Storia dei fatti de' Langobardi/Libro II

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DEI FATTI

DE’ LANGOBARDI


LIBRO II.


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CAPO I.

Come i Langobardi condotti da Narsete Cartolajo gli abbiano prestato mano contro i Goti.

A. D. 551.Risonando adunque per ogni dove le frequenti vittorie de’ Langobardi, Narsete cartolajo1 imperiale, il quale allora governava l’Italia, apparecchiandosi alla guerra contro i Goti, siccome era già prima in lega coi Langobardi, mandò ambasciatori ad Alboino, affinchè gli prestasse mano nella predetta guerra. Allora Alboino inviò in ajuto de’ Romani un corpo scelto de’ suoi, i quali [p. 64 modifica]trasportati in Italia pel golfo del mare Adriatico, ed unitisi ai Romani, incontrarono A. D. 552.battaglia coi Goti, ed avendoli interamente spenti insieme con Totila loro re2, rimunerati con molti doni, vittoriosi tornarono alle proprie sedi. E per tutto il tempo in cui i Langobardi tennero la Pannonia, furono sempre ausiliarj dei Romani contro i loro nemici.


CAPO II.

Narsete vince Buccillino ed Amingo capitano de’ Franchi.
Morte di Leutario altro capitano.

In questo tempo Narsete mosse guerra al capitano Buccillino, che Teudeberto re de’ Franchi, di ritorno nelle Gallie dopo [p. 65 modifica]d’essere entrato in Italia avea quivi lasciato per sottometterla interamente. Il qual Buccillino scorrendo e mettendo a sacco quasi tutto il paese, e mandandone in dono le ricche spoglie al suo re Teudeberto, mentre disponeasi a svernare nella Campania, alla fine sconfitto in un aspra battaglia, in un luogo che si chiama Tanneto, rimase morto. Mentre poi Amingo tentava di ajutare Vidino conte dei Goti, che s’era ribellato contro Narsete, ambidue furono vinti da questi. Vidino fatto prigione fu confinato a Costantinopoli, e Amingo fu ammazzato per mano del vincitore. Anche il terzo duce dei Franchi detto Leutario, fratello di Buccillino, mentre carico di grosso bottino sperava di tornare alla [p. 66 modifica]patria, morì di morte naturale fra Verona e Trento, presso il lago Benaco.


CAPO III.

Come Narsete uccise Sindualdo regolo degli Eruli,
che erasi ribellato contro di esso.

Inoltre Narsete guerreggiò contro Sindualdo re dei Bretoni3, che era l’unico superstite della stirpe degli Eruli, e che Odoacre avea condotto seco quando scese in Italia. Costui sulle prime fedelmente dedicato a Narsete fu da esso molto beneficato, ma infine, poichè temerariamente ribellò per voglia di regno, vinto e fatto prigione lo fece impiccare ad un’alta trave. A quel medesimo tempo pure Narsete Patrizio, per mezzo di Dagisteo maestro della milizia, uomo valoroso e forte, ottenne il comando di tutte le provincie d’Italia. Questo Narsete, prima cartolajo, pel merito delle sue imprese fu rimunerato coll’onore del Patriziato. Era uomo piissimo, di religione cattolico, [p. 67 modifica]liberale verso i poveri, molto intento a ristorare le chiese, e talmente fervoroso nelle vigilie e nelle orazioni, che più colle preghiere esalate al Signore, di quello che colle armi ottenea la vittoria.


CAPO IV.

Pestilenza che al tempo di Narsete desolò l’Italia.

A questi tempi nella provincia di Liguria spiegossi una grandissima pestilenza; per cui improvvisamente comparivano certi segni per le case, sulle porte, nei vasi e nelle vestimenta, i quali quanto più altri tentava di spacciare, tanto maggiormente ricomparivano. Passato poi un anno, cominciarono a nascere nelle anguinaglie degli uomini e in altri luoghi più delicati alcune glandule a modo di noci e di datteri, che erano seguitate dall’ardor intollerabile delle febbri, così che in tre giorni l’ammalato era morto. Che se per caso taluno passava i tre dì, poteva avere speranza di vivere. In ogni parte però v’era lutto, in ogni parte lagrime. E siccome era sparso tra il volgo, che coloro i quali fuggivano salvavansi dalla [p. 68 modifica]morte, lasciavansi le case vuote d’abitatori alla guardia dei cani, e i bestiami rimanevano soli nei pascoli senza guida d’alcun pastore. Veduto avresti le ville e i castelli in prima pieni di gran moltitudine, il giorno dietro per la fuga di tutte le genti in profondo silenzio: allontanavansi i figli lasciando insepolti i cadaveri de’ loro padri; e spenta la compassione nel cuore de’ genitori, abbandonavano i moribondi figliuoli. Che se per sorte taluno sentiasi stringere ancora dall’antica pietà a seppellire i suoi prossimi, restava egli stesso insepolto; onde per far bene altrui perdeva la propria vita, e nel rendere il tributo de’ funerali, rimaneva egli senza l’onor dell’esequie. Veduto avresti il mondo restituito alla solitudine del tempo antico: non una voce nelle campagne, non un sibilo di pastore, niuna insidia di belve agli armenti, nessun danno ai domestici uccelli. I seminati, trascorso il tempo della ricolta, intatti aspettavano il mietitore; la vigna, cadute le foglie, mostrava illesa le uve raggianti. Se non che all’appropinquar dell’inverno in certe ore del giorno e della notte ululava la tromba guerriera, e udivasi da molti quasi il romoreggiar di un esercito. Non v’era orma alcuna di [p. 69 modifica]viandante, non scorgevasi alcun feritore, e non dimeno i corpi morti superavano la vista degli occhi. I luoghi pastorali eransi cangiati in sepolture di uomini, e le abitazioni umane erano diventate i covili delle fiere. E questi guai accaddero solamente ai Romani dentro l’Italia, fino al confine degli Alemanni e dei Bavari. Duranti le quali cose avendo cessato di vivere l’imperator Giustiniano, Giustino minore prese a governar la repubblica in Costantinopoli. E a questo medesimo tempo Narsete patrizio, la cui mente vegliava a ogni cosa, pigliò finalmente Vitale vescovo della città di Altino4, che molti anni prima erasi rifugiato nel regno de’ Franchi nella città Magonziense5, e lo rilegò in Sicilia. [p. 70 modifica]

CAPO V.

Invidia dei Romani contro Narsete.

Poichè dunque Narsete, come s’è detto, ebbe disfatta o superata tutta la nazione dei Goti, e similmente ebbe debellati gli Unni, avendo accumulato gran copia d’oro e d’argento e di diverse altre ricchezze, destò contro di se l’invidia dei Romani, a favore dei quali avea sofferti tanti travagli contro i loro nemici; ond’essi contro il medesimo tennero a Giustino Augusto, ed alla sua moglie Sofia il seguente discorso: È meglio pei Romani il servire ai Goti che ai Greci, dove domina un Narsete eunuco, è noi preme col giogo servile, delle quali cose nulla sa il nostro piissimo imperatore: per lo che, o liberaci dalle sue mani, ovvero daremo Roma e noi stessi alle nazioni straniere. Ciò avendo saputo Narsete, proferì queste brevi parole: Se io ho fatto male ai Romani, male ritroverò. Allora Augusto talmente irritossi contro Narsete, che sul fatto mandò Longino prefetto ad occupare il luogo che teneva Narsete; laonde questi grandemente turbossi, e tanto terrore concepì della [p. 71 modifica]imperatrice Sofia, che non ardì più di tornarsene a Costantinopoli. A cui, fra le altre cose, poichè era castrato, narrasi aver ella mandato a dire che andasse nel Gineceo a dividere i lavori delle lane colle fanciulle. Alle quali parole si dice che abbia risposto Narsete: Esser egli per ordire ad essa sì fatta tela, che in sua vita non avrebbe saputo disfare. Pertanto dall’odio è dal timore agitato ritirossi nella città di Napoli, donde subito mandò un’ambasciata ai Langobardi, esortandoli ad abbandonare le miserabili campagne della Pannonia, ed a venire al possesso dell’Italia di ogni genere di dovizie ripiena. Nello stesso tempo fece loro arriva re varie specie di frutti, e diverse altre cose, delle quali l’Italia è ferace, affinchè da ciò gli animi loro allettati, affrettassero la venuta. I Langobardi esultanti accettano i lieti annunzj, da essi già tanto desiderati, e tosto si sollevano alla speranza de’ beni avvenire. Intanto sopra l’Italia si videro terribili segni notturni, poichè apparvero eserciti di fuoco nel cielo, quasi raffiguranti quel sangue che fu poscia versato6. [p. 72 modifica]


CAPO VI.

