano la morte di Adone, il compianto di Venere e degli Dei, e le sue esequie.
È inutile dire che tutte queste combinazioni non hanno pel Marino alcun valore effettivo ed intrinseco, e che esse sono una materia qualunque arricchita di moltissime favole mitologiche, buona a sviluppare le sue forze poetiche, il solito macchinismo fantastico dell’amore nei poemi italiani. I concetti e le passioni sono insulse personificazioni, come l’amore, l’arte, la natura, la filosofia, la gelosia, la ricchezza ed altre figure allegoriche. Dico insulse, perchè a quelle personificazioni manca e la profondità del significato e la serietà della vita. È lo scheletro de’ poemi italiani, aggiuntivi anche certi episodii ingegnosi per far la corte alle famiglie principesche d’Italia e alla casa di Francia. Ma è un puro scheletro, dove non penetra per alcuno spiraglio la vita. E poichè quello solo l’interessa che vive, questo poema non c’ispira nessuno interesse. Non c’è un solo personaggio che attiri l’attenzione e lasci di sè un vestigio nella memoria; non una sola situazione drammatica o lirica di qualche valore. La vita è materializzata e allegorizzata, tutta al di fuori, nei suoi accidenti, contrasti e simiglianze esteriori; e come le simiglianze o i contrasti esterni sono infiniti, nascono rapporti capricciosi, arbitrarii tra le cose, che sono veri quanto a questa o a quella apparenza, ma ridicoli e falsi per rispetto alla totalità della vita. Abbiamo veduto in che modo la rosa è rappresentata nel Poliziano, nell’Ariosto e nel Tasso. Sono pochi particolari che lumeggiano la rosa nella sua individualità, e non alterano la sua natura. Sentite ora la rosa del Marino.
Rosa, riso d’amor, del ciel fattura,
Rosa del sangue mio fatta vermiglia,
Pregio del mondo e fregio di natura,
Della terra e del sol vergine figlia,
D’ogni ninfa e pastor delizia e cura,
Onor dell’odorifera famiglia;
Tu tien d’ogni beltà le palme prime,
Sopra il vulgo de’ fior donna sublime.
Quasi in bel trono imperatrice altera
Siedi colà su la nativa sponda;
Turba d’aure vezzose e lusinghiera
Ti corteggia d’intorno e ti feconda;
E di guardie pungenti armata schiera
Ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
Porti d’or la corona e d’ostro il manto.
Porpora de’ giardin, pompa de’ prati,
Gemma di primavera, occhio d’aprile,
Di te le grazie e gli amoretti alati
Son ghirlanda alla chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
Ape leggiadra, o zeffiro gentile,
Dài lor da bere in tazza di rubini
Rugiadosi licori e cristallini.
Non superbisca ambizïoso il sole
Di trïonfar fra le minori stelle,
Chè ancor tu fra’ ligustri e le vïole
Scopri le pompe tue superbe e belle,
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
Splendor di queste piagge, egli di quelle;
Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
Tu sole in terra ed egli rosa in cielo.
E ben saran tra voi conformi voglie,
Di te fia il sole, e tu del sole amante,
Ei delle insegne tue, delle tue spoglie
L’aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne’ crini e nelle foglie
La sua livrea dorata e fiammeggiante,
E per ritrarlo ed imitarlo appieno
Porterai sempre un piccol sole in seno.
Lungi dai fasti ambizïosi e vani,
Mi è scettro il mio baston, porpora il vello,
Ambrosia il latte, a cui le proprie mani
Servon di coppa, e nettare il ruscello,
Son ministri i bifolchi, amici i cani,
Sergente il toro e cortigian l’agnello,
Musici gli augelletti e l’aure e l’onde,
Piume l’erbette, e padiglion le fronde.
È del poeta il fin la maraviglia:
Parlo dell’eccellente e non del goffo;
Chi non sa far stupir, vada alla striglia.
