Roma italiana, 1870-1895/Il 1878
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Il 1878.
Nella storia d’Italia l’anno di cui sto per narrare gli eventi compiutisi in Roma, è un anno di lutto profondo, lutto del quale il paese serberà profonda memoria.
Il Re era tornato da Torino il 29 dicembre già ammalato. S. M. soffriva di un forte reuma intestinale e di frequenti accessi di febbre leggiera, ma non si curava. Riceve al solito il primo dell’anno i rappresentanti esteri, le deputazioni della Camera e del Senato, gli ufficiali superiori, il Sindaco e la Giunta, l’on. Minghetti, cavaliere dell’Annunziata, e il principe Torlonia, che era sempre uno dei primi a presentargli gli augurii, e parlò con tutti come soleva far sempre. Anzi, alle rappresentanze del Parlamento tenne un linguaggio, se non belligero, almeno accentuatamente militare, per ispronarle ad occuparsi dei provvedimenti per l’esercito, non tacendo che potevano sorgere avvenimenti siffatti da render necessario l’impiego di tutte le forze per la difesa della patria. Nulla nell’aspetto o nel linguaggio del Re manifestava uno stato di accasciamento fisico o di debolezza; era sempre forte e il suo sguardo aveva i soliti bagliori, che infiammavano i cuori.
Il 3 gennaio il Re ricevè pure il signor Gambetta, che era a Roma da pochi giorni, e con la sua cordialità, con la sua franchezza destò l’entusiasmo del deputato francese, il quale partì commosso dall’accoglienza avuta. Per il 5 gennaio, che cadeva di sabato, era fissata la partenza di Vittorio Emanuele per Torino. La mattina egli uscì in carrozza, e più tardi disse di voler dormire, perché si sentiva stanco. Nelle ore pomeridiane, nel destarsi, il Re fu assalito dalla febbre; una febbre più forte di quelle che lo avevano tormentato nei giorni precedenti, accompagnata da un dolore al lato destro del petto. Il dottor Saglione, medico curante del Re, si accorse subito che il male era grave e volle fosse chiamato il Baccelli, e si telegrafasse al professor Bruno, altro medico del Re, a Torino.
Il Baccelli nella sera fece una prima visita a Sua Maestà e prese la direzione della cura. La domenica giunse il prof. Bruno e fu tenuto un consulto. I medici furono concordi nel riconoscere che si trattava di una pleuro-polmonite destra, con minaccia di complicazione malarica. La mattina del giorno 7 i medici tennero un nuovo consulto e notarono nello stato dell’augusto infermo un sensibile miglioramento. Il Re aveva potuto dormire qualche ora nella notte e si sentiva più sollevato.
In questo senso erano redatti i bollettini, forse per non allarmare la popolazione, ma con tutto ciò la malattia era grave ed i medici lo riconoscevano, tanto che fu telegrafato a tutti i membri della famiglia Reale. Il principe Umberto sospese la partenza per Firenze, ove doveva andare per i funerali del general Lamarmora, morto il giorno 6, e il Presidente del Consiglio rimase in permanenza al Quirinale, ove andavano pure ogni momento i ministri Crispi, Bargoni, Magliani e Mancini, senza però essere ammessi nella camera del Re, che era a pianterreno del palazzo reale.
La notte dal 7 all’8 fu meno tranquilla della precedente, e la febbre aumentò; il Depretis quella notte rimase al Quirinale e da tutte le corti giungevano telegrammi chiedendo notizie di Vittorio Emanuele. La popolazione di Roma era afflitta, ma non costernata. I bollettini, e soprattutto la fiducia che la forte fibra del Re potesse vincere il male, impedivano che il popolo credesse prossima la fine di lui.
Però nel giorno 8 si cominciò a sospettare la verità dall’andirivieni di carrozze al Quirinale; e tutti volevano aver notizie e le numerose edizioni dei giornali andavano a ruba, ma in tutto quel giorno non vi fu mai pericolo imminente; questo si manifestò la mattina del 9, verso le 4. I medici, che non si dipartivano dal letto dell’infermo, se ne accorsero. Difficile il respiro, depressi i polsi; il male faceva rapidi progressi. Degli ufficiali di servizio furono mandati ad avvertire i Principi, i Ministri e i grandi dignitari di Corte.