Come Alboino chiamò i Sassoni in suo soccorso.

Poichè Alboino fu per passare in Italia coi Langobardi, chiese un sussidio dai Sassoni, suoi antichi amici, per entrare molta gente al possesso di un così spazioso paese. E i Sassoni si radunarono oltre a ventimila uomini colle loro mogli e coi lor pargoletti per venir con esso, siccome bramava, in Italia. Il che avendo inteso Clotario e Sigisberto re dei Francesi, trasportarono i Suevi ed altre nazioni nei luoghi dai Sassoni abbandonati. [p. 73 modifica]

CAPO VII.

Come Alboino, abbandonata la Pannonia venne coi Langobardi in Italia.

A.D.568.Allora Alboino comparti il proprio territorio, cioè la Pannonia, agli Unni suoi amici, con questo patto però, che se i Langobardi fossero stati costretti a tornare indietro, potessero ancora ricuperare le loro terre. Ciò fatto i Langobardi, lasciata la Pannonia, con le mogli, i figliuoli e con tutti i loro bagagli s’affrettano spinti dalla brama di possedere l’Italia. Aveano essi abitato la Pannonia pel corso di quarantadue anni, e da questa uscirono il mese d’aprile, correndo la prima indizione, il secondo giorno di Pasqua: la qual festa cadde quell’anno, giusta il calcolo, nel dì primo aprile dell’anno dell’Incarnazione del Signore dlxviii. [p. 74 modifica]

CAPO VIII.

Alboino giunto ai confini dell’Italia ascende un’alta montagna.

Essendo arrivato il re Alboino con tutto l’esercito e con una gran turba di popolo agli estremi confini d’Italia, ascese il più alto monte di quei luoghi, e da di là contemplò tutta quella parte del paese, su cui potè spaziare coll’occhio. Per la qual cagione si racconta, che il detto monte fin da quel tempo fu chiamato il Monte del re7. Ed è voce, che quivi si alimentino certe fiere chiamate bisonti8; del che non è maraviglia, poichè esso monte giunge a toccar la Pannonia, dove assai prolificano sì fatti animali. Onde mi raccontò un tale [p. 75 modifica]integerrimo vecchio di aver veduto la pelle di un bisonte ucciso in quella montagna, sulla qual pelle, com’egli diceva, quindeci uomini poteano sdrajarsi l’un dietro l’altro9.


CAPO IX.

Alboino, oltrepassati i confini delle Venezie,
costituisce Gisulfo suo nepote duca del Friuli.

Come poi Alboino ebbe oltrepassati senza alcun ostacolo i confini della Venezia, la quale è la prima provincia d’Italia, vale a dire ch’entrò nel circondario della città, o per meglio dire castello Forogiuliano, cominciò a pensare a cui dovesse affidare la prima delle provincie che avea conquistato. Stantechè tutta l’Italia, che verso il mezzodì, o piuttosto verso l’Euro si stende, è circuita dal mar Tirreno o dall’Adriatico, all’occidente poi ed all’aquilone è talmente chiusa d’ogni parte dai gioghi delle alpi, che se non per angusti passi, e per le cime de monti non vi si può penetrare. Ma [p. 76 modifica]dalla parte orientale, dove si congiunge con la Pannonia, ha molto più larga e spaziosa entrata. Alboino dunque, come dicemmo, pensando fra se a qual comandante dovesse affidare si fatti luoghi, deliberò di commettere la città Forogiuliana, e tutto il territorio di quella a Gisulfo (secondo che si dice) suo nipote, uomo ad ogni cosa abilissimo: il quale era già suo grande scudiere, ciò che nella propria lingua chiamano Marpahis10. Ma Gisulfo gli disse che non avrebbe accettato il governo della città e del popolo, se prima non gli avesse concesso quelle Fare, cioè generazioni o famiglie, ch’egli avesse scelte a suo piacimento11. Onde avvenne che, col consenso del re, rimasero ad [p. 77 modifica]abitar seco le principali prosapie dei Langobardi da esso desiderate; e per tal modo conseguì la dignità di Duca. In pari tempo chiese dal re alcune mandre di generose cavalle, ed anco in ciò fu dalla liberalità del principe esaudito.


CAPO X.

Dei re, che a quel tempo regnavano in Francia, e del papa Benedetto.

In quei giorni ne’ quali i Langobardi entrarono nell’Italia, il regno de’ Franchi, per la morte del re Clotario, era governato da’ suoi figliuoli in quattro parti diviso. Il primo di questi, Ariperto, avea la residenza in Parigi; il secondo, Guntranno, presiedeva alla città Aurelianense12; il terzo, Ilperico, avea il seggio fra i Sennoni13 nel luogo di suo padre Clotario; finalmente il quarto, Sigisberto, regnava nella città Metense14. In questo stesso tempo reggeva la Chiesa Romana il papa Benedetto, uomo [p. 78 modifica]santissimo, e il beato Paolo patriarca15 presiedeva alla città e al popolo d’Aquileja. Questi, paventando la barbarie dei Langobardi, da Aquileja rifugiossi all’isola di Grado, trasportando seco tutto il tesoro della sua chiesa. Nell’anno stesso al cominciar dell’inverno cadde tanta neve nella pianura, quanta ne suol cadere sulla sommità delle alpi; e nell’estate che venne appresso fu tanta abbondanza, che alcuna età non registrò mai l’eguale. Parimente in quel tempo gli Unni, detti anche Avari, intesa la morte del re Clotario, si rivolsero ad assalire il figlio suo Sigisberto: il quale andando loro in contro nella Turingia, valorosamente gli sconfisse nelle vicinanze del fiume Albi. A questo Sigisberto si congiunse in matrimonio Brunichilde, proveniente dalle Spagne: dal la quale ebbe un figlio di nome Childeberto. E un’altra volta gli Avari, combattendo con Sigisberto negli stessi luoghi di prima, ruppero l’esercito de’ Francesi, e guadagnarono la vittoria. [p. 79 modifica]

CAPO XI.

Morte di Narsete.

Ma Narsete ritornando dalla Campania a Roma, poco tempo dopo chiuse gli occhi alla luce; e il corpo di lui, posto in una cassa di piombo, con tutte le sue ricchezze fu trasportato a Costantinopoli16. [p. 80 modifica]

CAPO XII.

Di Felice vescovo di Trevigi.

Giunto Alboino al fiume Piave17, gli si fece incontro Felice vescovo della chiesa Trevigiana: alle istanze del quale il re, siccome era liberalissimo, concesse tutta la facoltà della sua chiesa, e con una pragmatica gli ratificò tutte le sue domande.


CAPO XIII.

Dello stesso Felice, e di Fortunato uomo sapientissimo.

