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moso. Prende sul serio tutte le sue idee, religiose, filosofiche, morali, poetiche, e vi conforma il suo essere. Entusiasta sino all’allucinazione, perde la misura del reale, e spazia nel mondo della sua intelligenza, dove lo tiene alto sull’umanità l’elevatezza e l’onestà dell’animo. Gli manca quel fiuto degli uomini e quel senso pratico della vita, che abbonda ai mediocri. La sua immaginazione è in continuo travaglio, e gli colora e trasforma la vita non solo come poeta, ma come uomo. Immaginatevelo nell’Italia del cinquecento e in una di quelle corti, e presentirete la tragedia. All’abbandono, alla confidenza, all’espansione della prima giovinezza succede tutto il corteggio del disinganno, la diffidenza, il concentramento, la malinconia, l’umor nero e l’allucinazione: stato fluttuante tra la sanità e la pazzia, e che potè far credere, non che ad altri, ma a lui stesso di non avere intero il senno. In luogo di medici e di medicine gli era bisogno un ritiro tranquillo, co’ suoi libri, e vicina una madre, o una sorella, o amici resi intelligenti dall’affetto. Invece ebbe il carcere e la sterile compassione degli uomini, lui supplicante invano a tutt’i Principi d’Italia. Libero, trovò una sorella ed un amico, che se valsero a raddolcire, non poterono sanare un’immaginazione da tanto tempo disordinata. E quando ebbe un primo riso della fortuna, il giorno della sua incoronazione fu il giorno della sua morte.

Guardate in viso il Petrarca e il Tasso. Tutti e due hanno la faccia assorta e distratta: gli occhi gittati nello spazio e senza sguardo, perchè mirano al di dentro. Ma il Petrarca ha la faccia idillica e riposata di uomo che ha già pensato ed è soddisfatto del suo pensiero; il Tasso ha la faccia elegiaca e torbida di uomo che cerca e non trova. E nell’uno e nell’altro non vedi i lineamenti accentuati ed energici della faccia dantesca.

Manca al Tasso, come al Petrarca, la forza con la