Intanto si fece respirare al malato una certa quantità di ossigeno, ma anche questa inalazione giovò poco, e i medici non seppero più nascondere che la catastrofe era vicina.
Ogni ora che passava rubava anni di vita al Re.
I Ministri e gli alti dignitari di Corte, dopo una breve discussione, stabilirono di chiedere al Sovrano se desiderava ricevere i sacramenti, e di questa missione fu incaricato il dottor Bruno, che era il più antico dei medici di Corte.
Il Re si volse al medico e gli rispose in tono sereno e tranquillo:
«Dunque sono ben grave?»
Il dottore pronunziò alcune parole confortanti, assicurando che era soltanto una precauzione.
«Venga pure» rispose nuovamente il Re.
Appena Vittorio Emanuele ebbe accondisceso a ricevere i Sacramenti, monsignor Anzino si presentò, e il Re fece a lui la confessione, quindi il canonico di Corte andò alla vicina chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio per chiedere il Viatico. Il curato non volle prendere sopra di sè la responsabilità di quell’atto, ed andò a interpellare il Cardinal Vicario, il quale già dal Papa aveva ricevuto ordini e ricondusse il parroco nella sua carrozza alla chiesa, e fece consegnare il Viatico al sacerdote di Corte.
Pare che il canonico Anzino avesse comunicato al parroco che il Re confessandosi gli aveva detto:
«Dichiaro di morire da buon cattolico. Duolmi se talvolta le risoluzioni che ho dovuto prendere hanno potuto spiacere alla persona del Sommo Pontefice; ma in tutti i miei atti non ebbi giammai intenzione di offendere la Chiesa Cattolica».
Quando il canonico Anzino con la stola e la pisside in mano entrò nella camera, vi trovò riuniti tutti i ministri. Dietro a lui entrarono il Principe Umberto e la Principessa Margherita, recando in mano una candela accesa, e s’inginocchiarono ai piedi del letto. La Principessa era vestita di nero e aveva la testa coperta da un velo nero.
Durante la cerimonia tutti piangevano; anche il Presidente del Consiglio, che era inginocchiato vicino al caminetto, non poteva trattenere i singhiozzi.
Il Re era pallido, ma calmo in mezzo a tanta desolazione. Egli stava seduto sul lato sinistro appoggiandosi a due guanciali. Portava una giacchetta da caccia di color bigio con molte tasche.
Appena il canonico Anzino ebbe comunicato il Re, tutti sfilarono accanto al letto per dargli l’ultimo saluto; il Re con lo sguardo ancora scintillante e pieno d’intelligenza, fissava ognuno e salutava con la mano.
Fuori della camera reale si ripeterono le scene di lacrime, tutti erano desolati di quel distacco.
Mentre il Re era agli estremi, giunse al Quirinale monsignor Marinelli, sacrista di Sua Santità; egli chiese agli ufficiali d’ordinanza notizie della salute del Sovrano, da parte del Papa, e domandò se poteva entrare in camera dell’infermo. Gli fu risposto che occorreva un permesso speciale perchè il Principe Ereditario aveva dato ordine che non fossero ammessi estranei. Monsignor Marinelli si ritirò senza chiedere il permesso, nè aggiunger parola.
Dopo una mezz’ora circa che il Re aveva ricevuto il Viatico, fu avvertito un gran peggioramento, e subito furono avvisati i Principi e i Ministri. Il Re volle cambiar posizione, si fece pallidissimo e parve che stesse par ispirare. Chiese allora da bere, e il canonico Anzino gli porse un bicchier d’acqua. Con la mano tremante prese il bicchiere e senza aiuto se lo accostò alle labbra. Ma dopo quello sforzo reclinò la testa, e la mano rimase abbandonata sul letto. Il dottor Bruno gli tastò il polso, e capi che la fine si avvicinava.
Il Principe Umberto entrò allora atterrito nella camera del Re e si accostò al letto col volto coperto di lagrime. Vittorio Emanuele fissò su di lui uno sguardo lungo, già vitreo, gli stese la mano e pronunziò questa sola parola: «Addio». Dopo il Re entrò in agonia e alle 2 e 30 spirò.