Poichè dunque abbiamo fatto menzione di questo Felice, ci piace riferire alcuna cosa del venerabile e sapientissimo Fortunato, [p. 81 modifica]il quale afferma di aver avuto per compagno suo il detto Felice. Nacque dunque Fortunato (di cui parliamo) in un luogo che si chiama Duplavile18 (il qual luogo non è lontano dal castello Cenedese, nè [p. 82 modifica]molto è distante dalla città di Trevigi) ma fu allevato e ammaestrato a Ravenna, e divenne chiarissimo in grammatica, in rettorica e in geometria. Questi tormentato da un fierissimo dolore di occhi, ed essendo del pari travagliato dallo stesso male il suo compagno Felice, andarono insieme alla Basilica de’ Ss. Giovanni e Paolo, situata nella stessa città. Dentro di quella avvi un altare eretto ad onore di s. Martino, che ha una finestra vicina, ove è serbata una lucerna accesa, coll’olio della quale i detti Fortunato e Felice essendosi unti gli occhi infermi, subito cessò il dolore, e ricuperarono la bramata salute. Per la qual cagione Fortunato ebbe presa tanta devozione al beato Martino, che abbandonata la patria poco prima che i Langobardi entrassero nell’Italia, s’incamminò alla volta di Turone a visitare il sepolcro del medesimo santo. E come egli racconta: ne’ suoi versi, fece il viaggio per fiumi, monti, valli, castelli e ville19, finchè [p. 83 modifica]secondo il suo voto giunse a Turone. Passando per Pittavi20, si fermò, ed ivi de scrisse molti miracoli di santi, prosa ed in verso. Finalmente fatto prete in quella città, fu poi ordinato vescovo, e nello stesso luogo ora egli riposa onoratamente sepolto. Questi espose la vita di s. Martino in quattro libri di versi eroici, con molte altre cose, e massimamente gl’inni di tutte le feste; oltre di che, non inferiore ad alcun poeta, compose con istile eloquente e soave parecchi versi per ciascheduno de’ suoi amici. Alla sua sepoltura essendo io giunto per far orazione, scrissi un epitafio per consiglio di Apro abate del medesimo luogo. Tali cose in pochi cenni intorno a sì gran personaggio ho toccate, affinchè i suoi con cittadini non ignorassero i principj della sua vita. Ora torniamo a riprendere l’ordine della storia. [p. 84 modifica]

CAPO XIV.

Alboino conquista la Provincia Veneziana.

Alboino adunque prese Vicenza, Verona, e le altre città Veneziane, eccettuate Padova, Monselice e Mantova. Perchè Venezia non consiste solamente in quelle poche isolette, che ora chiamiamo le Venezie; ma il suo territorio dal confine della Pannonia21 si prolunga fino al fiume d’Adda: il che si prova dagli annali, dove si legge che Pergamo era città di Venezia. Ed anco nelle storie, del lago Benaco così leggiamo: Benaco lago delle Venezie, i onde esce il fiume Mincio. Gli Eneti poi, benchè dai Latini si aggiunga una lettera, in greco si chiaman laudabili22. Alla Venezia si [p. 85 modifica]congiunge anche l’Istria, ed ambedue si tengono per una sola provincia. Dal fiume Istro prese il suo nome l’Istria, la quale, secondo la storia romana era molto più ampia di quello che ora non è23. Della detta

[p. 86 modifica]Venezia fu capo la città d’Aquileja; ed ora fa le veci di quella il Foro di Giulio, così nominato, perchè si sa che Giulio Cesare stabilì in esso una piazza di negoziazione24.

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CAPO XV.

Della Liguria seconda provincia d’Italia, e delle due Rezie, che formano la terza e la quarta.

Non reputo fuor di proposito il far qual che breve cenno anco dell’altre provincie d’Italia. La seconda provincia adunque [p. 88 modifica]

chiamasi Liguria dai legumi che in essa raccolgonsi, e de’ quali ella è fertilissima. In essa v’è Milano e Ticino, che con altro nome si chiama Pavia. Stendesi fino ai confini dei Galli; e fra questa e la Suevia, che è una provincia25 dell’Alemagna posta verso settentrione, vi son due altre provincie situate fra le alpi, cioè la Rezia prima, e la Rezia seconda, nelle quali propriamente si sa che abitano i Reti. [p. 89 modifica]

CAPO XVI.

Della quinta provincia d’Italia, che comprende l’alpi Cozie,
e della sesta che chiamasi Tuscia.

La quinta provincia è quella dell’Alpi Cozie, così denominate dal re Cozio, che visse al tempo di Nerone26. Questa provincia dilatasi verso Euro fino al mare Tirreno, e dall’occidente congiungesi al confine dei Galli. Trovansi in essa le città di Aqui, di Tortona, il monistero di Bobio, e Genova pure e Savona. La sesta provincia è la Tuscia, così chiamata da tus (incenso), che il popolo della medesima superstiziosa mente abbruciava nei sagrifizj ai suoi Dei. Verso ponente27 le si congiunge l’Aurelia; e dalla parte d’oriente l’Umbria. In questa provincia piantata fu Roma, la quale un [p. 90 modifica]tempo fu capo di tutto il mondo. Nell’Umbria, che si pone per una parte della medesima, stanno Perugia, il lago Clitorio28 e Spoleto. L’Umbria poi è così chiamata da imbribus (pioggie) per essersi salvata dalle acque, che anticamente con orribilissima strage inondavano i popoli.


CAPO XVII.

Della Campania, settima provincia d’Italia, e dell’ottava detta Lucania, o Bruzia.

La settima provincia, che è la Campania, stendesi da Roma fino al Silaro, fiume della Lucania. In essa son poste le opulentissime città di Capoa, di Napoli e di Salerno: e fu chiamata Campania dalla grassissima campagna di Capoa; se non che essa è nella massima parte montuosa. La ottava poi è la Lucania, la quale ebbe il nome da lucus, cioè da un certo bosco, che [p. 91 modifica]comincia dal fiume Silaro e dalla Bruzia (così appellata dal nome d’una sua antica regina) e va a toccare lo stretto della Sicilia per le foci del mar Tirreno, tenendo il destro corno d’Italia, come le due superiori. Nella quale provincia le città di Pesto, Lamo, Cassiano, Costanza e Reggio son collocate.


CAPO XVIII.

Dei monti Apennini, nona provincia d’Italia, e della decima detta Emilia.

La nona provincia ha la sede nelle alpi Apennine, le quali cominciano dove finiscono le alpi Cozie. Queste alpi Apennine dirigendosi per mezzo l’Italia dividono la Tuscia dall’Emilia, e l’Umbria dalla Flaminia; nella quale sono le città di Ferroniano29, Montebello, Bobio ed Urbino, non che il castello che si chiama Verona30. Le alpi Apennine furono così chiamate dai Peni31, cioè da Annibale e dal suo esercito, [p. 92 modifica]che, andando verso Roma, le valicarono. Avvi chi afferma esser l’alpi Cozie e Apennine una sola provincia: il che però è contraddetto dall’istoria di Vittore32; la quale chiama le alpi Cozie una provincia da sè. La decima poi è l’Emilia, che cominciando dalla Liguria, fra le alpi Apennine e la corrente del Po, stendesi verso Ravenna. Questa provincia è ornata di doviziose città, cioè Piacenza, Parma, Reggio, Bologna e il Foro Cornelio, il cui castello si chiama Imola. Fuvvi ancora taluno, che disse l’Emilia, la Valeria, la Nursia una sola provincia; ma questa opinione manca di fondamento, perchè fra la Emilia, la Valeria e la Nursia sono poste la Tuscia e l’Umbria.

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CAPO XIX.

Della Flaminia e del Piceno, che formano l’undecima e la duodecima provincia d’Italia.

L’undecima delle provincie è la Flaminia, situata fra il mare Adriatico e le alpi Apennine, in cui sorge la nobilissima Ravenna con altre cinque città, dette con vocabolo greco Pentapoli. Ed è noto l’Aurelia, l’Emilia e la Flaminia così appellarsi dalle vie selciate che vengon da Roma33, e dai nomi di coloro che le hanno costrutte. Dopo la Flaminia viene il Piceno, duodecima provincia, che dall’Austro ha i monti Apennini, e dall’altra parte il mare Adriatico. Distendesi questa fino al fiume Piscario34, in cui vi si trovano le città di [p. 94 modifica]Fermo, Ascoli e Penna, e l’Adria disfatta dal tempo, che diede il nome al mare Adriatico. Mentre gli abitatori della detta provincia dei Sabini verso di essa s’incamminavano, un picchio (picus) andò a poggiare sul loro stendardo, e perciò furon chiamati Piceni.


