Storia dei fatti de' Langobardi/Libro I

../Prefazione

../Libro II IncludiIntestazione 22 gennaio 2023 100% Da definire

Prefazione Libro II


[p. 1 modifica]

DEI FATTI

DE’ LANGOBARDI


LIBRO I.


[p. 3 modifica]

CAPO I.

Popoli della Germania e loro passaggio a nuove abitazioni.

La regione settentrionale1, quanto è più lontana dal calor del sole, e pel freddo delle nevi agghiacciata, tanto più sana riesce agli umani corpi, e vieppiù alla procreazione delle genti adattata: siccome per lo contrario ogni contrada meridionale, quanto è più vicina all’ardor solare, tanto più abbonda di morbi, ed è meno atta ad allevare gli uomini. Da ciò avviene, che tante moltitudini di popoli si generino sotto il polo boreale, così che tutto quel tratto dalle vicinanze del Tanai fino all’occidente, si chiama con vocabolo generale Germania2, [p. 4 modifica]quantunque ciaschedun luogo porti un nome particolare, ed anco le due provincie oltre il Reno dai Romani occupate, sieno state da essi appellate Germania superiore e [p. 5 modifica]inferiore. Adunque da questa popolosa Germania spesso trascinate innumerabili torme di schiavi si vendono a contante quà e là ai popoli meridionali3, e molte genti pur dalla [p. 6 modifica]stessa escono di frequente; per essere tanta la produzione degli uomini, che con difficoltà ivi possono alimentarsi. Queste genti non solamente travagliarono le parti dell’Asia, ma eziandio la contigua Europa; del che fanno testimonianza le città distrutte per tutto l’Illirico e per la Gallia, e più ancora la misera Italia, che di tutte quelle sì fatte genti ha provato la crudeltà; poichè i Goti, i Vandali, gli Unni, gli Eruli, i Turcilingi, e altre barbare e feroci nazioni dalla Germania sboccarono.


CAPO II.

Della Scandinavia, e come da quella sieno
usciti i Vinili, ossia Langobardi.

Allo stesso modo anco i Vinili (cioè la gente Langobarda, che poscia felicemente regnò nell’Italia) originarj della Germania, quantunque altre cagioni si raccontino della loro emigrazione, pervennero dall’isola che chiamasi Scandinavia4, della quale fa [p. 7 modifica]menzione Plinio nei libri da lui scritti sulla storia della natura. Questa isola adunque, secondo quello che ci fu riferito da chi l’ha veduta, non può dirsi tanto posta nel mare, [p. 8 modifica]quanto per la pianura dei margini: adacquata dalle onde marine, che circondan le terre. Poichè adunque i popoli in quella stabiliti crebbero in tanta dismisura da non poter più tutti insieme abitare, si narra che tutta la moltitudine dividendosi in tre parti, abbiano tirata la sorte, qual parte dovesse abbandonare la patria, e andar in traccia di nuove sedi5.


CAPO III.

Ibore ed Ajone6 eletti duci de’ Vinili, ossia Langobardi.

Ciò fatto, quella parte cui toccò la sorte di allontanarsi dal suolo natìo, e di [p. 9 modifica]andar cercando estranie campagne, elettisi due capitani, Ibore ed Ajone, i quali erano fratelli, di fiorita età giovanile, e sopra gli altri valorosissimi7, detto addio ai parenti e alla patria, s’incamminò alla cerca di terre dove abitare, e dove stabilire la loro sede. Questi due Capi aveano la madre; la quale si chiamava Gambara, donna quanto poteva esser fra loro d’acuto ingegno ed ottima consigliera, della cui prudenza nella dubbietà degli affari moltissimo confidavano.


CAPO IV.

Digressione sopra sette uomini prodigiosamente addormentati.

Non credo fuor di proposito il differire un istante il seguito della narrazione; e (poichè il mio stile s’aggira ancora sulla Germania) un miracolo ivi celebratissimo con alcune altre cose brevemente manifestare. Negli estremi confini della Germania verso tramontana, sulla riva dell’Oceano, sotto altissima rupe vedesi una spelonca, dove sette uomini (non si sa fin da qual tempo) [p. 10 modifica]giacciono immersi in lungo sopore, non solamente illesi nei corpi, ma eziandio nelle vesti, talmentechè serbandosi questi per tanto corso di anni affatto incorrotti 8, da quelle indomite e barbare nazioni sono tenuti in venerazione. Costoro, per quanto si può dedurre dall’abito, si direbbon Romani. Mentre cert’uomo fu stimolato dall’avidità a spogliare uno di questi, si narra che sul fatto gli si seccaron le braccia, onde il castigo di lui spaventò gli altri di modo, che alcuno non ardì più toccarli. Chi sa per qual benefizio la Providenza per tante età li conservi? Forse che (non potendo altro che cristiani stimarsi) per la loro predicazione saranno un giorno quelle genti chiamate a salvamento. [p. 11 modifica]

CAPO V.

Degli Scritobini.

A questo luogo sono prossimi gli Scritobini (così chiamasi quella gente); tra i quali anco nella state si mantiene la neve, nè d’altro si cibano, come d’inclinazione non dissimili dalle bestie, fuorchè di carni crude di animali selvatici, e in oltre le loro irsute pelli accomodano ad uso di vestimenta. Costoro, secondo la lingua barbara, traggono l’etimologia dal saltare9, essendochè saltando con certo artifizio d’un legno a guisa d’arco ricurvo assalgon le fiere. Fra loro abita un animale che ha qualche somiglianza col cervo10, della pelle del quale [p. 12 modifica]tutta ispida di peli, io ho veduto una veste a guisa di tonaca che arrivava al ginocchio, la qual veste, come si dice, usano gli Scritobini. In questi luoghi circa il solstizio d’estate, per alquanti dì si vede una luce chiarissima anche di notte, e i giorni sono assai più lunghi che altrove: come per lo contrario nel solstizio invernale, benchè sia la luce del giorno, tuttavia non vi si vede il sole, e i dì sono brevissimi, e lunghe le notti più che in qualunque altra parte. Il che avviene perchè quanto più lontano tu vai dal sole, tanto più lo stesso sole apparisce più presso alla terra e più le ombre s’allungano. E anco in Italia circa il dì della Natività del Signore, come scrissero gli antichi, all’ora sesta nell’ombra della statura umana si misurano nove piedi. Io pure trovandomi in un luogo della Gallia Belgica, che si chiama la villa del Turone, misurando l’ombra del mio corpo, la trovai di piedi diecinove e mezzo. Così all’incontro, di mano in mano che verso il mezzogiorno tu ti approssimi al sole, sempre più s’abbreviano l’ombre; di modo che nel solstizio di estate mostrandosi il sole nel mezzo del Cielo, nell’Egitto, in Gerusalemme e in quelle vicinanze non si vede alcun’ombra. Ma [p. 13 modifica]nell’Arabia in quel medesimo che il sole è sopra il mezzo del Cielo scorgesi verso Aquilone, e le ombre viceversa si vedono contro mezzogiorno.


CAPO VI.

Dell’ombilico del mare.

Non molto lontano dal lito, di cui abbiamo parlato, contro la parte occidentale, dove il mare Oceano stendesi all’infinito, trovasi quella profondissima voragine di acque, che con usitato vocabolo chiamiamo ombilico del mare, di cui si narra che due volte al giorno inghiotta e vomiti i flutti, siccome se n’ha la prova in tutti quei lidi ove massimo è il flusso e riflusso dell’onde. Una simile voragine, ossia vertigine, dal Poeta Virgilio è chiamata Cariddi, e da lui si asserisce ne’ suoi versi esser dessa nello stretto della Sicilia. Il vortice, di cui parlammo, spesso attrae le navi nella sua rapina con tanta velocità che imitano il cader delle saette per l’aere in quell’orrendo baratro fatalmente periscono. Ma non di rado nell’atto di sommergersi, [p. 14 modifica]rimbalzate con repentino slancio dalla mole delle onde, son respinte da lungi con la stessa rapidità, colla quale da principio furono attratte. Dicesi pure, esservi un’altra voragine a questa simigliante, fra l’Isola di Bretagna e la Provincia Gallica; al che aggiungon fede i lidi dei Borgognoni e degli Aquitani, i quali due volte al giorno di subitanee inondazioni si coprono in guisa, che se taluno trovisi più che non convenga prossimo alla riva difficilmente si salva. Onde si vedono i fiumi di quelle regioni con velocissimo corso rifluire verso le proprie sorgenti, e perciò le loro dolci acque cangiarsi in amare. L’isola Evodia è distante circa trenta miglia dal lido dei Borgognoni; e in questa per testimonianza degli abitatori odesi il mormorìo delle acque che scorrono verso la detta Cariddi. Ed io ho udito un certo nobilissimo Gallo raccontare, che alquante navi, già dalla tempesta malconcie, un momento dopo furono da quella Cariddi inghiottite. Un solo di coloro che erano in quelle navi (morti tutti gli altri compagni) mentre ancor vivo galleggiava sulle onde, dall’impeto della loro correntìa fu trasportato fino all’orlo di quell’orribile abisso; sicchè mirando spalancato quel profondissi[p. 15 modifica]mo immenso caos, nell’atto che quasi morto dalla paura s’aspettava di precipitare là dentro, in un subito, fuori d’ogni speranza trovossi seduto sopra uno scoglio; poichè trascorse tutte le acque che doveano essere assorbite, rimasero scoperti i margini di quel baratro. E mentre quivi stavasi ansioso fra tante angustie, appena pel terror palpitante, e aspettando ancora la morte prolungata per pochi istanti, ecco repente dal profondo rimbalzare quasi smisurate montagne di acque, e le navi che erano state ingojate nuovamente apparire; laonde passandogli presso una di quelle, con quanto maggiore sforzo ei potè ad essa appiccossi, e in un attimo, quasi volando, trasferito in vicinanza del lido scampò dalla morte; e fu egli medesimo poco dopo il narratore del proprio pericolo. Anche il nostro mare, cioè l’Adriatico, il quale benchè in minor copia, pure si spande egualmente sulle spiaggie delle Venezie e dell’Istria, è da credersi che abbia somiglianti piccoli e riposti meati, dai quali le acque nel ritirarsi sono assorbite, e poi nuovamente rigettate a inondare la spiaggia. Ora, tali cose accennate, torniamo al cominciato ordine della narrazione. [p. 16 modifica]

CAPO VII.