Erano nella camera al momento della morte il principe Umberto, il conte Mirafiori, il Presidente del Consiglio, on. Depretis, il conte Visone, il comm. Aghemo, l’on. Correnti, il ministro della guerra general Mezzacapo, il cav. Ansaldi, aiutante di camera, e i colonnelli Giudotti e Carenzi, ufficiali d’ordinanza di servizio, il canonico Anzino che recitava le preghiere degli agonizzanti e i medici. Il volto di tutti i testimoni di quella scena funerea era coperto di lagrime; nella piccola biblioteca attigua si affollavano molti servi devoti, egualmente affezionati; nei corridoi del palazzo vagavano muti, come inebetiti, i famigliari.
La piazza del Quirinale era affollata di popolo trepidante, che appena vide abbassare la bandiera della torre, corse per la città recando la triste notizia. I negozi si chiusero tutti non in seguito a ordine ricevuto, ma come spontanea manifestazione di cordoglio, schiettissimo, universale. Roma faceva un plebiscito di dolore.
L’effetto primo che l’annunzio della morte del Re produsse a Roma, fu di sgomento. Pareva che lo sparire di lui ponesse in dubbio tutte le conquiste fatte sotto il suo nome e sotto la sua bandiera; pareva che la grande famiglia italiana, di cui era il padre riconosciuto ed amato, dovesse smembrarsi, che tutto dovesse crollare. Ma ben presto in mezzo a quella costernazione gli animi si aprirono alla speranza, volgendo il pensiero al figlio del Re Liberatore, dal quale il popolo aspettava una parola che lo rianimasse. E il proclama di Sua Maestà Umberto I comparve subito la mattina del 10. Quel proclama eccolo:
UMBERTO I
Per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia
- Italiani!
La più grave delle sventure ci ha improvvisamente colpiti. Vittorio Emanuele II, il Fondatore del Regno d’Italia, l’Istauratore della Unità Nazionale, ci fu tolto.
Io raccolsi il Suo ultimo respiro che fu per la Nazione, e il Suo ultimo voto che fu per la felicità del Popolo, a cui ha dato la libertà e la gloria.
La sua voce paterna, che risuonerà sempre nel mio cuore, m’impone di vincere il dolore e mi addita il mio dovere.
In questo momento un solo conforto è possibile: mostrarci degni di Lui lo col seguirne le orme. — Voi col serbarvi sempre devoti a quelle cittadine virtù, per cui egli potè compiere l’ardua impresa di fare grande e Una l’Italia.
Io custodirò l’eredità dei grandi esempi che Egli mi lascia, di devozione alla patria, di amore operoso di ogni civile progresso e di fede inconcussa a quelle libere Istituzioni, che largite dall’Augusto mio Avo, Re Carlo Alberto, religiosamente difese e fecondate da mio Padre, sono orgoglio e forza della mia Casa.
Soldato, com’Essi, della Indipendenza Nazionale, ne sarò il più vigile difensore.
Meritarmi l’amore del mio Popolo, quale già l’ebbe il mio Augusto Genitore, sarà l’unica mia ambizione.
- Italiani!
Il vostro primo Re è morto. Il suo Successore vi proverà che le istituzioni non muoioao.
Stringiamoci insieme, e in quest’ora di supremo dolore raffermiamo quella concordia di propositi e di affetti, che fu sempre presidio e salute d’Italia,
- Dato dal palazzo del Quirinale, il 9 gennaio 1878.
UMBERTO
Depretis — Crispi — Mancini — Mezzacapo — Brin — Perez — Coppino — Magliani — Bargoni. |
Il proclama agli italiani era stato redatto in consiglio dei ministri. Esso diceva nella seconda parte: «Il vostro primo Re è morto. Il suo successore vi deve provare ecc.» Il Re cancellò il «deve» e scrisse: «vi proverà». Quella correzione rivelava un fermo proposito, e conteneva una promessa sacrosanta.
Questo proclama fu affisso insieme con quello che stampo più sotto all’Esercito e all’Armata e col manifesto del Sindaco ai romani. Non si può dire quanta gente si affollasse a leggerli. Molte persone si vedevano piangere per modo che non potevano continuarne la lettura.