La novità e la maraviglia non è nel repertorio, che è vecchissimo, un rimpasto di elementi e motivi per lungo uso divenuti ottusi; ciò che è ripulito e messo a nuovo, è lo scenario, o lo spettacolo, vecchio anch’esso, ma lustrato e inverniciato. Il qual lustro gli viene non dalla sua intima personalità più profondamente esplorata o sentita, ma da combinazioni puramente soggettive, ispirate da simiglianze o dissonanze accidentali, e perciò tendenti al paradosso e all’assurdo: di che nasce quello stupore in che il Marino pone il principale effetto della poesia. Nè queste combinazioni artificiali sono solo intorno alle cose, come giardini, campi, fiori, ma anche intorno alle persone allegoriche, come la gelosia, l’amore, e intorno agli atti, come il riso, il bacio. Il Marino confessa di avere innanzi un zibaldone dove avea scritto per ordine di materia quello che di più piccante e maraviglioso avea trovato ne’ poeti greci, latini e italiani e anche spagnuoli; e ammassa e concentra tutti quei tesori di concetti preziosi in un punto solo. Ma non è un freddo imitatore e raccoglitore. La sua immaginazione si avviva tra quelle ricchezze e diviene attiva, si fa alleata dello spirito, trasforma quelle combinazioni e quei rapporti in immagini, e le immagini hanno il loro finimento nella facile e briosa vocalità de’ suoni. Talora i concetti stessi spariscono; ma rimane sempre un’onda melodiosa, la cantilena:
Adone, Adone, o bell’Adon, tu giaci,
Nè senti i miei sospir, nè miri il pianto;
O bell’Adone, o caro Adon, tu taci,
Nè rispondi a colei che amasti tanto!
Lasciami, lascia imporporare i baci,
Anima cara, in questo sangue alquanto,
Arresta il volo, aspetta tanto almeno,
Che il mio spirto immortal ti mora in seno.
La poesia italiana in quest’ultimo momento della sua vita non è azione, e neppure narrazione, è spettacolo vocalizzato, descrizione a tendenze liriche, tra lo scoppiettio de’ concetti, il lustro delle immagini, e la sonorità delle frasi e delle cadenze, e i vezzi delle variazioni. Il suo ideale è l’idillio, una vita convenzionale, mitologica, amorosa, allegrata dal riso del cielo e della terra. L’Adone è esso medesimo un idillio inviluppato in un macchinismo mitologico, come l’Euridice, la Proserpina. Un idillio del Marino, di colorito freschissimo e moderno, tutto impregnato di ardente sensualità, è la sua Pastorella. Chi ricordi la Pastorella di Guido Cavalcanti, così sobria e semplice nella sua maniera, può misurare fino a qual grado di ricercatezza nello sviluppo e nelle determinazioni di queste situazioni liriche era giunta la poesia. Pure la sensualità era ancora quello che rimaneva di viso in questi pochi seicentistici, esalata in tenerezze, languori, voluttà, galanterie e dulcitudini.
Un ideale frivolo e convenzionale, nessun senso della vita reale, un macchinismo vuoto, un repertorio logoro, in nessuna relazione con la società, un assoluto ozio interno, un’esaltazione lirica a freddo, un naturalismo grossolano sotto velo di sagrestia, il luogo comune sotto ostentazione di originalità, la frivolezza sotto forme pompose e solenni, l’inezia collegata con l’assurdo e il paradosso, la vista delle cose superficiale e leggiera, la superficie isolata dal fondo e alterata con relazioni artificiali, la parola isolata dall’idea e divenuta vacua sonorità, questi sono i caratteri comuni a tutt’i poeti della decadenza, messa la differenza degl’ingegni.
Questi caratteri sono più o meno comuni a tutte le forme dello scrivere, tragedie, commedie, poemi, idillii, canzoni, discorsi, prefazioni, descrizioni, narrazioni, orazioni, panegirici, quaresimali, epistole, verso e prosa.
Il Marino della prosa fu Daniello Bartoli, fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi, di uno stile insieme prezioso e fiorito. È stato in ogni angolo quasi della terra; ha fatto migliaia di descrizioni e narrazioni: non si vede mai che la vieta di tante cose nuove gli abbia rinfrescate le impressioni. Retore e moralista astratto, pieno il capo di mitologia e di sacra scrittura, copiosissimo di parole e di frasi in tutto lo scibile, colorista brillante, credè di poter dir tutto, perchè tutto sapeva ben dire. La natura e l’uomo non è per lui altro che stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione e frasario. Altro scopo più serio non ha. Estraneo al movimento della coltura europea e a tutte le lotte del pensiero, stagnato in un classicismo e in un cattolicismo di seconda mano, venutogli dalla scuola, e non frugato dalla sua intelligenza, il suo cervello rimane ozioso non meno che il suo cuore; e la sua attenzione è tutta intorno alla parte tecnica e meccanica dell’espressione. Tratta la lingua italiana, come greco o latino, come lingua morta, già fissata, e da lui pienamente posseduta. Sferza i pedanti col suo Torto e Dritto del non si può. Fugge le smancerie toscane, e ricorda la risposta fatta a certi messi toscaneggianti, che domandavano qualche sussidio per rifare il ponte della loro città:
Qualor, talor, e quinci e quindi, e guari,
Rifate il ponte co’ vostri danari.