CAPO XX.

Della Valeria e della Nursia, e di Sannio, che costituiscono la decimaterza e la decimaquarta provincia d’Italia.

La terzadecima provincia è la Valeria, alla quale è congiunta la Nursia: è posta fra l’Umbria e la Campania, ed a levante confina colla regione dei Sanniti. La parte occidentale di questa, che prende cominciamento dalla città di Roma, anticamente dal popolo Etrusco, fu detta Etruria. Essa contiene le città di Tivoli, Carsoli35, Rieti, Forconio36, Amiterno e la regione dei [p. 95 modifica]Marsi, col lago dei medesimi, che si chiama Fucino. Ed io giudico, che il paese dei Marsi debba considerarsi nella Valeria, per la ragione che dagli antichi non si trova descritto nel catalogo delle provincie d’Italia. Che se taluno con fondamento di verità provasse essere stata la medesima una provincia particolare, una tale comprovata opinione dovrebbe essere in ogni modo accettata. La quartadecima è Sannio che, cominciando dalla Pescara, è collocata fra la Campania, la Puglia ed il mare Adriatico. Si trovano in essa le città di Teate, Aufidena, Esernia, e la dal tempo consunta Sannio37, da cui prese il nome quella provincia. La capitale poi di tutte queste provincie è la ricchissima Benevento. Ma i Sanniti trassero il nome anticamente dalle aste, che soleano portare, e che i Greci chiamano Samia38. [p. 96 modifica]

CAPO XXI.

Della Calabria, dell’Apulia e di Salento, che formano la decimaquinta Provincia.

La quinta decima provincia è l’Apulia colla Calabria ad essa riunita, nella quale v’è la regione Salentina. Questa dall’occidente e dall’Africo confina con Sannio e colla Lucania, ed a levante è terminata dal mare Adriatico. La stessa contiene le opulente città di Luceria, Seponto, Canusio39, Agerenzia, Brindisi e Taranto; e nel sinistro corno d’Italia, che stendesi per miglia cinquanta, la pel commercio opportunissima Otranto. Apulia poi è detta dalla perdizione40, stantechè ivi dall’ardor del sole la verzura della terra si perde. [p. 97 modifica]

CAPO XXII.

Della Sicilia, sestadecima, della Corsica, decimasettima, e della Sardegna decimaottava provincia d’Italia.

Per sestadecima província è annoverata l’isola di Sicilia, la quale si bagna dal mar Tirreno ossia Jonio, e così chiamasi dal nome proprio del duce Siculo. Per decimasettima la Corsica, e decimaottava si pone la Sardegna, ambedue cerchiate dalle onde del mar Toscano. La Corsica poi fu così detta da un suo capo di nome Corso, e la Sardegna da Sardo figliuolo di Ercole.


CAPO XXIII.

Per qual cagione una parte d’Italia chiamasi Gallia Cisalpina.

Certo è nondimeno che la Liguria, una parte della Venezia, e l’Emilia pure e la Flaminia dagli antichi istoriografi Gallia Cisalpina è stata chiamata. Ond’è che [p. 98 modifica]Donato il grammatico nella esposizione di Virgilio disse, Mantova essere nelle Gallie; e parimente nella Storia Romana si legge che Arimini è nelle Gallie medesime collocata. Perciocchè Brenno re de’ Galli, il quale regnava nella città di Senona venne in Italia con trecentomila Galli Senoni, e fino a Seno-Gallia41 (così dai Galli appellata) l’occupò interamente. Scrivesi poi, che la cagione della venuta de’ Galli fu la seguente: cioè che assaggiando essi il vino dall’Italia portato, incitati dall’avidità di quello nell’Italia stessa passarono. Mentre centomila di costoro non lungi dall’isola di Delfo facevano scorreria, furono spenti dalle armi de’ Greci. Ed altri centomila entrati in Galazia, primieramente Gallo-Greci, poscia furono chiamati Galati: e questi sono gli stessi ai quali Paolo dottor delle genti scrisse una lettera. Gli altri centomila Galli, che rimasero nell’Italia, e che edificarono Ticino, Milano, Pergamo e Brescia alla regione della Gallia Cisalpina diedero il nome. Son questi quei Galli Senoni, che anticamente saccheggiarono la città di Roma. E poichè diciamo Gallia Transalpina quella di là [p. 99 modifica]dall’alpi, così quella al di qua Gallia Cisalpina si chiama.


CAPO XXIV.

D’onde venga il nome d’Italia, e perchè si chiami anche Ausonia e Lazio.

L’Italia, la quale contiene tutte queste provincie trasse il nome da Italo capo de’ Siciliani, che anticamente la conquistò. Se pure Italia non si chiami dall’essere in essa di grandi buoi, che si dicono Itali; perchè da questo Italus per diminuzione, aggiuntavi cioè una lettera, e mutatane un’altra, si dice vitulus42. Ma l’Italia dicesi anche Ausonia da Ausono figliuolo di Ulisse. Fu primieramente con questo nome chiamata la regione Beneventana; poscia così cominciossi a nominare tutta l’Italia. E ancora l’Italia dicesi Lazio, perchè fuggendo Saturno da Giove suo figliuolo in essa trovò un asilo. Ora, dappoichè a sufficienza si è parlato delle provincie dell’Italia e [p. 100 modifica]del nome di quella, dentro la quale accadero i fatti che da noi si descrivono, ritorniamo all’ordine della nostra istoria43.


CAPO XXV.

Alboino entra in Milano.

Essendo dunque Alboino passato nella Liguria, entrò in Milano sul principio della terza indizione, il dì cinque settembre44 A. D. 569. al tempo di Onorato arcivescovo. Conquistò poscia tutte le città della Liguria, eccettuate quelle che sono poste sulla spiaggia marittima. Ma l’arcivescovo Onorato abbandonando Milano riparossi a Genova45. E Paolo [p. 101 modifica]Patriarca46, sostenuto per anni dodici il Sacerdozio, fu tolto da questa vita, e lasciò il reggimento della chiesa a Probino.


CAPO XXVI.

Come la città di Ticino fu assediata per tre anni, e perchè i Langobardi abbiano invasa la Toscana.

A quel tempo la città Ticinense, assediata da più di tre anni, valorosamente si difendeva, mentre l’esercito de’ Langobardi era lì prossimo dalla parte d’occidente accampato. Intanto Alboino fatti avanzare i soldati occupò tutte le terre fino in Toscana, eccetto Roma e Ravenna, e alcune castella poste sulla riva del mare. Nè più aveano allora i Romani vigor di resistere, sì perchè la [p. 102 modifica]peste avvenuta sotto Narsete47 avea spenta gran gente nella Liguria e nelle Venezie, e sì anche perchè all’anno dell’abbondanza da noi accennato, essendo sottentrata una orribilissima carestia, spopolava questa tutta l’Italia. Certo è poi, che Alboino trasse con se nell’Italia moltissime di quelle diverse genti, che altri re, o egli stesso avea conquistate; onde anche al di d’oggi noi chiamiamo i paesi ne’ quali essi abitano coi nomi di Gepidi, Bulgari, Sarmati, Pannonj, Suavi, Norici e altri di simile origine48.


CAPO XXVII.

Come Alboino entrò nella città di Ticino.

A. D. 571.Finalmente la città Ticinense dopo d’aver sostenuto per tre anni ed alcuni mesi [p. 103 modifica]l’assedio si arrese ad Alboino ed ai Langobardi che l’assediavano. Onde entrando Alboino dalla parte orientale della città, per la porta che chiamasi di s. Giovanni, in mezzo diquella stramazzo il suo cavallo e quantunque stimolato dagli speroni e flagellato dallo staffiere49, non potea mai rilevarsi. Allora uno de’ suoi Langobardi si volse al re con queste parole: Ricordati, o re mio signore, del voto che tu facesti. Rompi sì duro voto, ed entrerai tosto nella fortezza: chè veracemente cristiano è il popolo di questa città. Perchè Alboino avea giurato di far passare a fil di spada tutto il popolo, il quale rifiutava di arrendersi. Onde frangendo egli sì fatto voto, e promettendo ai cittadini clemenza, incontanente rialzossi il cavallo, ed entrato nella città mantenne la sua promessa senza far offesa ad alcuno. Allora, affollandosi il popolo intorno a lui nel palazzo già edificato dal re Teodorico, dopo tanti travagli cominciò a sollevar l’animo, fidando nella speranza di un migliore avvenire. [p. 104 modifica]

CAPO XXVIII.