- «Ufficiali Sott’Ufficiali e Soldati di terra e di mare,
«Vittorio Emanuele II, il primo soldato dell’Indipendenza Italiana, non è più. Irreparabile sven tura colpi Colui, che ci ha guidati alle battaglie, che ha ispirato, educato e mantenuto in voi le virtù del cittadino e del soldato.
Da una fotografia di Montabone |
IL PRINCIPE DI NAPOLI |
«Al suo magnanimo ardimento dobbiamo i gloriosi fatti, che illustrano la nostra bandiera; al suo senno previdente gli ordini e le armi di cui andate fieri ed onorati; alle sue salde virtù l’esempio di ossequio alle libere istituzioni, di generosità nel soccorrere in ogni evento la Patria, di vigore nel tutelarla e difenderla.
- Ufficiali, Sott'Ufficiali e Soldati,
«Già compagno dei vostri pericoli, testimonio del vostro valore, so di poter contare su voi.
Forti delle vostre virtù ricorderete che dove è la nostra bandiera, ivi è il mio cuore di Re e Soldato.
«UMBERTO»
«S. P. Q. R.
- Romani!
S. M. il Re Vittorio Emanuele ha cessato di vivere, ma l’opera sua è immortale ed il suo nome glorioso e quello d’Italia sono inseparabili. Esso ci ha lasciato un sacro deposito da mantenere: le nostre libere istituzioni, l’indipendenza e l’unità della patria, per cui mori il magnanimo suo padre e per cui egli visse per lasciarle compiute all’augusto suo figlio.
«Il dolore nostro risiede nel nostro cuore e nella profonda riconoscenza, che vivrà finchè noi vivremo, e che trasmetteremo inalterata ai nostri figli.
- Romani,
«Possa il nostro patriottismo temperare il dolore dell’Augusto Erede di Savoia, nelle cui mani, tranquilla l’Italia vede affidati i suoi destini. «Dal Campidoglio, 9 gennaio 1878.
«Il ff. di Sindaco |
La salma del Re, che meritava davvero il titolo di Grande, rimase ove Egli era spirato, cioè nella modesta camera, col grande letto di noce in sul fondo, e i pochi e semplici mobili e che il figlio ha voluto fosse conservata intatta. Attorno al letto furono accesi quattro grandi ceri e mentre il canonico Anzino recitava le preci dei morti un aiutante di campo e un cerimoniere in alta tenuta vegliavano commossi. Durante la sera, nella notte, la mattina seguente il Re Umberto più volte si recò nella camera del padre, e due volte vi andò pure la Regina. Nell’ultima visita l’accompagnava il nuovo Sovrano, e dopo che ella ebbe pregato per alcuni minuti si alzò scoppiando in un dirotto pianto. Il Re la sorregeva e la ricondusse nel suo quartiere, ov’ella cadde in un lungo svenimento, dal quale la trassero a stento le sue dame, che non l’avevano mai abbandonata durante la malattia, nè dopo la morte di Vittorio Emanuele.
Il duca d’Aosta, il principe di Carignano, e il duca di Genova non erano a Roma, nè poterono raccogliere l’ultimo respiro del glorioso capo della loro famiglia. L’ultimo di questi Principi trovavasi a Beyrut; gli altri due erano a Torino, ma i telegrammi che ricevevano di continuo non erano punto desolanti. Però il duca d’Aosta aveva un triste presentimento e trovandosi fuori dal suo palazzo la mattina del 9, non seppe resistere alla brama di correre a Roma. Salì in una carrozza di piazza accompagnato dal solo aiutante di campo, comm. Dragonetti, andò alla stazione di Porta Nuova e potè prendere il treno per la capitale. Egli giunse a Bologna alle 5 circa e trovò a riceverlo il generale Avogadro, il procuratore del Re e il primo presidente della Corte d’Appello. Il Principe mostrava fiducia che il padre guarisse, ma il prefetto intanto consegnava all’aiutante di campo il telegramma col quale il general Medici comunicavagli la notizia della morte. Il principe vedendo il turbamento del comm. Dragonetti volle sapere la verità, e con quale cuore egli continuasse il viaggio è facile immaginare.
Il duca d’Aosta giunse a Roma la mattina del 10 alle 6; due ore dopo giunse il principe Eugenio, al quale la notizia era stata comunicata a Torino. Il Principe nel leggere il telegramma era caduto privo di sensi, e riavutosi dopo poco non aveva saputo trattenere un violento accesso di pianto.