Dell’uscita dei Langobardi di Scandinavia
condotti da Ibore, ed Ajone
.

Usciti adunque i Vinili di Scandinavia condotti da Ibore ed Ajone, e arrivati in un paese che chiamasi Scoringa, ivi si trattennero parecchi anni. A quel tempo Ambri ed Assi, Capitani dei Vandali aveano assalito tutte le vicine provincie. Costoro, gonfj per molte vittorie, mandarono legati ai Vinili, intimando, che o pagassero tributo ai Vandali, oppure si apparecchiassero a sostenere la guerra. Allora Ibore ed Ajone consigliati da Gambara loro madre, deliberarono esser meglio il difendere la libertà col ferro, di quello che col tributo disonorarla; perciò mandarono in risposta ai Vandali, amar essi piuttosto combattere che servire11. Erano allora i Vinili nel fior dell’età giovanile, ma pochi [p. 17 modifica]di numero, siccome quelli che d’un’isola non molto vasta formavano appena la terza parte.


CAPO VIII.

Favola di Vodan, e di Frea.

Narra a questo luogo l’antichità, che essendo andati i Vandali a implorare da Vodan12 la vittoria contro i Vinili, ed avendo quegli risposto, che l’avrebbe concessa a coloro che primi avesse veduto al levar [p. 18 modifica]del sole, in quel punto siasi presentata Gambara a Frea moglie di Vodan, chiedendo la vittoria pei Vinili, e che Frea abbia dato il consiglio, che le donne dei Vinili lasciati cadere i capelli sciolti giù per la faccia gli accomodassero a guisa di barba, e all’albeggiare in compagnia degli uomini s’affacciassero a Vodan, collocandosi da quella parte ov’egli per una finestra era solito guardare verso l’oriente; e così sia stato fatto: onde Vodan vedendole nel nascer del sole abbia detto: E chi sono cotesti Langobardi? Al che Frea aver soggiunto, che a coloro ai quali egli avea dato il nome donasse pur la vittoria; e così Vodan ai Vinili averla concessa. Cose da ridere, e da non prestarvi niuna

[p. 19 modifica]fede: poichè la vittoria non si deve alla possanza degli uomini, ma al volere del cielo.


CAPO IX.

Perché i Vinili siano stati detti Langobardi. Vodan lo stesso che Mercurio.

Certo è nondimeno, che quelli i quali prima erano detti Vinili furono chiamati poi Langobardi dalla lunghezza della barba non mai recisa col ferro: perchè secondo la loro lingua lang significa lunga, e Baert barba13. Ma Vodan, che con l’aggiunta d’una lettera dissero Guodan, è quello stesso che è detto dai Romani Mercurio, e da tutti i popoli della Germania è adorato per loro

[p. 20 modifica]Iddio; e non solamente intorno a questi tempi, ma molto prima si afferma tale essere stato non solo in Germania, ma pur nella Grecia.


CAPO X.

I Langobardi vincono i Vandali. Fame dei Langobardi.

I Vinili dunque, ossia Langobardi, venuti a conflitto coi Vandali, come quelli che coraggiosamente combattevano per la gloria di libertà, conquistarono la vittoria; ma in appresso, per una grande carestia di vettovaglie, che patirono nella medesima provincia di Scoringa, grandemente furono costernati.


CAPO XI.

I Langobardi vogliono passare in Mauringa, e sono impediti dagli Assipiti.

Di là trasmigrando, mentre disponeansi ad entrare in Mauringa insorsero gli [p. 21 modifica]Assipiti, contrastando loro ad ogni costo il passaggio sui propri confini. I Langobardi mirandosi in faccia un gran numero di nemici non osavano, per la scarsezza dell’esercito, venir con essi alle mani: se non che la necessità suggerì loro un consiglio. Fingono adunque d’aver nei loro alloggiamenti certi cinocefali, cioè uomini colla testa di cane, e fanno correr la voce fra i nemici, essere costoro nella guerra pertinacissimi, e talmente sitibondi di umano sangue, che se non poteano giungere l’inimico, col proprio si dissetavano14. E per accrescer fede a sì fatta invenzione dilatano le trabacche, e [p. 22 modifica]accendono molti fuochi qua e là per mezzo l’accampamento15: per le quali cose udite e vedute gl’inimici prestano fede al detto, e non osano d’intraprendere la minacciata guerra.


CAPO XII.

Di due fortissimi uomini l’uno de’ Langobardi, e l’altro degli Assipiti.

Nondimeno aveano presso di se un uomo fortissimo, nel cui vigor confidavano di poter fuor di dubbio ottenere quanto voleano: perciò questo solo espongono a combatter per tutti. Onde fanno intendere ai Langobardi che mandino innanzi quell’uno che volesser fra i loro, il quale venisse a duellare con esso; colla condizione, che se il loro guerriero rimanesse vittorioso, i [p. 23 modifica]Langobardi se n’andassero per la strada ch’eran venuti; se poi costui fosse vinto dall’altro, ch’eglino più non vieterebbono ai Lạngobardi il transito pel proprio paese. Per la qual cosa pensando titubanti i Langobardi chi dei loro potessero opporre ad un guerriero sì formidabile, un tale di servil condizione spontaneamente si offerse, promettendo di venire a tenzone col provocante nemico, a patto però che, se si decidesse per lui la vittoria, a se ed a’ suoi discendenti fosse tolta la macchia di servitù. Che più? Tutti esultanti promettono di condiscendere alle sue domande: onde egli attaccò l’inimico e lo vinse, ai Langobardi fu conceduto il passaggio, e il vincitore a se ed a’ suoi acquistò, come aveva desiderato, il diritto di libertà.


CAPO XIII.

Passaggio dei Langobardi in Mauringa e in altri luoghi.

Essendo finalmente arrivati i Langobardi in Mauringa, per ampliare maggiormente il numero dei combattenti, levarono a molti il giogo servile, e li ridussero allo stato di [p. 24 modifica]libertà; e affinchè questa fosse giuridica la sancirono col solito rito della saetta16, mormorando intanto per la stabilità della cosa alcune patrie parole. Abbandonata poscia Mauringa, i Langobardi passarono in Golanda, ove dicesi che qualche tempo siensi fermati. Dopo hanno essi parimente abitato per alcuni anni Antabet, Bataib, e Vurgundaib: i quali noi reputiamo esser nomi di villaggi, oppur d’altri luoghi. [p. 25 modifica]

CAPO XIV.

Agilmondo primo re de’ Langobardi.

Intanto, morti i due capitani Ibore e Ajone, i quali aveano condotti i Langobardi dalla Scandinavia, e fino a questo tempo gli avevano governati, non volendo più oltre i Langobardi stare sotto il dominio dei lor condottieri, ad esempio delle altre nazioni costituirono un re17. Perciò il primo che [p. 26 modifica]regnò sopra loro fu Agilmondo figlio di Ajone, che traeva l’origine dalla prosapia dei Gungicori, la quale da loro era reputata la più nobile delle altre. Costui, come narrano gli antichi, tenne per trentatreanni il Regno de’ Langobardi.


CAPO XV.

Una meretrice partorisce sette figliuoli, uno de’ quali detto Lamissione combatte con un Amazone.

A questi tempi una certa meretrice sgravossi in un parto di sette bambini, e poi cotesta madre più crudele di tutte le fiere [p. 27 modifica]li gettò ad annegare in una peschiera. Che se la cosa a taluno sembrasse impossibile, rilegga le antiche istorie e troverà, che non solamente sette, ma nove infanti da una sola donna in una volta furono partoriti. Il che è certo accadere massimamente fra gli Egiziani. Avvenne perciò, che mentre il re Agilmondo andava a diporto ei giugnesse alla detta peschiera, e che fermato il cavallo al vedere quei miserabili bambinelli, voltandoli sossopra con l’asta che aveva in mano, uno di loro allungata la mano afferrasse l’asta reale. Il re mosso a pietà, e considerando come straordinario un tal caso, pronosticò che quel bambino sarebbe divenuto un gran d’uomo. E subito comandò che fosse tratto dalla peschiera, e consegnato a una balia per essere con ogni diligenza allevato. E poichè lo avea cavato da una peschiera, che nella loro lingua chiamasi Lama, gli fu dato il nome di Lamissione. Questi essendo cresciuto divenne un giovine talmente gagliardo, che ottenne fra tutti in guerra il primato; e dopo la morte di Agilmondo assunse egli stesso il governo del regno. Narrasi di costui, che viaggiando i Langobardi col re, giunti ad un certo fiume, essendo loro dalle Amazoni, contrastato il tragitto, egli [p. 28 modifica]abbia pugnato colla più valorosa di quelle a nuoto nel fiume, dove avendola ammazzata, con grande sua gloria abbia ai suoi Langobardi fatto libero il passo: essendosi prima fra l’uno e l’altro esercito convenuto, che se l’Amazone avesse vinto Lamissione, i Langobardi retrocedessero dal fiume; che se poi quella fosse stata vinta da Lamissione i Langobardi si lasciassero liberamente passare quell’acqua. Ma certamente questa asserzione porta seco poco fondamento di verità; stantechè chiunque è informato delle antiche istorie conosce, che la gente delle Amazoni fu estinta gran tempo prima che queste cose avessero potuto accadere; se non che essendo i luoghi ove si narrano avvenuti questi fatti sì poco noti agli istoriografi, che da quasi niun di loro non se ne fece menzione, potrebbe darsi che si avesse creduto essersi mantenuta nello stesso luogo fino a quel tempo la detta razza di femmine. Perchè io medesimo udii raccontare da alcuni, che anco al dì d’oggi nelle interne regioni della Germania sussiste la nazione di queste donne 18. [p. 29 modifica]

CAPO XVI.