Come Alboino, dopo tre anni di regno in Italia, per tradimento della moglie fu ucciso da Elmichi.

A. D. 573.Ma questo re, dopo d’aver regnato nell’Italia tre anni e sei mesi, a tradimento dalla moglie fu ucciso: e la causa della sua morte fu questa. Mentre allegro oltre il dovere egli sedeva a convito nella città di Verona, ordinò che si desse del vino alla regina nel la tazza ch’egli avea fatto fare del cranio del re Cunimondo suo suocero, ed invitolla a bere allegramente col padre. E affinchè ad alcuno non sembri la cosa impossibile (chiamo Cristo in testimonio del vero) io stesso in un certo giorno festivo ho veduto il principe Ratchi che teneva in mano questo bicchiere, e lo mostrava ai suoi convitati. Poichè dunque Rosmunda ciò intese, suscitandosi un immenso dolor nel suo cuore, nè potendo in modo alcun temperarlo, arse in un subito a segno, che giurò di vendicare la morte del padre con quella di suo marito. Onde tosto consigliò con Elmichi [p. 105 modifica]scudiere del re50 e suo fratello di latte51 della maniera di dargli morte. Costui persuase alla regina di trarre in questa deliberazione Peredeo uomo valorosissimo. Ma poichè questi ributtò le insinuazioni di costei a sì nefando delitto, si coricò ella di notte tempo nel letto di una sua damigella, che era la concubina del medesimo Peredeo; ond’egli ignaro della cosa venne e si giacque colla regina. Poichè fu consumato il delitto colei gli domandò: Chi credi tu ch’io mi sia? Ed avendo egli proferito il nome dell’amica la quale credeva che fosse, la regina soggiunse: Non sono colei che tu credi: io sono Rosmunda. E certo, o Peredeo, tu hai ora fatto tal cosa, per cui o tu devi ammazzare Alboino, o esser tu trapassato dalla sua spada. Allora conobbe il male che aveva commesso; e quegli, che volontariamente erasi rifiutato, fu per tal modo [p. 106 modifica]costretto ad assentire alla morte del re. Perciò Rosmunda, mentre Alboino prendeva saporitamente il sonno pomeridiano, intimò nel palazzo profondo silenzio, e sottraendo le altre armi tutte, legò stretta la spada52 di lui alla testa del letto, in guisa che non potesse essere nè tolta, nè sfoderata; poi, giusta il consiglio d’Elmichi, quella crudelissima di tutte le fiere, introdusse l’uccisor Peredeo. Quando repente si scosse dal sonno Alboino, e presentendo la sventura che gli sovrastava, portò rapidamente la mano alla spada, la quale non potendo egli sguainare per essere strettamente legata, abbrancò invece uno sgabello da piedi, con quello per qualche tempo stette in difesa. Ma ahi sciagura! quest’uomo bellicosissimo e di sommo ardimento, non potendo usare il suo valore contro dell’assassino fu scannato al pari di un imbecille: per tradimento di una donnicciuola peri colui, che per la uccisione di tanti nemici riuscì famosissimo. Il suo corpo con immenso pianto e lamentazioni dei Langobardi fu sepolto sotto i gradini di una certa scala contigua al palazzo. Era egli di statura alta, e le [p. 107 modifica]forme di tutto il suo corpo erano quelle di un uomo nato per esser guerriero. Ai nostri giorni Giselberto, che fu duca dei Veronesi, aperse la sua sepoltura, e portò via la sua spada con tutti quegli altri ornamenti che vi potè ritrovare. Costui, con quella millanteria che suole usarsi cogli ignoranti, dava ad intendere, che Alboino gli era apparso in visione53. [p. 108 modifica]

CAPO XXIX.

Varj tentativi di Elmichi per ottenere il regno.

Morto Alboino, Elmichi tentò d’usurpare il regno; ma invano, perchè i Langobardi dolentissimi della morte del primo, macchinavano di ammazzarlo. Onde tantosto Rosmunda commise a Longino prefetto di Ravenna che prestamente le dirigesse un naviglio, sul quale potessero entrambi salvarsi. Rallegratosi Longino a tale ambasciata, frettolosamente diresse loro un nave, su cui Elmichi e sua moglie Rosmunda saliti, col favor della notte fuggendo e seco trasportando Albsuinda figliuola del re con tutto il tesoro de’ Langobardi, approdarono in brevissimo tempo a Ravenna. Allora il prefetto Longino cercò d’insinuare a Rosmunda di uccidere Elmichi, e a prender lui per marito. E siccome colei era prona ad [p. 109 modifica]ogni scelleratezza, bramando di diventare signora de’ Ravennati, annuì a cotanto misfatto. Onde mentre Elmichi usciva dal bagno, ove era stato a lavarsi, gli porse, a pretesto di salutare ristoro, una avvelenata bevanda. Ma egli accorgendosi di bere in quella tazza la morte, sfoderata impetuosamente contro di essa la spada, la costrinse a berne il restante. E così, per giudizio dell’onnipotente, i due perfidissimi traditori in un solo momento perirono.


CAPO XXX.

Come Longino mandò all’imperatore di Costantinopoli Albsuinda col tesoro dei Langobardi, e come Peredeo ivi uccise un leone.

Morti per tal modo costoro, il prefetto Longino trasmise in Costantinopoli a Tiberio imperatore Albsuinda insieme coi tesori de’ Langobardi. Ed avvi pur chi asserisce lo stesso Peredeo esser venuto con Rosmunda ed Elmichi in Ravenna, e poscia essere stato trasportato a Costantinopoli con Albsuinda, ed ivi in uno spettacolo popolare alla presenza dell’imperatore aver egli ucciso un [p. 110 modifica]leone di smisurata grandezza. Al qual Peredeo (come è fama), affinchè nulla macchinasse contra la reale città, essendo uomo cotanto forte, per comando di quell’imperatore furono cavati gli occhi. Ed egli alquanto tempo dopo s’apparecchiò due pugnali, e ripostili nell’una e nell’altra delle sue maniche se n’andò al palazzo, e promise di rivelare alcune cose che sarebbero utili ad Augusto, se ad esso fosse stato introdotto. Ma l’imperatore mandò invece due patrizj suoi famigliari a raccorre le parole di quello. E poichè costoro giunsero a Peredeo, egli ad essi accostandosi, quasi avesse voluto dir loro alcuna cosa all'orecchio, trasse con ambe le mani li nascosti pugnali, e que’ due tanto impetuosamente ferì, che in punto precipitati in terra spirarono. Così, in qualche maniera costui non dissimile da quel fortissimo antico Sansone, vendicò da se stesso le proprie ingiurie, e per la perdita de’ suoi occhi spense due uomini all’imperatore utilissimi. [p. 111 modifica]

CAPO XXXI.

Del regno di Clefone.

Ora tutti i Langobardi, che si trovavano A. D. 573. in Italia, di comune consenso costituirono re nella città de’ Ticinesi Clefone, personaggio nobilissimo della loro nazione54. Costui molti de’ più potenti fra i Romani fece ammazzare, e parte. ne sbandi dall’Italia; ma poichè ebbe regnato un anno e sei mesi con Massana sua moglie, da un servo della sua casa fu con un pugnale trafitto.


CAPO XXXII.

Come i duchi dei Langobardi per dieci anni stettero senza re; e come da essi fu soggiogata l’Italia.