La sua lingua spedita, colorita, elegante, copiosa ha quel carattere di lingua classica italiana già così spiccato nel Tasso, nel Guarini e nel Marino e in quasi tutt’i seicentisti. Il toscano parlato ha poca presa anche su moltissimi uomini colti della Toscana, e rimane stazionario in bocca al volgo. La lingua classica nella sua fattura esterna e grammaticale tocca in lui un alto grado di perfezione per copia e scelta di vocaboli, per regolarità di costruzione, per speditezza di giunture e movimenti musicali. Ama starsi nel minuto, notomizzare, descrivere, e vi spiega tutte le ricchezze del dizionario. Descrive lungamente e con infiniti particolari le chiocciole, e conchiude: «Eccovene in prima vestite di uno schietto drappo: argentine, bianche lattate, grigie, azzurre, nevicate, morate, purpuree, gialle, bronzine, dorate, scarlattine, vermiglie. Poi, le addogate con lunghe strisce e liste di più colori a divisa, e quali se ne vergano per lo lungo, quali per lo traverso, alcune diritto, altre più vagamente a onda. Ma certe in vero maravigliose, lavorate a modo d’intarsiatura, con minuzzoli di più colori bizzarramente ordinati, o d’un musaico di scacchi, l’un bianco e l’altro nero, quanto alla figura formatissimi, e alle giunture non isfumati punto, ma con una division tagliente, come appunto fossero alabastro e paragone, strettamente commessi. Le più sono dipinte a capriccio, o granite, cocciolate, moscate, altre qua e là tocche con certe leggerissime leccature di Minio, di cinabro, d’oro, di verdazzurro, di lacca; altre pezzate con macchie più risentite e grandi; altre o grandinate di piastrelli o sparse di rotelle, o minutissimo punteggiate; altre corse di vene come i marmi, con un artificio senz’arte, o spruzzate di sangue in mezzo ad altri colori, che le fan parere diaspri.» E segue ancora per un pezzo su questo andare. L’immaginazione rimane smarrita fra tante ricchezze, e perchè tutto è rilievo, manca il rilievo. Non ci è senso di arte, nè di natura, e chi vuol sentire la differenza, ricordi la descrizione che fa l’Aretino del cielo di Venezia, così trepida d’impressioni e movimenti interni. E non ha neppur senso d’uomo, nè di tante sue situazioni affettuose, nè di tanti suoi ritratti di personaggi ideali o storici alcuna cosa è rimasta viva. Eccolo in Terra Santa. Che impressioni e che affetti non dee destare quella vista in un buon cristiano, com’era il Bartoli! Ma se ne sbriga così: «Lagrime di dolore e baci di pietoso affetto unitamente si debbono a questo venerabile terreno, che col piè scalzo e in atto non di curioso geografo, ma di pellegrino divoto, calchiamo.» E attendiamo gli ardori estatici del pellegrino. Ma è un cominciare con Plinio e un finire con Lucano, con intramessa di fredde amplificazioni rettoriche.
Stessa coltura e stesso contenuto nel Padre Segneri. Non ha altra serietà che letteraria, ornare e abbellire il luogo comune con citazioni, esempli, paragoni e figure rettoriche: perciò stemperato, superficiale, volgare e ciarliero. Si loda il suo esordio alla predica del Paradiso: Al Cielo, al Cielo! Il concetto è questo: la terra non offre un bene perfetto; miriamo dunque al cielo. E noi abbiamo conosciuto già questo mondo, già l’abbiamo sperimentato, ed ancora tolleriam di rimanerci. Eh al cielo, al cielo. Ora la prima parte non ha bisogno di dimostrazione, perchè ammessa da tutti. Ma qui si accaneggia il Segneri, e intorno a questo luogo comune intesse tutt’i suoi ricami. E se avesse veramente il sentimento della terrena infelicità, e delle gioie celesti, non mancherebbe ai suoi colori novità, freschezza, profondità. Ma non è che uno spasso letterario, un esercizio rettorico. Luogo comune il concetto; luoghi comuni gli accessorii. Non mira efficacemente a convertire, a persuadere l’uditorio; non ha fede, nè ardore apostolico, nè unzione; non ama gli uomini, non lavora alla loro salute e al loro bene. Ha nel cervello una dottrina religiosa e morale di accatto, ed ereditaria, non conquistata col sudore della sua fronte, una grande erudizione sacra e profana: ivi niente si move, tutto è fissato e a posto. La sua attività è al di fuori, intorno al condurre il discorso e distribuire le gradazioni, le ombre e la luce e i colori. Gli si può dar questa lode negativa, che se spesso stanca, non annoia l’uditorio, che tien sospeso e maravigliato con un crescendo di gradazioni e sorprese rettoriche; e talora piacevoleggia e bambineggia per compiacere a quello. Ancora è a sua lode, che si mostra scrittore corretto, e non capita nelle stramberie del Panigarola, o nelle sdolcinature e affettazioni de’ suoi successori.