Come i Bulgari ammazzarono Agilmondo
e condussero schiava la sua figliuola.

Poichè i Langobardi ebbero passato il fiume di cui parlammo, al di là pervenuti ivi dimorarono per qualche tempo. In quel mentre viveano tranquilli senza sospetto di [p. 30 modifica]alcun sinistro; ma la troppo lunga sicurezza, sempre madre di guai19, partorì loro un grande malanno. Perciocchè una notte essendo tutti negligentemente immersi nel sonno; i Bulgari20 all’improvviso si scagliarono sopra di loro, e di ogni parte ferendo e ammazzando, riempirono di strage gli alloggiamenti, uccisero il re stesso Agilmondo e seco strascinarono schiava l’unica sua figliuola.


CAPO XVII.

Come Lamissione fu fatto re, e in che modo costui vinse i Bulgari.

Nondimeno, dopo sì fatta rovina i Langobardi, ripigliate le forze, costituirono re [p. 31 modifica]Lamissione, del quale abbiamo detto di sopra21: Costui bollente di età giovanile, e bramoso di guerra, null’altro agognando che di vendicare la morte di Agilmondo, rivolse, le armi contro dei Bulgari. Appena si comincia ad attaccar la battaglia, i Langobardi voltan le spalle, ed ai loro accampamenti riparano. Ciò vedendo il re Lamissione, alzata quanto più poteva la voce, cominciò a gridare a tutto l’esercito, che tutti rammentassero i patiti obbrobrj, richiamassero dinanzi agli occhi la ricevuta vergogna, come gl’inimici aveano scannato il re loro, e quanto indegnamente, aveano tradotta schiava la sua figliuola che bramavano d’aver [p. 32 modifica]regina. Finalmente gli esorta a difender con l’armi se ed i suoi, affermando esser meglio lasciar la vita sul campo, di quello che quai vili schiavi sopportare gli scherni dell’inimico. Mentre queste ed altre simili cose udir faceva gridando, ed or con promesse, or con minacce rianimava gli animi loro a sostener la battaglia, se s’imbatteva di veder nella pugna alcuno di servil condizione, concedeagli la libertà, e insieme di premj lo ricolmava: talmentechè infiammati dalle esortazioni e dall’esempio del principe, il quale primo avea attaccato la zuffa, si rovesciano sopra i nemici, accanitamente combattono, e fanno di quelli orrendo macello. Così dei vincitori riportando vittoria, della morte del re e delle proprie ingiurie compiono la vendetta: onde fatto grosso bottino delle spoglie nemiche, da quel tempo in poi diventati audaci, costantemente le fatiche della guerra bramarono. [p. 33 modifica]

CAPO XVIII.

Del regno di Letu, d’Ildeoco e di Gedeoco.

Morto dopo questi fatti Lamissione, che era stato secondo re, il terzo asceso al governo del regno fu Letu. Questi dopo d’aver regnato quasi quaranta anni, lasciò per successore suo figlio Ildeoco, quarto nel numero dei regnanti: quando poi questi morì, il quinto che assunse il regno fu Gedeoco.


CAPO XIX.

Guerra tra Edoagar re dei Torcilingi e Feleteo re dei Rugi. I Langobardi condotti da Odoacre conquistano le terre dei Rugi.

Intorno a questi tempi s’accese grande A. D. 487. inimicizia fra Odoacre, che da parecchi anni regnava in Italia22, e Feleteo, detto [p. 34 modifica]anche Feva re dei Rugi: il quale Feleteo a quei giorni abitava la riva ulteriore del Danubio, che lo stesso Danubio separa dai confini del Norico. Appunto su questi confini [p. 35 modifica]eravi allora il monastero del beato Severino, che fornito d’ogni prerogativa di santità, avea sparso dovunque l’odore di sue virtù: del quale, benchè abbia dimorato in que’ luoghi fino all’estremo della vita, presentemente Napoli possede il corpo. Il detto Santo frequentemente con celesti ammonizioni esortava il testè nominato Feleteo e la moglie di lui a convertirsi dalle loro iniquità23; ma costoro schernendosi de’ suoi pii avvertimenti, incontrarono nell’avvenire ciò ch’egli molto prima ad essi aveva predetto: stantechė Odoacre, radunate le genti che al suo dominio obbedivano, cioè i Turcilingi, gli Eruli, e quella porzione di Rugi che da molto tempo teneva sotto di se, insieme coi popoli dell’Italia venne in Rugiland, e combattendo coi Rugi, li ruppe, gli sperse ed anco uccise il loro re Feleteo24. Devastata poi [p. 36 modifica]tutta quella provincia, e ritornando in Italia, si trasse dietro una grande moltitudine di schiavi. Allora i Langobardi usciti dalle regioni loro vennero in Rugiland, che in lingua latina chiamasi patria dei Rugi, ed ivi allettati dalla fertilità del suolo abitarono parecchi anni.


CAPO XX.

Di Claffone, e dopo di lui di Tatone, il quale distrusse il regno degli Eruli.

Nel corso di questi avvenimenti morì Gedeoco, a cui successe suo figliuolo Claffone. Morto poi Claffone, suo figlio Tatone fu il settimo a governare il regno. Ora partiti i Langobardi da Rugiland s’attendarono nell’aperte campagne, le quali con barbara dizione si chiamano Feld25; nel qual luogo dimorando per lo spazio di tre anni, nacque guerra fra Tatone e Rodulfo re degli [p. 37 modifica]Eruli. Costoro, che prima aveano stretta insieme alleanza, vennero allora in discordia per la seguente ragione. Il fratello del re Rodulfo era giunto a Tatone col fine di recargli la pace; onde avendo compiuta la sua missione, e tornandosene alla patria, avvenne che passasse dinanzi alla casa della figliuola del re, la quale chiamavasi Rometruda. Costei guardando il numeroso seguito e la nobile comitiva, domandò chi mai potesse essere quegli che aveva un sì sublime corteggio? A cui fu risposto essere il fratello del re Rodulfo, che dopo aver terminata la sua ambasceria si restituiva alla patria. Allora la donzella mandò ad invitarlo che si degnasse di accettare da lei un bicchiere di vino. Quegli, semplice di cuore, appena invitato sen venne: e come era piccolo di statura, la donzella guardollo con superbo dispregio, ed anche si mise a deriderlo con parole. Ma quegli insieme da vergogna e da sdegno commosso, rispose con certi detti, che fecero ben più arrossir la fanciulla: di modo che colei da donnesca rabbia infiammata, non potendo frenare la pena dell’animo, deliberò di compiere il delitto che nella sua mente avea già immaginato. Simulò tolleranza, rasserenò il volto, [p. 38 modifica]e adescandolo con lusinghiere parole l’invitò a sedere; ma lo fece adagiare in luogo ove dietro le spalle eravi una finestra nella parete; la qual finestra, quasi per far onore all’ospite, ma in realtà per non fargli nascere alcun sospetto, avea con un prezioso drappo coperta, ordinando ai suoi garzoni quell’atrocissima fiera, che quando essa mostrando di parlare al coppiere dicesse mesci, coloro da tergo colle lancie lo trafiggessero: e così fu fatto; poichè appena la crudel femmina diede il segno, fu eseguito l’iniquo comandamento; e il misero, traforato dalle ferite, ruinando in terra spirò. Come un tal caso fu riferito al re Rodulfo, pianse la morte crudelissima del fratello, nè potendo sopportarne il dolore s’infiammò alla vendetta, e rotta la lega che aveva contratta intimò guerra a Tatone. Che più? Si adunarono in campo aperto ambi gli eserciti: Rodulfo collocò i suoi in ordine di battaglia: ma poi postosi a sedere negli alloggiamenti, sicuro della vittoria, si stava giuocando alle dame26: perchè erano gli Eruli allora esperti [p. 39 modifica]nelle usanze della guerra, e per le stragi di molte genti notissimi: di maniera che o per più agilmente maneggiar l’armi, o perchè si ridessero delle ferite impresse dall’inimico, combattevano ignudi, coprendo soltanto le parti vergognose del corpo27. Laonde mentre il re nelle forze di costoro indubitatamente fidando giuocava alle dame, ordinò ad uno de’ suoi di salire sopra un albero, che per caso era in quel luogo, affinchè più prontamente lo avvisasse della vittoria della sua gente, minacciando di tagliargli la testa, se gli annunziasse la fuga degli Eruli. Questi mirando che l’esercito degli Eruli piegava sopraffatto dai Langobardi, interrogato più volte dal re come si portassero i suoi? ottimamente, rispose. Nè prima osò di manifestare i guai che mirava, [p. 40 modifica]finchè tutto l’esercito non voltò le spalle al nemico. Ma a quel punto, benchè tardi, finalmente in queste esclamazioni proruppe: Ahi! misera Erulia! oh come tu sei punita dalla collera del Signore! A queste parole turbato il re disse: Che? Fuggono forse i miei Eruli? E quegli: non io, ma tu stesso, o re, lo dicesti. Allora (siccome suole in tali casi avvenire) mentre il re e tutti gli altri conturbati stavano lì esitanti, pensando qual partito dovessero prendere, sopraggiunti dai Langobardi, furono tagliati a pezzi; e il re stesso indarno, benchè valorosamente difendendosi, fu ucciso. E le genti degli Eruli qua là fuggendo disperse furono da tanta ira del cielo perseguitate, che al vedere i lini verdeggianti nei campi28, li prendeano per [p. 41 modifica]acque da passarsi a nuoto; e mentre in atto di nuotare distendeano le braccia, erano crudelmente colpiti dalle spade degl’inimici. Allora i Langobardi, compiuta la vittoria, divisero fra loro le innumerevoli spoglie trovate negli alloggiamenti. Tatone appropriossi lo stendardo di Rodulfo, che chiamavano Bando29, e l’elmo che solea portare alla guerra. E da quel giorno fu talmente abbattuta la gloria degli Eruli, che dopo non ebbero mai più re30. All’incontro da quel tempo i

[p. 42 modifica]Langobardi fatti più ricchi, ampliato l’esercito coi soldati delle vinte nazioni, presero ancora più grande amor per la guerra, per ogni dove propagarono la fama del loro valore.