Morto costui, i Langobardi, non avendo re A. D. 574., si adattarono ad un governo di duchi, ciascheduno dei quali ottenne la sụa città, cioè Labano Ticino: Vuaillari [p. 112 modifica]Bergamo: Alachi Brescia: Euino Trento55: Gisulfo il Friuli: ed oltre ai predetti vi furono ancora trenta duchi in altrettante città; nel qual tempo molti nobili Romani per la cupidità di costoro furono uccisi; gli altri poi divisi in parti eguali56, affinchè pagassero ai Langobardi il terzo delle proprie rendite, fatti furono lor tributarj. Onde per questi duchi, nel settimo anno della venuta d’Alboino e di tutta la sua gente, spogliate le chiese, ammazzati i sacerdoti, distrutte le città e spenti i popoli, i quali al par delle biade eran cresciuti, oltre le provincie che Alboino avea conquistate, la maggior parte che rimanea dell’Italia fu presa e soggiogata dai Langobardi57.

Note

  1. Cartolajo, lat. chartulurius, chiamavasi quello che trattava le carte pubbliche. Perciò questo nome si dava a parecchie dignità delle corti degl’imperatori: onde chartularius regiorum egrorum, chartularius numerorum militarium, chartularius sacri cubiculi, il quale ultimo significava segretario dell’imperatore, ossia quello che custodiva i codicilli imperiali; che anche dicevasi chartularius Romani Imperii, la qual carica appunto fu sostenuta da Narsete; che era come una specie di luogotenente di Giustiniano in Italia (ved. Dufresne Gloss. alla voce Chartularius).
  2. Questo re Goto per confessione degli storici più accreditati meritava un fine migliore. Appena ottenuto il regno dal comune consenso spiegò valore e prudenza, il che stabilisce la gloria d’un grande guerriero. Debellate l’armi Greche a Faenza, egli fu tra i Goti il primo conquistatore degli stendardi imperiali, e il primo a raunare sotto le proprie bandiere i prigioni fatti sul campo. Corse per la Toscana e per l’Italia meridionale prendendo la maggior parte delle città: scontrossi con molti capitani, li vinse colle armi, e più ancora colla generosità dell’animo. Che se per lui tanto sangue si sparse, fece anco molte cose degne d’imitazione. La libertà renduta onorevolmente alle matrone Romane prese nel castello di Cuma, la pena a cui condannò un soldato delle sue guardie, che avea fatto oltraggio al pudor d’una vergine, son fatti che encomiano la sua continenza e la sua saviezza. Napoli già costretta per fame ad arrendersi, da lui provveduta di vettovaglie e con parsimonia alimentata, affinchè l’ingordigia de’ cibi non nuocesse alla salute degli affamati; gli agricoltori delle campagne rispettati e protetti durante l’assedio di Roma, e la salvezza procacciata ai cittadini al momento dell’occupazione della città, sono esempi degni d’essere emulati da ogni capitano, che aspiri alla fama di vero eroe.
  3. La nostra lezione è Breblorum, altri legge Bretonorum, altri Brionum, altri Bentorum, altri Britonorum.
  4. Altino era un’antica e fiorentissima città del Friuli posta sul lido dell’Adriatico, alla distanza di ottomila passi da Aquileja. Aveano grande celebrità le sue lane; onde Marziale (epigram. lib. 4):
    Nobilis Altinum tertia laudat ovis.
  5. Il nostro testo ha Agonthiensem, altri Magontiensem.
  6. Tutti gli storici, anche del tempo a noi non lontano, narrano di sì fatti prodigi. Lo stesso Machiavelli (Discorsi l. 1. c. 56.) racconta una visione affatto simile a questa: Per tutta Toscana si disse essere sentite in aria e vedute genti d’arme sopra Arezzo che si azzuffavano insieme. E dopo d’aver riferiti alcuni altri esempi conchiude: Comunque si sia, si vede così essere la verità, e che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose straordinarie e nuove alle Provincie. Ora la fisica e la storia naturale ci porgono migliori lumi.
  7. Questo monte è forse quello, che al dì d’oggi si chiama Monte maggiore; e che si vede superare tutti gli altri nelle vicinanze di Cividale del Friuli. Le sue falde e la sua costa sono anche presentemente abitate da popoli che parlano la lingua Slava. Esso perciò dee considerarsi ancor più come principio dell’Illiria, che come confine dell’Italia.
  8. Il bisonte è descritto da Plinio nel lib. 8. c. 15. per un bue feroce della figura del cervo, con un solo corno che gli esce di mezzo alla fronte.
  9. È probabile che il buon vecchio confondesse il bisonte coll’elefante.
  10. Il latino è Strator: ed era colui, che ajutava il auo signore a montare a cavallo, e lo guidava. Certo è, secondo il nostro storico, che Strator corrisponde al Longobardico Marpahis, o per meglio dire Marhais (come leggesi in alcuni codici), col qual nome chiamavasi chi aveva la sopraintendenza dei cavalli. Bonaventura Vulcanio (Not. ad Warnefrid.) opina con un illustre erudito, che questo nostro Strator sia lo stesso che quello che i Francesi dicono Grand Escuier. Su questo appoggio io ho creduto bene di tradurre grande scudiere, il che s’accorda col Muratori che lo chiama cavallerizzo maggiore (ibid. pag. 476).
  11. Fara per generazione, stirpe, si ha nelle leggi Longobardiche. Ved. Dufresne Gloss. alla detta voce.
  12. Ora detta Orleans.
  13. Il vostro testo Suessiones, altri Senonas.
  14. Ora Metz.
  15. Questo Paolo soprannominato Beato dal nostro Diacono, era arcivescovo scismatico d’Aquileja. (Murat. ibid.).
  16. Non tutti s’accordano gli antichi scrittori intorno alle circostanze e al luogo della morte di Narsete; credendo alcuni ch’egli sia stato richiamato alla corte d’Oriente e premiato con grandi onori. Questa opinione nacque dall’essere vissuto un altro Narsete (di cui fa cenno Corippo), il quale godeva a questo tempo in Costantinopoli della grazia dell’Imperatore. Pare però fuor di dubbio quanto narra qui sopra Paolo; cioè ch’egli sia morto disgraziato in Italia. Del suo valore e prudenza militare parlano abbastanza le imprese da lui mandate ad effetto. Delle sue particolari virtù, quanto ai tempi che correvano, si può dir molto bene: se non che la storia lascia travedere fra quelle virtù le passioni spregevoli di un uomo avaro e vendicativo. La ricchezza del tesoro da lui accumulato accusa le sue oppressioni e le sue rapine, e giustifica le ardite lagnanze del Senato Romano. Uno storico gravissimo vorrebbe porre in dubbio lo scellerato invito da lui fatto ad Alboino (Murat. ibid. pag. 472): Ch’egli giungesse a tanta iniquità d’invitare i Barbari in Italia, non è già evidente. Tuttavia le risposte di Narsete ai rimproveri di Giustino e alle contumelie di Sofia, sono prove troppo forti a danno della sua fama.
  17. Il testo da me seguito ha fluvium Alpem: altri hanno Plavem; sicchè non ho esitato sulla scelta. Potrebbe però darsi, che anticamente questo fiume si chiamasse Alpis, dal lungo correre ch’egli fa tra mezzo alle catene delle Alpi prima di sboccare nelle pianure del Trivigiano: e che Plavis non sia che corruzione di Alpis. Plinio lo chiama Anassum; e il nome di Plavis lo troviamo in Venanzio Fortunato lib. 1. ep. 1. e nell’anonimo Ravennate.