Si può ora scorgere il cammino della letteratura, iniziata nel Boccaccio, reazione all’ascetismo, negativa e idillica. La negazione percorse tutta la scala delle forme comiche dalla caricatura del Boccaccio allo umorismo del Folengo, e si sciolse nello sfacciato cinismo di Pietro Aretino: fu essa vita e anima delle novelle, delle commedie, de’ capitoli, de’ poemi romanzeschi. Semplice negazione, finì nella sensualità, nella licenza delle idee e delle forme, in un pretto materialismo. Accanto a questo elemento negativo ci era l’idillio, un ritiro dell’anima dalle astrazioni teologiche e dalle agitazioni politiche, nella semplicità e nella quiete della natura, un naturalismo spiritualizzato dal sentimento della forma o della bellezza, che produsse i miracoli della poesia e della pittura. La grazia, l’eleganza, la finitezza delle forme, la misura e l’armonia nell’insieme e nelle parti sono l’impronta di quest’aurea età. Ma questa letteratura portava in sè il germe della dissoluzione ed era la sua tendenza accademica, letteraria e classica, per la poca serietà del suo contenuto e la sua separazione da tutt’i grandi interessi morali, politici e sociali che allora commovevano e ringiovanivano molta parte di Europa. Giunta l’arte a quella perfezione, aveva bisogno di un nuovo contenuto per trasformarsi e rinsanguarsi. E se la reazione tridentina ci avesse dato questo nuovo contenuto, sarebbe stata la ben venuta. Avremmo avuto una seria ristaurazione religiosa e letteraria. Ma fu ristaurazione delle forme, non della coscienza. Agli stessi riformatori mancava nella loro opera la serietà della coscienza, come vedrà chi studii bene la Storia del Concilio di Trento non dico nel Sarpi, ma nello stesso Pallavicino, voce leziosa e affettata di quei Padri riformatori. Di che nacque l’ultimo pervertimento del carattere nazionale. L’idea che a salvare l’anima bastasse andare a messa e portare addosso uno scapolare, e che l’assoluzione del confessore fosse sufficiente a lavare tutte le macchie, salvo a tornar da capo, diede alle plebi italiane quell’impronta grottesca di bassezza, immoralità e divozione, che anche oggi in molti luoghi non si è cancellata. Quanto alle classi colte, la vita era menzogna, una vita ostentatrice di sentimenti religiosi e morali senza alcuna radice nella coscienza. Tale la vita, tale la letteratura. Quella sua tendenza accademica e letteraria divenne la sua forma definitiva. Fu rettorica, cioè a dire menzogna, espressione pomposa di sentimenti convenzionali. Il pio Torquato prese sul serio quel nuovo contenuto, e vagheggiò un mondo eroico e religioso, che naufragò tra gli elementi che lo accompagnavano idillici e fantastici. Come sotto lo scapolare batteva il core del brigante, sotto a quelle forme pompose viveva invitto il naturalismo lirico, fantastico, idillico del vecchio contenuto. L’Armida divenne l’Adone, e l’Aminta il Pastor Fido. Fra tante vite di santi e rappresentazioni sacre, fra tante liriche eroiche, morali e patriottiche, ciò che ancor vive, è il naturalismo, una certa ebbrezza musicale de’ sensi, che fa cantare ai marinai napolitani le stanze di Armida e i lubrici versi del Marino. Tutti si sentivano innanzi a un mondo poetico invecchiato, e volevano rinnovarlo, e non vedevano che bisognava innanzi tutto rinnovare la coscienza. Aguzzarono l’intelletto, gonfiarono le frasi, e non potendo esser nuovi, furono strani. L’attività si concentrò intorno alla frase, e il mondo letterario segregato dalla vita, e vuoto di ogni scopo serio, divenne un esercizio accademico e rettorico.