CAPO XXI.

Regno di Vacone: delle sue mogli e figliuole, e di suo figliuolo Valtari.

A. D. 527.Ma però Tatone non ebbe lungo tempo a godere del trionfo di questa guerra; perchè piombò sopra di lui Vacone figliuolo di suo fratello Zuchilone, il quale gli tolse la vita. Ildechi figlio di Tatone guerreggiò poscia contro Vacone, ma vinto da costui si rifuggiò presso i Gepidi, ed ivi [p. 43 modifica]fuoruscito dimorò fin che visse. Per la qual cosa i Gepidi fin d’allora s’inimicarono coi Langobardi. Nello stesso tempo Vacone si volse ad assalire gli Suevi, e li sottomise al suo imperio. E se v’ha taluno che sospetti esservi menzogna e non verità del fatto, rilegga il prologo dell’editto che il re Rotario compose sulle leggi dei Langobardi,

quasi in tutti i codici lo troverà scritto tal quale io in questa breve istoria l’ho inserto. Cotesto Vacone ebbe tre mogli: la prima fu Ranicunda figliuola del re dei Turingi: sposò poi Austrigosa figlia del re dei Gepidi, dalla quale ebbe due figlie. Una di queste ebbe nome Visegarda, ch’egli maritò con Teodeberto re de’ Franchi: la seconda chiamossi Valderada, la quale si congiunse in matrimonio con Cusvaldo, altro re Franco, che poi odiata da costui fu da esso data per moglie ad un certo de’ suoi, che chiamavasi Garipaldo. La terza consorte poi di Vacone fu la figliuola del re degli Eruli di nome Salinga; dalla quale gli nacque un maschio, ch’egli chiamò Valtari, e che, morto Vacone, fu l’ottavo re dei Langobardi. Tutti questi furono Litingi; che così una certa razza nobile chiamavasi presso di loro. [p. 44 modifica]

CAPO XXII.

Di Audoino.

A.D. 539.Valtari adunque, dopo d’aver regnato pel corso di sette anni fu tolto da questa vita. Dopo di lui Audoino, che fu il nono re, ottenne quel regno; e non molto tempo appresso guidò i Langobardi nella Pannonia31.


CAPO XXIII.

Guerra dei Gepidi32 coi Langobardi.

Finalmente fra i Gepidi e i Langobardi scoppiò quella discordia, che covavasi da molto tempo; e l’una e l’altra parte apparecchiossi alla guerra. Venuto il giorno [p. 45 modifica]della battaglia, mentre ambi gli eserciti si disputavano valorosamente il terreno, nè l’uno all’altro cedeva, avvenne che nella mischia Alboino figliuolo d’Audoino, s’imbattesse in Turismodo figlio di Turisendo; sicchè Alboino con un colpo di spada lo gittò morto giù da cavallo. I Gepidi vedendo ucciso il figlio del re, per cui maggiormente sostenevasi la battaglia, scoraggiati si danno alla fuga; e i Langobardi inseguendoli animosamente gli sconfiggono, ed ammazzatane la maggior parte, se ne ritornano a spogliare i corpi dei morti. Acquistata così la vittoria i Langobardi, mentre si restituivano alle abitazioni loro, insinuarono al re Audoino di ricevere per suo commensale il figliuolo Alboino, come quello pel cui valore essi combattendo guadagnarono la vittoria, talchè comune al padre egli ebbe il pericolo, comune del pari ne abbia la mensa. Ai quali rispose Audoino, non poter esso a ciò condiscendere, per non alterare il costume della nazione33: giacchè voi sapete (diss’egli) non esser in uso [p. 46 modifica]fra noi, che il figliuolo del re sieda a mensa col padre, se prima non abbia ricevuto le armi da un re straniero.


CAPO XXIV.

Alboino va a domandare al re Turisendo le armi per poter sedere a mensa col padre.

Poichè Alboino ebbe ciò udito dal padre, presi seco lui soli quaranta giovani34, andò a trovare Turisendo re dei Gepidi, col quale dianzi avea guerreggiato, e gli annunziò il motivo per cui era venuto. Questi benignamente lo accolse, lo invitò alla mensa, e lo collocò alla sua destra, dove prima il suo [p. 47 modifica]figliuolo Turismodo era solito di sedere. Così essendo le cose, mentre delle varie imbandigioni cibavansi, Turisendo già volgendo per mente che quella era la sedia del suo figliuolo, e rammemorando nel cuore la morte del medesimo, al veder sotto gli occhi l’uccisore che sedeva nel luogo di quello, traendo un profondo sospiro, non potè contenere il dolore, che finalmente scoppiò in queste parole: Oh quanto mi è caro quel luogo; e quanto odioso chi l’occupa! Allora l’altro figlio del re, che si trovava presente, commosso dal padre, cominciò a provocare i Langobardi con ingiurie dicendo: che usando essi di cingere la parte inferior della gamba con certe bianche fasciuole, somigliavano alle cavalle, i piedi delle quali sino alla giuntura son bianchi. Fetide35 (ei diceva) sono le cavalle a cui voi somigliate. Allora un Langobardo rispose: Vieni al campo d’Asfeld e là potrai riconoscere quanto gagliardamente queste, che tu chiami cavalle, sappiano trar di calci; colà sono disperse le ossa di tuo fratello, come di un vile giumento in mezzo dei prati. I Gepidi, [p. 48 modifica]udite queste parole, non potendo sopportare il rossore s’dirarono terribilmente, e già si accingevano a vendicare le aperte ingiurie; e i Langobardi dall’altro canto pronti a combattere, tutti in un punto impugnarono i brandi 36. Quando il re, balzando fuor dalla mensa, si pose in mezzo di quelli e calmò l’ira de’ suoi, minacciando di punir tosto colui che primo avesse ardito di metter la mano all’armi; perché, disse, non è accetta a Dio la vittoria di colui, che in casa propria uccide il nemico37. Così finalmente acquietata la rissa, tornano con lieto animo a finire il convito. Poscia Turisendo prendendo le armi di suo figliuolo Turismodo le consegnò ad Alboino, e salvo lo rimandò in pace al paterno regno. Alboino ritornato al padre divenne da quel giorno suo commensale: e mentre lieto in compagnia di lui godeva le reali delizie, raccontò ad una ad una le cose che gli erano [p. 49 modifica]accadute nella reggia di Turisendo. Maravigliando gli astanti lodano il coraggio d’Alboino, nè meno esaltano la grandissima fede di Turisendo.


CAPO XXV.

Del regno di Giustiniano e delle sue vittorie.

A questo tempo reggeva felicemente il Romano impero Giustiniano Augusto; A. D. 537-564 il quale oltre all'aver intraprese con fortuna molte guerre, fu anche mirabile nelle cause civili. Imperciocchè per mezzo di Belisario patrizio domò valorosamente i Persiani, e in grazia dello stesso Belisario portò l’ultimo eccidio alla nazione dei Vandali, facendo schiavo il loro re Gelismero; e poi restituì tutta l’Africa, dopo novantasei anni, al Romano impero. Indi colla virtù di Belisario soggiogò i Goti in Italia, preso il re loro Vitici: e poscia con incredibile valore per mezzo di Giovanni proconsolo distrusse i Mori ed il Re Attila, che infestavano l’Africa, e altre genti ancora col diritto della guerra represse. Onde per tutte queste vittorie [p. 50 modifica]meritò d’essere cognominato Alemanico, Gotico, Francico, Germanico, Antico 38, Alanico, Vandalico, ed Africano. Riformò egli pure con mirabile brevità le leggi Romane, che erano troppo prolisse, e piene d’inutile ridondanza; restringendo in dodici libri tutte le costituzioni dei principi, che prima erano diffuse in molti volumi; e quindi ordinò che quel volume s’intitolasse il Codice Giustiniano. Inoltre ridusse al numero di cinquanta libri le leggi di ciaschedun magistrato o giudice, che prima estendeansi fino a quasi duemila libri, e diede a quel codice il nome di Digesti o di Pandette. Compose anco quattro nuovi libri d’Instituzioni, nelle quali brevemente si comprende il testo di tutte le leggi. E le nuove leggi da lui decretate fece ridurre in un volume, che stabilì fosse chiamato il codice delle Novelle. Il [p. 51 modifica]medesimo principe fabbricò pure un tempio nella città di Costantinopoli a Cristo Signore, che è la sapienza del padre, il qual tempio con greco vocabolo nominò Ἁγία Σοφία, cioè Santa Sapienza39. Quest’opera tanto avanza in eccellenza tutti gli altri edifizj, che in tutta quanta la terra [p. 52 modifica]non si potrebbe trovare la simile. Il detto principe era di fede cattolica, retto nelle azioni, giusto ne’ suoi giudizj, e perciò tutte le cose a lui riescivano in bene40. A’ suoi [p. 53 modifica]tempi nella città di Roma fiorì Cassiodoro, celebre tanto nelle secolari, che nelle divine scienze il quale, fra le altre cose che nobilmente scrisse, sopra tutto interpretò con sommo valore il senso misterioso dei salmi. Questi fu prima console, poi senatore, e finalmente si fece monaco41. Nel medesimo [p. 54 modifica]tempo Dionisio Abate42 stabilito in Roma compose con mirabile argomentazione il calcolo pasquale. E allora pure Prisciano Cesariense in Costantinopoli investigò, per così esprimermi, tutte le sottigliezze della grammatica43. Finalmente a quei giorni Aratore suddiacono della Romana Chiesa, maraviglioso poeta, descrisse gli atti degli Apostoli in versi esametri44.