  18. Questo nome è una prova dell’alterazione che patirono le parole nel corso dell’età barbare, e nel loro passaggio alle lingue moderne. Il detto nome presentemente ritiene appena un debole suono che rammenti l’antica origine. Duplavile ora chiamasi Valdobbiadene. Val fu aggiunto per essere quel paese collocato in una valle a piè de’ monti estremi del Trevigiano, dove la Piave li separa dai Feltrini; ma il nome proprio Dobbiadene è appunto corruzione di Duplavile, che, se non m’inganno, viene da Plavis, e significa di Piave; onde ricorrendo alla radice del nome, Valdobbiadene vorrebbe dire Valle di Piave. Paolo notò giustamente, che sta esso paese a non molta distanza da Ceneda e da Treviso; se non che Ceneda è posta al nord-est, e Trevigi al sud-est di Valdobbiadene. Questa terra antica e gloriosa pei natali di Fortunato, si serbò sempre in onore da quel tempo in appresso. Gli ultimi Governi la stabilirono capo di un Cantone o Distretto che è il più vario ed ameno di quanti se ne possan vedere, comprendendo esso una vasta pianura sparsa di bei villaggi, a cui fanno corona innumerevoli vaghissimi poggi e colli, il bosco del Montello per la lunghezza di otto miglia, e per altrettanto spazio all’estremità del piano la Piave: asilo beato, in un angolo del quale il traduttore di questa storia si compiace di avere la naturale sua patria. Valdobbiadene si distingue per buon numero di comode e civili famiglie, per coltura di società, e per parecchi gentili ingegni giustamente onorati o stimati.
  19. Io ho seguito il testo più facile: chi poi volesse esercitare la propria erudizione esamini la seguente lezione, che si trova in alcuni codici: Per fluenta Tiliamenta, et Reuniam (ora detta in volgare Ragogna presso s. Daniele del Friuli) perque Osupum et alpem Juliam, perque Aguntum Castrum, Dravumque et Byrrum fluvios, ac Briones et Augustam civitatem, quam Virdo et Lech fluentant, iter fuisse describit.
  20. Ora Poitiers.
  21. Fu un tempo, nel quale la Pannonia era considerata come parte dell’Illirico occidentale generalmente preso. Era divisa in due parti: la prima del le quali, detta superiore, abbracciava gran parte della Stiria e l’intera Carniola; perciò disse giustamente il nostro Storico del cap. VIII, che il monte del re giungeva a toccar la Pannonia.
  22. Altri testi leggono: Henelum enim, licet apud latinos aspiratio in V vertatur, Graeci laudabilem dicunt.
    Intorno ai Veneti antichi è da leggersi il Sigonio De antiquo Jure Ital. lib. 1. c. 25. O il nome di Veneti venga da Eneti, popoli della Paflagonia, cangiatasi l’aspirazione H in V, o sieno così detti dal verbo latino venire, perchè venuti da lontane regioni, certo si è per la storia e per le tradizioni, essere questi stati navigatori, che approdarono alle coste dell’Adriatico vicino alle bocche del fiume Timavo, e che divennero possessori a poco a poco di quella parte d’Italia, che sopra è indicata dallo Storico. Aquileja riconosce da essi la origine e la sua prima potenza, e solamente per le irruzioni delle genti confinanti col suo territorio fu indebolita, finchè, come tutte le altre nazioni, soggiacque ai Romani, che la ristabilirono e la elevarono al grado di seconda città Romana. Quanto alla, storia dei Veneti è da farsi la seguente considerazione: che la navigazione e il commercio furono sempre i primarj ele menti della loro grandezza. L’esser confinanti con nazioni forti e guerriere fu causa della loro rovina. Ma le prime abitudini di un popolo sono quasi sempre il riparo delle sue sciagure. Caduta la potenza de’ primi Veneti, durò nondimeno in essi la prima inclinazione pel mare. Dopo di essersi mescolati ai Romani, nel cadere di quell’immenso impero, i Veneti, raccoltisi sulle povere isolette dell’Adriatico, si rifecero nuovamente in nazione, e a poco a poco riguadagnarono lo stesso terreno anticamente posseduto in Italia: ma coll’andare de’ tempi giunsero a perire per le medesime cause, e alla stessa maniera de loro antenati.
  23. Ciò è confermato dal Cluverio e dal Muratori, l’opinione de’ quali certamente vale non poco. Nondimeno non è da trascurarsi quella di un altro eruditissimo scrittore (Rer. Italic. tom. 20. p. 143.) il quale riprovando quanto dice Plinio (lib. 111. 23.) del corso dell’Istro, e le favole spacciate sul l’Istria dagli scrittori del secolo XVI. conchiude, che questa così chiamasi da alcune colonie ivi venute dalle sorgenti del fiume Istro.
  24. Il Foro di Giulio di sopra nominato Città Forogiuliense, è il presente Cividal di Friuli. Questa città, secondo le antiche cronache del paese, fra le quali una riputatissima scritta da Jacopo Valvasone di Maniago, fu distrutta tre volte. Della sua prima fondazione nulla si sa; ma secondo tutte le probabilità fu edificata dai Galli. Lo stesso suo nome, che procede da origine Celtica, ci rinforza in tale congettura. Che questa città sia stata riedificata dai Romani non c’è alcun dubbio, per le parole del Diacono, il quale la indica come capo del Friuli dopo Aquileja, e come piazza di negoziazione stabilita da Giulio Cesare. Peraltro molti antiquarj di gran nome sostennero, non esser essa il Foro Giulio Romano, e fra questi fu per lo innanzi il P. Angelo Maria Cortinovis, e ultimamente il ch. co. Girolamo Asquini: i quali vorrebbero, dietro le osservazioni fatte sopra alcuni monumenti di Giulio Carnico (ora Zuglio), che ivi fosse piantata la prima sede dell’antica colonia Forojuliese. Sempre amico Platone, ma più amica la verità; perciò con tutta la riverenza a questi egregi eruditi, anche in mancanza di monumenti lapidarj parlanti senza equivoco, e di scritti storici positivi, basterebbe gittare uno sguardo alle alpi, ricercando il punto militare più opportuno a difendere l’Italia dall’invasione, e l’occhio solo ci convincerebbe che Cividale dovea essere il centro delle operazioni militari dei Romani all’estremità settentrionale della penisola. Badino di grazia questi dotti uomini alla narrazione del nostro Storico al capo IX: L’Italia, egli dice, dalla parte dell’Aquilone è intorno serrata dalle alpi, nè vi si può penetrare che per viottoli, e per le cime delle montagne. Una potenza militare dovea bensì munir quelle gole con opportune fortezze, ed aprirsi anche delle sicure vie per penetrare nel cuore della Germania, del che fanno fede tutti questi luoghi sparsi di monumenti Romani; ma siccome dalla parte orientale il paese ha un aperto e spaziosissimo ingresso (dice lo stesso Paolo), facea d’uopo fortificarsi in una città, che potesse dominar la pianura, ed attaccare i nemici ai fianchi ogni qualvolta che avessero voluto avanzarsi sul terreno italiano. A ciò s’aggiunga anche la linea del fiume Natisone, attissimo allora a sostenere un esercito contro una subitanea nemica irruzione. Di fatto Alboino, cui premeva la conservazione dell’Italia dopo il suo ingresso, occupò immediatamente (ved. lo stesso cap. 9.) la città del Friuli che i Romani teneano per prima dopo Aquileja; e come perito capitano, facendosi propri gli antichi mezzi di loro difesa, ivi stabili la sede delle forze che doveano assicurargli le spalle nella sua spedizione in Italia. Queste sono osservazioni locali, alle quali si dee pure dar qualche peso; ma in appoggio di queste si prestano i monumenti chiari e precisi della sussistenza di tale antica città. Al momento in cui scrivo, un dottissimo archeologo (il co. Michele della Torre canonico di Cividale), suffragato dalla munificenza sovrana, attende a rintracciare nel seno di quella terra i fondamenti e le storiche vicissitudini del Foro Giulio. I suoi scavi sono visibili, gli antiquarj e gli eruditi vengono ad ammirarli dai più lontani paesi, a segno tale che un illustre personaggio qui mures hominum multorum vidit et urbes (il marchese G. Giacomo Trivulzio) non ebbe riguardo di dire, essere Cividal di Friuli la Pompeja dell’Italia settentrionale.