La parola come parola, fine a sè stessa, è il carattere della forma letteraria o accademica. Nel secolo scorso aveva un aspetto ciceroniano e boccaccevole; ora, divenuta l’essenza stessa della letteratura, vi si aggiunge un’aria preziosa, cioè a dire una ostentazione di peregrinità nella sottigliezza del concetto o nel giro della frase. Citammo già alcuni esempi di Pietro Aretino. Ora ci è in tutti, anche ne’ più semplici, un po’ di Pietro Aretino. E quando questo sforzo dello spirito pareva soverchia fatica, gli scrittori rimanevano senza più semplici parolai o frasaiuoli: ciò che si diceva stile fiorito. Queste sono le due forme della decadenza, di cui si vedono già i vestigi in Pietro Aretino, e che ora tengono il campo nelle accademie letterarie. Gli accademici s’incensano, si batton le mani, e si decretano l’immortalità. Abbiamo gli Ardenti, i Solleciti, gl’Intrepidi, gli Olimpici, i Galeotti, gli Storditi, gl’Insipidi, gli Ottusi, gli Smarriti. Acquistano un’importanza artificiale, molti vi pigliano il battesimo di grandi uomini, come fu del Salvini, dotto uomo, ma d’ingegno assai inferiore alla fama. Corona di questa letteratura frivola sono gli acrostici, gli indovinelli, gli anagrammi, e simili giuochi di spiriti oziosi.
La parola, come parola, può per qualche tempo avere un’esistenza artificiale nelle accademie, ma non potrà mai formare una letteratura popolare, perchè la parola, se come espressione è potentissima, come semplice sensibile è inferiore a tutti gli altr’istrumenti dell’arte. La parola è potentissima, quando viene dall’anima, e mette in moto tutte le facoltà dell’anima ne’ suoi lettori; ma quando il di dentro è vuoto, e la parola non esprime che sè stessa, riesce insipida e noiosa. Allora la vista materiale, il colore, il suono, il gesto sono ben più efficaci alla rappresentazione che quella morta parola. Si comprende adunque, come i parolai con tutto il loro spirito e la loro eleganza mantennero la loro influenza in un circolo sempre più ristretto di lettori, e come al contrario presero il sopravvento gli attori, i musici e i cantanti, divenuti popolarissimi in Italia e fuori. Le accademiche commedie del Fagiuoli doveano piacer meno che le commedie a soggetto, venute sempre più in voga, dove il fondo monotono e tradizionale era ringiovanito dagli accessorii improvvisati e dall’abile mimica. D’altra parte nella parola si sviluppava sempre più l’elemento cantabile e musicale, già spiccatissimo nel Tasso, nel Guarini, nel Marino. La sonorità o la melodia era divenuta principal legge del verso o della prosa, e si fabbricavano i periodi a suon di musica: ciascuno aveva nell’orecchio un’onda melodiosa. Parte di rettorica era la declamazione, cioè a dire un modo di recitare solenne e armonioso. La parola non era più una idea, era un suono; e spesso recitavasi a controsenso, per non guastare il suono. Questo movimento musicale della nuova letteratura già visibile nel Petrarca e nel Boccaccio, pure armonizzato con le idee e le immagini, ora in quella insipidezza di ogni vita interiore diviene esso il principale regolatore di tutti gli elementi della composizione: tutto il solletico è nell’orecchio. E si capisce come, giunte le cose a questo punto, la letteratura muore d’inanizione, per difetto di sangue e di calore interno, e divenuta parola che suona, si trasforma nella musica e nel canto, che più direttamente ed energicamente conseguono lo scopo. Per ciò fra tanta letteratura accademica il melodramma o il dramma musicale è il genere popolare, dove lo scenario, la mimica, il canto e la musica opera sull’immaginazione ben più potentemente che la parola insipida, vacua sonorità, rimasta semplice accessorio.
La letteratura moriva e nasceva la musica.
Già la musica non fu mai scompagnata dalla poesia. Liriche sacre e profane erano cantate e musicate, e ancora tutta la varietà delle canzoni popolari. Nel Teatro i cori e gl’intermezzi erano cantati. Ma quando il dramma divenne insulso, e la parola perdette ogni efficacia, si cercò l’interesse nella musica, e tutto il dramma fu cantato. E come la musica non bastasse, si ricorse a tutt’i mezzi più efficaci su’ sensi e sull’immaginativa, magnificenza e varietà di apparati scenici, combinazioni fantastiche di avvenimenti, allegorie e macchine mitologiche. Fu da questa corruzione e dissoluzione letteraria, che uscì il melodramma, o l'Opera, serbata a sì grandi destini.
Il primo tipo del melodramma è l’Orfeo. Il Tasso, il Guarini, il Marino sono scrittori melodrammatici. La lirica seicentistica è in gran parte melodrammatica. E quelle canzonette, tutti quei languori di Filli e Amarilli sono i preludi del Metastasio. I trilli, le cadenze, le variazioni, i parallelismi, le simmetrie, le ripigliate, tutt’i congegni della melodia musicale, appariscono già nella poesia. La parola non essendo altro più che musica, avea perduta la sua ragion d’essere, e cesse il campo alla musica e al canto.