CAPO XXVI.

Del beato Benedetto.

In questi medesimi giorni splendeva pei meriti della vita, e per le apostoliche virtù [p. 55 modifica]il beatissimo padre san Benedetto prima in un luogo detto Sublaco, il quale è distante quaranta miglia da Roma, e indi nel castello Cassino, che chiamasi Harum. La vita di lui (siccome è noto) fu descritta con soave eloquenza nei Dialoghi del beato Gregorio. Ed io pure, per quanto ha potuto la povertà del mio ingegno, a onore di tanto padre ho tessuto ad uno ad uno tutti li suoi miracoli, in altrettanti distici di metro elegiaco. E parimente composi un inno contenente tutti i predetti miracoli in metro Giambico Archiloco.

Piacemi poi qui riferir brevemente ciò che il beato Gregorio omise di raccontare nella vita di questo santissimo padre; ed è, che quando per divina ispirazione, dopo quasi cinquanta miglia di cammino, arrivò da Sublaco al luogo dove ora riposa, tre corvi, i quali egli era solito di nudrire, lo seguirono volandogli intorno: e ad ogni refezione che faceva, finchè qui sen venne, due Angeli presentandoglisi in figura di giovani gli mostravano la strada ch’ei doveva tenere. In questo luogo poi dimorava un certo servo di Dio, al quale divinamente fu detto:

Cedi il loco; presente è un altro amico. [p. 56 modifica]Perciò giunto egli nella rocca di Cassino mortificò sempre sè stesso con una severa astinenza; e spezialmente in tempo della quaresima visse rinchiuso e lontano dal frastuono del mondo. Tutte queste cose le ho tratte da un carme del poeta Marco, il quale essendo venuto a trovare il medesimo padre, compose alcuni versi in suo elogio, che io non ho voluto trascrivere in questi libercoli per evitare la troppa lunghezza. Certo è nondimeno che il detto egregio padre fu chiamato dalla volontà del cielo in questo delizioso sito, a cui è sottoposta una fertilissima valle, affinchè si fondasse, come si fondò sotto la protezione di Dio, una congregazione di monaci. Narrate brevemente queste cose, che non si doveano omettere, ritorniamo alla serie della nostra istoria.


CAPO XXVII.

Morte di Audoino. Alboino ascende al trono
e distrugge il regno de’ Gepidi.

Ora tornando ad Audoino re de’ Langobardi, come poc’anzi abbiamo narrato, costui ebbe per moglie Rodelinda, la quale gli [p. 57 modifica]partorì Alboino giovine valoroso nella guerra, ed inclito in ogni sorta di azioni. Onde morto Audoino, Alboino fu il decimo re dal voto di tutti45 proclamato a governare la patria. Il quale godendo già di famosissimo nome ed invitto, Clotario re de’ Franchi gli diede in matrimonio sua figliuola Clotsiunda, da cui ebbe una sola femmina detta Alpsiunda. Intanto morì il re de’ Gepidi Turisendo, di cui Cunimondo fu successore nel regno. Questi bramoso di vendicare le antiche ingiurie dei Gepidi, ruppe l’alleanza coi Langobardi, invece della pace scegliendo la guerra. Dall’altro canto Alboino contrasse lega perpetua cogli Avari, prima chiamati Unni, e poi dal nome del proprio re detti Avari: poscia avviossi alla guerra dai Gepidi preparata; e mentre eglino rapidamente da una parte movevano ad affrontarlo, gli Avari, siccome eransi convenuti con Alboino, invasero la patria loro; laonde essendo arrivato un messo dolente a raccontare a Cunimondo, che gli Avari aveano oltrepassati i confini, mancogli l’animo e fu oppresso da travagliosi pensieri: nondimeno a principio [p. 58 modifica]esortò i suoi a combattere coi Langobardi, dicendo, che se avessero potuto vincerli, caccierebbero poi l’esercito degli Unni fuori del loro paese. Si venne dunque a battaglia, e d’ambe le parti si combattè con grande valore: ma essendosi decisa la vittoria pei Langobardi, questi con tanto accanimento inferocirono contro i Gepidi che fecero di loro una strage compiuta, talmentechè di sì gran moltitudine di gente appena restò chi portasse la nuova. A. D. 551.In quella giornata Alboino ammazzò Cunimondo, e staccatagli la testa dal busto, fece di quella una tazza da bere46: la qual sorte di tazza da loro si dice scala, e in lingua latina si chiama patera47. E la figliuola di lui, di nome Rosmunda, menò cattiva con gran numero di gente di età e di sesso diverso: la quale, essendo morta Clotsiunda, egli prese in moglie per sua fatale [p. 59 modifica]rovina, come si vide in appresso. Allora i Langobardi fecero sì grande bottino, per cui crebbero a dismisura in ricchezza: e la gente dei Gepidi talmente si sminuì, che da quel tempo in poi non ebber più re; ma tutti quanti sopravvissero a quella guerra o furono sottomessi dai Langobardi, o anco al dì d’oggi gemono sotto il duro giogo degli Unni che possedono la loro patria. Intanto aumentossi per ogni dove la gloria del nome d’Alboino, cosichè non solamente presso la nazione dei Bavari48 e dei Sassoni, ma fra le genti della medesima favella si celebra ne’ versi loro la liberalità e la gloria di lui, non che la sua fortuna e virtù militare49. E si narra da molti anco a’ nostri giorni, che alcune armi particolari sotto di lui furono fabbricate.