  25. Il nostro testo ha Alemannorum patriam, gli altri Alemannorum provinciam.
  26. Quel Cozio che diede nome alle alpi fu amico d’Augusto, e fece con molti lavori più comodo il passaggio delle alpi stesse, che in quel luogo prima erano inaccessibili. Ma il Cozio nominato da Paolo era figliuolo di questo, e si chiamava M. Giulio Cozio. Egli fu decorato della dignità reale dall’imperator Claudio, e morì appunto sotto l’impero di Nerone, che ridusse le alpi Cozie in provincia Romana. (Suet. in Tiber. cap. 37. et in Ner. cap. 18).
  27. Il testo Circias.
  28. Plinio (lib.4. c. 6.) racconta, che a chi beveva di questo lago veniva in fastidio il vino. Parimente Ovidio (Metamorph. 15. v. 322).
    Clitorio quicumque sitim de fonte levabit. Vina fugit.
  29. Il nostro testo ha Ferronianus, altri Ferromanus.
  30. Sospetterei che dovesse leggersi Ferona, castello nella campagna di Roma vicino a Terracina.
  31. Cioè dai Cartaginesi. Il nostro testo ha Punicis, altri Paenis; e con questi ultimi devesi leggere, quando si voglia trovar l’analogia fra la origine e la derivazione della parola.
  32. I libri stampati hanno Victorini, e i mss. Victoris. E in vero pare che Paolo citi qui Aurelio Vittore, il quale nelle Storie degl’imperatori Romani, ove parla di Nerone, ha queste parole: Pontum in jus provinciae Polemonis Reguli permissu redegit, a quo Polemoniacus Pontus appellatus est, itemque Cottias alpes, Cottio rege mortuo. Quanto a questo e ad altro Cozio vedi sopra la nota 1. al capo XVI. Alcuni testi non hanno nè Victoris, nè Victorini, ma invece leggono: sed tales dictores revincunt historiae.
  33. Il nostro testo: ab urbe Roma veniunt, altri ad urbem Romam ducunt. Più adattata è la nostra lezione, e l’approveranno tutti quelli che sanno esservi stata nel mezzo del Foro Romano la colonna migliaria (milliarium aureum), da cui partivano tutte le strade, le quali ad ogni miglio erano distinte con una colonnetta, onde ad tertium lapidem, ad vigesimum significava a tre, a 20 miglia lungi da Roma.
  34. Piscarium. Non trovo altra variante che Piscuriam; ma sospetto che si debba leggere Pisaurum, fiume ora detto la Foglia nell’Umbria vicino a Pesaro.
  35. I testi Carsilis, Carsulos, Carsiolis.
  36. Il nostro testo: Furconam, altri Furcanum e Furconium.
  37. Il nostro testo: Hisernia, et antiquitate consumpta Samnium; altri; Esernia (quae est antiquitale consumpta).
  38. Il nostro testo: Accepere olim ab hastis quas ferre solebant, quasque Graeci Samia appellant. Altri: Accepere olim a Samnio colle, quem primum insederunt. Taluno pensa che debba leggersi: quas Graeci Σαυνια appellant; ciò che è confermato da Plinio lib. III, cap 12. Samnitium, quos Sabellos et Graeci Saunitas dicere, colonia Bovianum vetus. Così in una nota dell’ediz. da me seguita.
  39. Canusium: altri Caurisium. Canusio (ora Canosa) fu fabbricata da Diomede.
  40. A perditione. Il Vossio Etimol. ad vocem Campus trae il nome di Apulia dlal Greco Άποελίαν, notando: quia soli est opposita.
  41. Ora Sinigaglia.
  42. Questa etimologia è presa da Festo. Essa è confermata dal Vossio Etimol. alla voce Vitulus.
  43. Giova qui il notare, che quantunque la corografia dell’Italia, descritta da Paolo sia stata giudicata dal P. Beretti piuttosto stesa secondo la divisione Romana che Longobardica, tuttavia egli confessa esser questa utilissima per l’intelligenza degli Scrittori del medio evo, che si servono della medesima. Chi volesse poi una compiuta illustrazione di questa parte geografica della storia di Paolo consulti la dottissima opera dello stesso Beretti De Tabula Chorographica Italiae medii aevi, che sta nel tomo X. Rerum Italic.
  44. La nostra ediz. tertio Nonas: altri ad Nonas.
  45. Secondo alcuni Scrittori Onorato governò la chiesa Milanese solamente per due anni. (Murat. ibid. pag. 479.).
  46. Il detto Paolo, o Paolino di cui si osservò nella nota 1. del cap. 10. del lib. 2. essere stato scismatico, da Paolo si dice Patriarca, ma non si sa veramente se sia stato il primo ad arrogarsi sì fatto titolo, chiamandosi dagli altri autori arcivescovo. Egli cominciò lo scisma della sua chiesa impugnando i decreti del Concilio quinto generale. (Murat. ibid. p. 482.).
  47. Forse per l’erudizione dei medici gioverà sapere, che alcuni testi, invece di pestilentia come il nostro, hanno pestis inguinaria.
  48. Il Muratori (Antich. Ital. Dissert. 33.), cita questo luogo di Paolo, come indicante l’epoca principale dell’alterazione della lingua del Lazio accaduta per l’influenza di tante genti settentrionali e barbare, che vennero ad abitare ed a mescolarsi cogl’Italiani: onde è ragionevole che di un gran numero di voci, da cui non troviamo l’origine nel latino, ne cerchiamo la fonte in quelle straniere antichissime lingue.
  49. lat. strator.
  50. Schilpor corrisponde al latino armiger, era questo uffizio dei più grandi personaggi. Di Narsete scrive Corippo, che fu port’arme di Giustino (Lib. 2.):
         Armiger interea domini vestigia lustrans
         Eminet excelsus super agmina vertice Narses.
    Alcuni comentatori amano meglio di leggere schilphor, la qual voce è usata dai Germani.
  51. colluctaneus.
  52. Spatham, d’onde venne l’italiano spada.
  53. Alboino deve considerarsi qual fondatore della potenza Longobarda in Italia. Fu questi un capo che sapea meditare un’impresa colla rapidità di un animo sommamente vasto ed audace. La calata che fece dalle alpi Friulane, e i provvedimenti ordinati in questo estremo confine d’Italia, ove era facile l’ingresso delle nazioni da lui abbandonate, palesano la perspicacia della sua mente, come la dimostrano eziandio tutti i fatti militari da esso operati fino al giorno della sua morte. Alcune virtù però spiegate da questo Barbaro nacquero piuttosto dal temperamento, che da veruna riflessione della sua mente. In generale le sue azioni erano tutte tinte del costume de’ Barbari; anzi in taluna ei spinse al grado sublime (se così si può dir) la ferocia. Era usanza de’ popoli settentrionali il ber l’idromele nei cranj dei loro nemici (Mallet Introd. alla Stor. di Danim.); ma il far bere per trastullo la moglie nel cranio del proprio padre, è una finezza di crudeltà, che può appartenere ad un uomo bestiale, non mai ad un popolo quantunque si voglia feroce. Ma le virtù militari coprono, o almeno adombrano i più grandi difetti: perciò Alboino fa un personaggio istorico che destò l’ammirazione non solo de’ suoi, ma anco de’ popoli soggiogati. Finirò coll’osservare, che la conquista d’Italia fatta da Alboino, con tutti gli episodi che l’accompagnano, presenta un soggetto eminentemente poetico, talchè sembra impossibile non esser esso stato afferrato da qualche immaginazione romantica del nostro secolo.
  54. Vedi la nota 3 al capo XIV del lib. I.
  55. Altri Comum.
  56. Per hostes divisi. Altri per partes divisi; la qual lezione mi pare più chiara.
  57. I Longobardi possedevano le provincie del Friuli e della Venezia, la Liguria quasi tutta, la Toscana, e l’Umbria di qua e di là dell'Apennino, e penetravano nella Puglia e Campania. All’incontro appartenevano ancora all’Imperatore Ravenna con alcune città circonvicine, Roma col suo Ducato, che abbracciaya altre città, Padova, Monselice, Cremona, nella Liguria Genova, alcuni luoghi dell’alpi Cozie, e finalmente il regno di Napoli. (Murat. ibid. p. 492).