Note

  1. Il Machiavelli ha tratto da questo fonte la sua magnifica introduzione al primo libro delle Istorie Fiorentine.
  2. Questi confini della Germania segnati da Paolo Diacono sono quelli di Tacito (De morib. German. 1.), di Plinio (lib. IV c. 13.) e di Strabone (Geograf. lib. VII). Le cognizioni geografiche dei Romani si estendevano poco più al di là della terra che occupavano coi loro eserciti. Specialmente la riviera marittima della Germania era loro presso che ignota. Lo stesso Tacito dice che a quell’Oceano assai di rado s’arrischiavano di penetrare le navi. Immensus ultra, adversus Oceanus raris ab orbe nostro navibus aditur (ibid. 2). Pei Romani la navigazione era solamente ausiliaria della guerra, nel rimanente era da loro affatto negletta. Ciò è comprovato dagli Storici, e posto in piena evidenza dal Mengotti nella insigne sua opera del Commercio de’ Romani (Epoc. I cap. 2.). Quanto poi all’origine del vocabolo Germania, non interamente si accordano gli antichi scrittori. Tacito (ibid. 2) afferma che a suoi tempi era ancora recente il nome di Germania, Germaniae vocabulum recens et nuper additum, e che da se stessa lo inventò quella nazione a seipsis invento nomine Germani vocarentur, e ciò per essersi affratellati nella difesa contro i Galli. All’incontro Strabone (ibid.) così li chiama per essere di natura somiglianti ai Galli: quasi fratelli carnali dei Francesi; perchè la lingua romana chiama germano il fratello carnale. Il Vossio inclina a questo parere: ma nei comenti dell’Oberlino alla Germania di Tacito si vuole che la voce Germanus sia composta da ger (bellum exercitus) e man (homo) cioè uomo guerriero. L’Adelung pure (Istor. primit. dei Germ. V. 3.) sostiene questa opinione, e il Valeriani (not. alla Germ.) sta con quelli che dalla voce ger (in origine werr ) sia derivata l’italiana guerra, la francese guerre, e la inglese war. Converrebbe pensare anche a quel Manno figlio del Dio Tuistone, mentovato da Tacito (loc. cit.); Tuistonem Deum terra editum, et filium Mannum, originem gentis conditoresque. Ger Mannus non potrebbe significare guerriero di Manno? Se non che più naturale di tutte sembra le derivazione che si ritrae dal discorso di Paolo Diacono: cioè che Germania sia stata detta dal germinare con qualche alterazione di lettera; vale a dire germinatrice di uomini. Ma conviene arrestarsi, perchè il paese delle etimologie confina con quello dei sogni.
  3. Secondo Tacito (ibid. 24) i Germani vendevano quegli schiavi che dopo aver perduta ogni cosa nei loro giuochi, giuocavano sè medesimi. Il vinto assumeva volontariamente la schiavitù, e benchè più giovane e più forte dell’avversario, si lasciava legare e vendere; la qual vendita faceva il vincitore a’ trafficanti per torsi il rossore di tale vittoria. Servos conditionis hujus per commercia tradunt, ut se quoque pudore victoriae exsolvant. Più tardi si vendevano i servi anco di altra condizione cioè quelli che, a differenza dei servi romani, governavano il proprio podere e la propria casa: suam quisque sedem, suos penates regit (ibid. 25). Ma la vendita di questi servi addetti alla gleba (adscriptitii) unitamente alle loro mogli e figliuoli (almeno dopo l’introduzione del cristianesimo) si faceva dentro della Provincia, e a patto che i compratori non fossero Giudei, nè Pagani (Eineccio Antiq. Germ. Jurispr. II. c. 9. parag. 1-13). Quali erano dunque le innumerabili torme di schiavi, di cui parla il Diacono, e che si vendevano ai popoli meridionali? Ciò non può riferirsi che a quei primi mentovati da Tacito.
  4. Non tutti i geografi s’accordano con Paolo Diacono sull’origine Scandinava dei Longobardi. Cluverio, e Grozio citati dal Gibbon (Decadenza del l’Impero Romano, vol. 8 cap. 42) stanno l’un contro l’altro: il primo impugnando, l’altro confermando l’asserzione del nostro autore. Pare che il Gibbon propenda all’opinione di quegli scrittori, che li stabiliscono di là dell’Elba nel vescovato di Magdeburgo, e nella marca di mezzo di Brandeburgo, dove ora si traggono gli eserciti della Prussia: il che s’accorda con Tacito, che li colloca in mezzo alla gente de’ Suevi, vicino ai Senòni. Ma difficilissimo, per non dire impossibile, è il determinare l’origine e il vero punto della partenza di ciascheduno de’ popoli Barbari che emigrarono dalla loro patria. Le tradizioni sole e i termini delle lingue possono in qualche modo ajutarci; ma anche per questa via si palpa fra la caligine; perchè i fatti si confondono passando di bocca in bocca e d’età in età, e i nomi pure si alterano; onde io senza intender di nulla scemare di quella riverenza che si deve ad un uomo sommo quale si fu l’Eineccio (ibid. I cap. 1. paragr. 12, 13), non potrei mai accordarmi con esso nell’opinione, che col mezzo dei nomi dati dalle antiche genti ai villaggi si potessero ora con sicurezza restituire alle medesime le native sedi. Però l’erudizione rischiarata dalla critica e dalle cognizioni topografiche ha potuto condurre il sig. Le Sage a delineare una carta (Atlante Stor. Cart. n.° 10) in cui si determina, per quanto è possibile, il punto della partenza di cadauno dei popoli Barbari, non che la via che trascorsero nella loro emigrazione. Egli segna i Longobardi come i più vicini alle rive del Baltico, e li conduce fino al di qua del Danubio.
  5. La soprabbondanza degli abitatori rendeva indispensabile l’emigrazione: ma l’abbandonare la patria era da tutti sentito come la massima delle sventure. Per quanto sia triste ed orrido il sito, non par più tale quando ivi è la patria: perciò Tacito stesso (ibid. 2.) esprimendo la naturale inclinazione di fuggire da regioni così inamabili, eccettuò questo caso, nisi patria sit. In tanta necessità era pure grande virtù il tirare la sorte, ed a quella tranquillamente adattarsi.
  6. Di questi due Capi parla s. Prospero in una cronica citata dal Muratori negli Annali d’Italia, sotto l’anno 379, nel qual tempo si cominciò in Italia a parlare de’ Longobardi.
  7. Duces ex virtute sumunt (Tacit. ibid. 7).
  8. L’opinione de’ Barbari dee aver avuto per fondamento la verità; poichè non è raro l’esempio che siensi trovati corpi umani incorrotti. In Friuli, nella terra di Venzone, al confine meridionale della Carnia i corpi sepolti nel cimitero si cavano fuori pochi anni dopo tali che pajono vivi; e posti in una stanza, sono più soggetti alla putrefazione. Ivi se ne veggono alcuni di parecchi secoli cogli stessi abiti indosso, con cui furono seppelliti. Sarebbe prezzo dell’opera che i naturalisti indagassero la natura del sito, e analizzassero le sostanze che cooperano a questa conservazione. Si sa che l’ultimo Governo Italico aveva il divisamento di stabilire a Venzone le tombe dei re d’Italia.
  9. Intendono gli Etimologisti che Scritobini derivi dal germanico Scriten, che corrisponde al latino divaricare, diducere pedes: Scriten è affine al greco οχιρταν. Altri chiamano i detti popoli Scritofini, e Procopio nel lib. II. De bello Gothico Σχρετιφίχοι.
  10. Questo forse è il lince di Linneo, felis lynx, detto lupo cerviero. Maculosae tegmine lyncis dice Virgilio (Eneid. lib. I. v. 234) ch’era vestita Venere, fingendosi cacciatrice.
  11. Più fiera del regno d’Arsace è la libertà dei Germani, diceva Tacito (ibid. 37): regno Arsacis acrior est Germanorum libertas: cioè i Germani sono più fieri dei Parti, perchè i primi combatton per sè, gli altri pel regno degli Arsacidi. Ma siccome tutte le nazioni Germaniche erano nutrite da questo affetto, così v’era per loro pericolo di gravissime inimicizie: periculosiores sunt inimicitiae juxta libertatem. (Tac. Ibid. 21.). Oltre a ciò era dell'indole generosa dei Longobardi il mantenersi liberi non colla sommessione, ma coi rischj delle battaglie. Non per obsequium (Langobardi) sed praetiis et periclitando tuli sunt (Tac. ibid.40).
  12. Le divinità mitologiche, non furono in origine che allegorìe delle diverse qualità degli uomini. Nel primo stato, non essendovi in essi che senso e fantasia, non poteano riconoscere nè i buoni nè i cattivi attributi degli oggetti, senza che fossero loro presentati sotto qualche immagine materiale. Tali verità, senza ricorrere agli scrittori stranieri che si fecero belli delle nostre spoglie, noi le troviamo ampiamente dimostrate dagli altissimi ingegni di un Vico (Scienz. Nuov.) e di uno Stellini (De ortu et progress. mor.). Ora venendo alla divinità germanica di Wodan ci accade d’osservare, che il tedesco Wod o god (buono) potrebbe essere voce radicale di Wodan, che vorrebbe dire Dio buono. Paolo nel capo seguente insegna che Wodan è il Mercurio de’ Greci e de’ Romani. E il Vossio concorre nel crederlo il medesimo anco per l’analogia del suono del vocabolo, poichè Cicerone lo chiama Thoyt, Arnobio Theutates, Lattanzio Teuth, e finalmente Eusebio Thoth. Ciò si conferma ancor più da una osservazione di Bono Volcazio fatta a questo luogo istorico; ed è che i Belgi chiamano il giorno di Mercurio (mercordì) Woensdag, corrottamente da Wodensdag. L’asserzione di Paolo Diacono è riferita come fondamento istorico da tutti gli eruditi che parlarono di questa divinità. Per altro chi volesse maggiori dilucidazioni legga sopra gli altri Olao Wormio (In monumentis Danicis lib. 1 cap. 4), il Cluverio (German. antiqu. lib. I. cap. 27) e il Mallet nell’Introduzione alla storia di Danimarca.
  13. Quando sia verace l’etimologia, non v’è più nulla che dire sulla interpretazione di questo vocabolo. Alcune edizioni di Tacito citate dall’Oberlino (ved. not, all'art. 40 della Germ.) portano Longobardos e Longobardis; il che ancor più ajuta la spiegazione della parola. I più rinomati filologi stanno col nostro autore; non essendo probabile, come vogliono alcuni pochi, che il detto nome derivi dai Bardi della Sassonia. Noto è il verso di Ottone Fris. (De gestis Friderici Imperat.) riportato dal Guntero lib. 2, dal Ducange alla voce Langobardi, e da altri: Dicitur a longis ea Longobardia barbis.
  14. Il Gibbon racconta questo fatto anzi da oratore che da istorico. "Più feroci ancora dei Germani, essi compiacevansi nello spargere la spaventevol credenza, che le loro teste erano formate come le teste dei cani, e che essi bevevano il sangue de’ nemici vinti in battaglia" (loc. cit.). Ma nel modo che il fatto è raccontato da Paolo non può giudicarsi parto di naturale ferocia, bensì invenzione della mente aguzzata dalla necessità. In fine i Longobardi non l’usarono che come stratagemma militare. È però vero, che di questi cinocefali correva nel mondo la credenza. Plinio l’aveva convalidata: Cynocephalos hominum monstra canino capite et latratu apud Indos (lib. 6 cap. 30). Attila se ne valse per ispargere il terrore della sua persona nei popoli che assaltava; e talmente vi riuscì, che tuttora nel volgo sussiste l’opinione ch’ egli avesse la testa di cane, e che parlasse latrando.
  15. Anche questo è un altro stratagemma militare che fa onore a cotesti barbari. Uno simile ne fu usato da Belisario (presso Agatia lib. V 9 ). Cesare dal numero de’ fuochi accesi nel campo giudicava del numero degl’inimici: Quae castra ut fumo, atque ignibus significabatur, amplius mille IIX in latitudinem putebant (De bello Gall. lib. II). Vedi anche la nota di Bonaventura Vulcanio a questo luogo.
  16. Questo rito della saetta nel concedere la libertà indicato da Paolo, è riferito colle stesse sue parole dai Glossatori. Parmi che esso non possa derivare che dal costume antico dei Germani di non lasciar prender le armi ad alcuno, se non era riputato degno dalla città. Allora solamente il concilio, il principe, o il padre o un congiunto (parlando degl’ingenui) onoravano il meritevole di scudo e d’asta; la quale armatura era propria dei cavalieri. Arma sumere non ante cuiquam moris, quam civitas suffectorum probaverit. Tum in ipso concilio, vel principum aliquis, vel pater, vel propinquus scuto frameaque juvenem ornant (Tac. ibid. 13). È poi probabile che ai servi, i quali entravano nelle fanterie, si consegnasse la saetta come arme particolare dei fanti: pedites et missilia spurgunt, pluraque singuli atque in immensum vibrant (Tac. ibid. 6).
  17. Due cose sono qui sopra tutto da considerarsi intorno al diritto politico di quelle genti; cioè che ad esempio delle altre nazioni costituirono un re; è che questo scelsero fra i più nobili. Il luogo del testo regem sibi ad instar celerarum gentium statuerunt prova, che il detto è da riferirsi non alla potestà reale di fatto, ma all’ordinazione di quella. Non v’è dubbio, che fra molti popoli della Germania non fosse da principio in vigore il governo popolare; ma l’Eineccio stesso (ibid. I. 1. paragr. 17-24) accordandosi col Conringio conferma su questo esempio la massima, che le genti in istato di naturale rozzezza e unicamente dedite alla guerra, quantunque comincino dalla democrazia pura, nondimeno non possono non iscostarsi spontaneamente da quella e inclinare a certi temperamenti aristocratici, ovvero monarchici. Verità divenuta omai tanto palpabile, che solamente dagli acciecati lo spirito da alcuna predominante passione si potrebbe negare. E che la maggior parte delle genti germaniche antichissimamente avesse in fatto costituita la dignità reale lo si sa dagli storici. Noti sono i nomi di Arminio, di Ariovisto, di Maroboduo (Vellej. Paterc. 1. 11. c. 118. Tac. Ann. l. I. c. 55 e 63. Caesar, de Bello Gall. l. 1. c. 51 etc.). E re avevano i Cherusci, i Marcomanni, i Suevi, i Batavi, i Frisii, i Suioni, i Goti e parecchi altri (Einecc. I. c.). Il costume germanico nella scelta del re è pure espresso dal nostro Diacono, ove racconta che Agilmondo fu tolto dalla stirpe dei Gungicori, che era riputata più nobile delle altre il che sta coll’asserzione del primo pittore delle loro memorie: Reges ex nobilitate sumunt (Tac. ibid. 7). Per altro questi re non dominavano con impero assoluto, e lo stesso Tacito ce lo attesta coll'espressione che vien dietro all’altra testè acçennata: nec regibus infinita aut libera potestas.
  18. Gli storici parlano delle antiche Amazoni: essi le stabilivano sul Termodonte ai confini dell'Ircania; così Curzio (lib. 6. cap. 10) di queste donne: Hyrcaniae finitima gens Amazonum: circa Thermodoonta amnem, Themiscirae incolentium campos. E poi ne descrive l’abito e l’armatura: Vestis non modo toto Amazonum corpore obducitur. Nam laeva pars ad pectus est nuda; cetera inde velantur. Nec tamen sinus vestis, quem nodo colligunt, infra genua descendit. Altera papilla intacta servatur, qua muliebris sexus liberos alant: aduritur dextera, ut arcus facilius intendant, et tela vibrent. Vedi anche Giustino (lib. 2. c. 4). Quanto poi alle Amazoni germaniche noi dobbiamo stare alla testimonianza di Paolo. Tacito parla di certe donne dei Fenni, popoli prossimi ai Sarmati; le quali donne vestiansi di pelli, armavansi di saette, cacciavano unitamente agli uomini, e divideano con essi la preda (ibid. 46). Forse alcuno per caso vedendo queste cacciatrici le ha chiamate le Amazoni. Così un uffiziale spagnuolo, che approdò prima di tutti sulle sponde del Maragnon in America, fiume scoperto da Vincenzo Pinson nel 1500, vedendo presentarsi alcune femmine armate, chiamò quell’acqua il fiume delle Amazoni.
  19. Questa sentenza ricorda quella di Tacito, che coloro, i quali non provocati infievoliscono in troppo lunga pace, il fanno più con diletto che con sicurezza: nimiam ac marcentem diu pacem illacessiti nutrierunt: idque jucundius quam tutius fuit (ibid. 56).
  20. I Bulgari erano Sciti vaganti che faceano scorrerie dovunque poteano, disertando i paesi ne’ quali si scaricavano. Non è maraviglia, che una colonna di costoro, i quali fino dall’anno 489 si erano fatti conoscere nella Mesia inferiore, sia piombata improvvisamente sui Longobardi. I Bulgari sono chiamati dal Le Sage Barbari medj (Atlant. Stor. cart. 10): verso la fine del settimo secolo successero agli Avari, e si suddivisero poi in Croati, Schiavoni, Moravi, Wallachi, Bosniani ec.
  21. Sembrerebbe che i Longobardi creando re Lamissione avessero deviato dalla massima di scegliere i più nobili. Ma convien ricordarsi, che il re Agilmondo avea fatto allevare ed avea adottato per suo Lamissione. Agilmondo non avea altri che una figlia, la quale era stata già fatta schiava, e che i Longobardi erano disposti ad eleggere per loro regina. Onde eleggendo Lamissione, i Longobardi intesero di far omaggio al re morto. L’Eineccio conferma questa osservazione dietro l’esame di parecchi luoghi di Tacito colle seguenti parole: Sua enim interesse credebant Germani, parentum merita vel in filiis etiam honorari (ibid. I. 1. paragr. 17-24).
  22. Non ho creduto inutile di qui notare ristrette in un picciol quadro le azioni di questo re.
    Odoacre, da chi creduto figlio di un Tartaro ministro di Attila, da chi di nazione Rugo, da chi di stirpe Gotica, ma allevato in Italia fra le guardie del corpo degl’imperatori, accoppiava all’ardore e all’audacia d’un barbaro, il talento e l’avvedutezza d’un Italiano. Sceso dalle alpi Noriche con un esercito di Rugi, di Eruli, di Turcilingi comparve in un subito sui campi della Liguria: abbattè, saccheggiò, arse Pavia, prese Oreste generale Romano e l’uccise a Piacenza: passò colla rapidità del fulmine a Roma, e per lui l’Impero finì. Cadutogli in mano l’ultimo Romolo il confinò a Lucullano, senza privarlo delle dolcezze della vita; e con ciò diè a divedere che la prudenza politica può associarsi alla generosità del cuore. Le sue genti erano barbare; nè il loro generale avrebbe potuto dominarle frenando gl’impeti della loro ferocia; perciò le città d’Italia disparvero, perirono gli abitatori, la terza parte dei terreni fu data in preda ai soldati. Ma fra tanti orrori si vide sempre risplendere l’alto animo di Odoacre. Il suo governo pei popoli non fu crudele: la Chiesa, quantunque fosse Ariano, per lui non gemè: non un papa, non uno scrittore alzò lamenti contro alcuna sua manifesta violenza. Signore di tutta l’Italia stendeasi alla Dalmazia ed al Norico; e benchè re di fatto, per altro non ambivane il titolo. Egli seppe farsi rispettar dall’Oriente: per vincerlo ci voleano non i soldati Romani; ma quindici anni di soggiorno in Italia, e un re Ostrogoto con genti d’intera selvatichezza. Le sponde dell’Isonzo rammentano tuttora la sua prima sconfitta; nelle campagne Aquilejesi ancora si scavano le ossa e gli arnesi de’ suoi guerrieri: nè Verona potè ripararlo, nè Ravenna stessa sede fortissima del suo dominio: grande però fu la costanza di sua difesa; ma la fame potè più che il valore; nel caso estremo trattò di pace, nè altro domandò se non quello che avrebbe chiesto un filosofo: un angolo dell’Italia, ove passar tranquilli i suoi giorni. Se il vincitore Teodorico mancò alla fattagli promessa, e fra le feste e la giovialità di un convito lo ammazzò a tradimento, ciò volge in disonore il principio della gloria di un re sì famoso, e nulla toglie alla virtù d’Odoacre.
  23. Nella vita di s. Severino, scritta da Eugippio, si trova la esortazione fatta dal detto Santo al re de’ Rugi (Murat. ibid., vol. 3. pag. 249 ).
  24. Il Muratori (loco cit.) non è d’opinione che Odoacre abbia passato il Danubio, e sia entrato nel Rugiland, ma che la battaglia sia avvenuta al di quà del Danubio nel Norico.
  25. Da ciò venne il grado militare in Germania di Feldmarschall, maresciallo di campo.
  26. Pare che il ludere ad tabulam sia da tradursi giuocare alle dame, come intende il Gibbon (ibid.). Se non che presso i popoli Barbari era più in uso il giuoco delle sorti, e forse non sarebbe male il tradurre a questo luogo: giuocava ai dadi. Tuttavia non si può bene assicurarsi della sincerità dell’espressione, non essendo indicato nell’originale altro che l’istrumento sul quale il re giuocava: e della tavola si fa uso tanto per gli scacchi, quanto per le dame e pei dadi; onde gli antichi per indicare più chiaramente le particolarità del giuoco diceano ludere tesseris, ludere talis ec., e l’istromento sul quale si giuocava chiamavano tabula lusoria.
  27. Era del costume germanico il combattere ignudi, o vestiti di semplice sajo: nudi aut sagula leves (Tac. ibid. 6).
  28. Nota a questo luogo il Gibbon: “la coltivazione del lino suppone la proprietà, il commercio, l’agricoltura, le manifatture”. Da Tacito veramente si conosce, che gli antichi Germani poco curavansi d’agricoltura, di commercio, di manifatture; anzi egli li dipinge, fuor della guerra, dediti all’ozio, al sonno, alla crapola, lasciando il governo della famiglia alle donne ed ai vecchi. Quotiens bella non ineunt, multum venatibus, plus per otium transigunt, dediti somno ciboque... delegata domus et penatum cura feminis, senibusque (ibid. 15). La vicinanza degli Eruli all’Italia può aver in essi inspirato la cura della coltivazione del lino, il quale si trafficava facilmente in queste regioni. Dopo tanti secoli si conserva ancora nei paesi una volta occupati da quelle nazioni il genio di tale coltivazione, ed ivi regna molta industria nel tesser la tela, della quale si fa un continuo traffico nelle provincie dell’Italia settentrionale, ed altrove.
  29. Variano gli etimologisti sull’origine di questa voce. Il Salmasio la vuole dal Persiano Band (fascia), altri dal Settentrionale bann, cioè elevazione, il Ducange dal latino-barbaro bannum, nel senso che si usava questa parola pubblicando un editto, con cui una persona od una cosa era posta sotto la protezione del principe: perchè allora a questa per o cosa appendevasi per segnale un velo. Comunque siasi era questo il vessillo che si portava nelle battaglie, e da bandum a noi Italiani è venuto il vocabolo bandiera.
  30. Questo luogo c’insegna che l’avere un re presso quei popoli era un distintivo di potenza e di gloria; come era segno di abbiezione e di schiavitù l’esserne privi. Che nel re fosse riposta l’opinione della forza e della grandezza della nazione lo sappiamo da Tacito, che ci rappresenta con tratti sublimi il contegno ch’essi per lui tenevano nelle guerre: poichè da loro si riputava infamia e vitupero per tutta la vita il ritirarsi e sopravvivere al principe nella battaglia; ed era loro spezial giuramento il difenderlo, custodirlo, e le proprie prodezze ascrivere a gloria di lui: jam vero infame in omnem vitam ac probrosum, superstitem Principi suo ex acie recessisse. Illum defendere, tueri; sua quoque fortia facta gloriae ejus adsignare, praecipuum sacramentum est. Principes pro victoria pugnant; comites pro Principe (ibid. 14).
  31. Oggi Ungheria.
  32. Secondo il Muratori (Ann. d’Ital. 3. p. 233) i Gepidi possedevano tutto o parte della Dacia Ripense di quà del Danubio; ma Le Sage li pone al nord del Danubio, ove dice che aveano formato un regno dopo la morte di Attila (Vedi nell’Atl. Stor. la cit. cart. n.° 10).
  33. Questo costume nacque da quello che è descritto da Tacito (ibid. 13) e che è di sopra indicato alla nota 1. pag. 24, cioè che alcuno non poteva essere insignito delle armi, se prima non era reputato degno dalla città per qualche illustre azione. Le armi poi erano la toga, e il primo fregio di gioventù: Haec apud illos toga, hic primus juventae honos. Il medesimo rito rammemorato da Paolo Diacono fu osservato dal re degli Eruli, il quale ricevette le armi da Teodorico re degli Ostrogoti. Atalarico re degli stessi Ostrogoti fu pure insignito delle armi dall’imperator Giustiniano. Il qual costume si conservò in Germania fino al secolo XV. Tutte queste testimonianze sono riportate dall’Eineccio (ibid. II, paragr. 26, 27 e 28).
  34. Ceteris robustioribus, ac jampridem probatis adgregantur (Tac. loc. cit.).
  35. L’originale ha foetulae. La qual voce io non ho potuto intendere che per sinonimo di foetentes.
  36. Ad convivia prodeunt armati.
  37. Cesare fa un’insigne testimonianza dell’ospitalità di queste nazioni: Hospites violare nefas putant. Qui quave de causa ad eus venirent ab injuria prohibent, sanclosque habent (De Bell. Gall. VI. 23). Nè meno onorevoli sono le parole di Tacito: Quem cumque mortalium arcere tecto, nefas habetur (ibid. 21).
  38. Jornandes (cap. V.) colloca lungo la Vistola la nazione dei Vinidi, un ramo della quale erano gli Anti. Winidarum natio populosa... quorum nomina licet nunc per varias familias et loca mutentur, principaliter tamen Sclavini et Antes nominantur. E il Gibbon (ibid.) coll’appoggio di parecchi scrittori li pone nella piana regione della Moldavia e della Valachia. Osserva lo stesso autore, che questo titolo nazionale di Anticus preso nelle leggi ed iscrizioni da Giustiniano, e adottato da’ suoi successori, ha stranamente intricato i giureconsulti del medio evo.
  39. La barbarie si comporta col grande: alta sentenza del Vico, la quale applicata anco alle belle arti, combacia perfettamente col fatto. Dal grande poi allo stravagante evvi una linea quasi invisibile, passata la quale cessano tutte le ragioni e le attrattive del gusto. A tanto inconveniente non possono sempre riparare nè i precetti, nè le regole inveterate, nè la potenza stessa dei reggitori del mondo; poichè insito è agli animi umani il bisogno di sempre forti e novelli affetti; i quali deono necessariamente mostrare un'impronta consona alle circostanze particolari delle nazioni. Il tempio di s. Sofia spiega da una parte la sublimità del concepimento di Giustiniano, e dall’altra l’indole dei tempi ne’ quali fu fabbricato.
    Questo tempio fu edificato a Costantinopoli da Antemio di Tralli, città della Lidia, e da Isidoro di Mileto, sopra una vaga collinetta che sporge sul mare. La pianta è lunga piedi 252, larga 228. Una gran cupola, archi sovrapposti ad archi, colonne sovrapposte a colonne, ricchezza, magnificenza; ma nulla che rassomigli agli ordini Greci. Nell’interno la tua immaginazione è assorta dall’immensità; ma guardando l'esterno sei disgustato dalla goffaggine e dalla meschinità dell’aspetto.
    Il Ducange nella Costantinopoli Cristiana fece una diligentissima descrizione di questo tempio; ma per averne una chiara idea basta leggere il Milizia, Memorie degli Architetti I., p. 81.
  40. Paolo non era gran critico, e perciò guardò sotto un solo aspetto la storia di questo principe. Lasciando da parte Procopio, che fu stimolato a scrivere dall’odio profondo che nutriva contro di lui, noi troviamo anco negli altri storici alcuni fatti, dai quali si può comporre il vero ritratto morale di Giustiniano. Il Muratori, scrittore di infallibil giudizio e di fede angelica, narrando la morte del detto imperatore, aggiunge una conchiusione poco onorevole per la sua fama (ibid. p. 483). Su tali testimonianze io ho tentato di delinearne in brevi tratti il carattere.
    Le azioni di Giustiniano dimostrano invero un vastissimo ingegno e di cose straordinarie sempre bramoso; ma in fine i fondamenti del suo operare non erano che prepotenza d’ambizione ed inflessibile pertinacia di volontà. A questi principj devono riferirsi tanto i fatti gloriosi, quanto le memorie infelici del regno suo. La riforma dell’antica giurisprudenza, e le vittorie de’ suoi eserciti sono beni reali apportati al mondo: nè poco gli deve la posterità per aver tratto dall’Indie i vermi da seta, fonte d’immensi tesori; ma a traverso di tanta gloria si scorge l’intenzione del capo dell’impero, che operava non per lo Stato; ma soltanto per Giustiniano. Valevasi dei talenti degli uomini grandi allo stesso modo che delle sostanze dei sudditi; cioè come di cosa propria. Alcune fra le stesse leggi da lui ordinate portano l’impronta di sua natura, di maniera che la temperanza e la castità, virtù che cotanto onorano la vita di lui, nelle pene da esso imposte ai vizj contrarj compariscono quasi con nota di crudeltà. Belisario, stromento principale della grandezza e dello splendor dell’impero, che vecchio cieco e mendico porge la mano per ricevere dall’altrui pietà un obolo in elemosina, attesta qual fosse il cuore di Giustiniano: un Pontefice venerando esiliato, perchè sosteneva il diritto e l’onor della Chiesa, manifesta una fantasia ingombra della vertigine di quel secolo: il tempio di s. Sofia edificato con tante gabelle dei sudditi palesa un furore di vanità, ancor meglio espresso dal superbo suo detto: O Salomone, ti ho pur superato: per lo che in mezzo all’atrio della sapienza divina fu veduta pompeggiare la statua equestre dell’imperatore mortale. Ciò che avvenne dopo di lui prova, che una mente elevata e una volontà irremovibile, sostenute dalla potenza possono sì ritardare, ma non impedire il corso naturale delle umane vicende.
  41. Questo insigne personaggio, che sostenne tanti onori sotto Odoacre e Teodorico, e che seppe instillare stima ed amore per le lettere e per le scienze a quest’ultimo re, che pur non sapea segnare il nome, nel ritirarsi che fece dalla corte ci somministra una prova di più contro l’animo di Giustiniano. Ma gli studj da lui professati nel ritiro monastico sono una consolazione di quei barbari tempi. Il suo libro De septem disciplinis fu quasi il solo testo delle scuole fino ai giorni di Carlo Magno, e finchè Giovanni Scoto Erigenio segnò veramente il primo periodo della filosofia scolastica (Ved. Buhle Stor. della Filosof., vol. 3. Ediz. Mil. P: 354, 375). Le opere di Cassiodoro furono stampate la prima volta nel 1472, in foglio gotico da Giovanni Schüssler d’Augusta.
  42. Chiamavasi Dionisio Esiguo, ossia Piccolo: era di nazione Scita. Fu peritissimo nelle lingue Greca e Latina (Murat. ibid. p. 348).
  43. La prima stampa di Prisciavo fu eseguita in Venezia da Vindelino di Spira l’anno 1470, in fogl.
  44. Era nobile Romano e fu creato suddiacono da papa Vigilio. Il suo poema eroico Degli atti degli Apostoli fu letto pubblicamente in parecchi giorni nella chiesa di s. Pietro in Vincula con grandi applausi degli ascoltanti (Murat. ibid. p. 405).
  45. Ciò prova che il regno continuava ad essere elettivo.
  46. Di quelle genti disse Vellejo Palercolo con frase alquanto concettosa, che sono più della ferocia stessa feroci. Gens Germana feritate ferocior (Hist. II. 106).
  47. Isidoro (Etimolog. lib. XX. c. 5) vuole che scala venga dal greco κᾶλον lignum, ma il Vossio crede questa voce derivante dal gotico, non dal greco, appoggiando appunto a questo luogo di Paolo. E in fatto anco al presente i Germani ed i Belgi usano schaele in senso di coppa o bicchiere. Il Dufresne adduce molti esempj di scala in significato di vaso.
  48. L’originale Baioariorum, altri Bauiuariorum.
  49. Tacito (ibid. 2) nota questo costume: Celebrant carminibus antiquis, quod unum apud illos memoriae et annalium genus est.