L’incontro di questi due Principi di Savoia col Re Umberto dette luogo ad una nuova scena dolorosa. Il Re li condusse ambedue nella camera ove giaceva Vittorio Emanuele; dopo esservisi trattenuti a lungo, ne uscirono piangendo dirottamente.
I ministri, subito dopo la morte del Re, rassegnarono le dimissioni nelle mani del nuovo Sovrano; Sua Maestà confermò in ufficio il ministero presieduto da S. E. Depretis, che il giorno seguente presentò a Umberto I il seguente indirizzo:
- «Sire,
«In mezzo alla costernazione profonda di tutti gl’Italiani, noi non sappiamo, nell’acerbità del cordoglio che ci opprime, trovare una parola che risponda allo strazio del Vostro cuore.
«Le supreme esigenze del Governo pur troppo Vi tolgono di racchiudervi nell’isolamento, e di sfogare la piena delle vostre angoscie di figlio; e già provvedeste alla continuità dei pubblici uffici, confermando in noi, che ne siamo altamente onorati, il mandato che avevamo ricevuto dalla venerata volontà dell’Immortale Vostro Genitore.
«Sentiamo quanto obbligo questi solenni momenti c’impongono davanti a Voi, davanti alla Nazione.
«Fin che ci duri la fiducia Vostra e del Parlamento, tutti ci consacreremo al Paese, nella prosperità del quale sappiamo che Voi ponete quella della Vostra Casa.
«Ad essa intieramente devoti, Vi porgiamo, Sire, l’omaggio della fedeltà nostra, e Vi offriamo i voti più fervidi e sinceri per la felicità della Vostra Persona, dell’augusta Regina, già di tanto riverente affetto circondata dagli Italiani, e del giovinetto Principe, sul cui capo splenderà, mercè Vostra, sempre più vivo l’astro dei Vostri Maggiori.
- Roma, addì 10 gennaio 1878.
«Depretis – Crispi – Mancini – Mezzacapo — Brin — Coppino — Magliani — Bargoni — Perez». |
Prima che la salma del re Vittorio Emanuele fosse rimossa dalla camera mortuaria per esser trasportata nella sala degli Svizzeri trasformata in cappella ardente, si dovette stendere l’atto di morte di Vittorio Emanuele.
Anche questa cerimonia, che fu compiuta il giorno 10 alle 6, trascorse in mezzo alla generale mestizia. Quando S. E. il presidente del Senato, Tecchio, entrò nella camera mortuaria, i grandi dignitari di Corte erano già riuniti.
S. E. il comm. Tecchio, visibilmente commosso, cominciò dal chiedere ai tre medici presenti, i professori Bruno, Saglione e Baccelli, in qual modo fosse avvenuta la morte del Re.
I medici risposero che era morto di pleuro-polmonite con complicazione di migliare, e il dott. Bruno accennò alle differenti fasi della malattia.
S. E. il comm. Tecchio procedè allora alla redazione dell’atto di morte, che fu redatto in doppio originale, uno per il registro del Senato, scritto tutto dallo stesso Presidente, l’altro per l’archivio generale dello Stato, scritto dal comm. Tabarrini.
Assistevano alla cerimonia, in grande uniforme, l’on. Depretis, il conte Arese, S. E. il comm. Visone, ministro della Real Casa, S. E. il general Medici, primo aiutante di campo, il generale Bertole-Viale, gran cacciatore, il Marchese di Cocconito, gran scudiere, il generale de Sonnaz, il comm. Aghemo, il generale Pasi, il conte Panissera di Veglio, prefetto di palazzo, il colonnello Guidotti, i colonnelli Della Rovere e Carenzi, e il conte Menabrea, maestro delle cerimonie.
Appena finito di scrivere il verbale, il Presidente del Senato lo lesse egli stesso agli astanti.
Ecco il testo dell’atto di morte:
« Regnando Sua Maestà Umberto I, per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia.
« L’anno mille ottocento settantotto, in questo giorno 10 di gennaio, alle ore 6 pom., nella città di Roma, capitale del Regno d’Italia.
« Noi, Sebastiano Tecchio, cav. Gran Cordone dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e della Corona d’Italia, presidente del Senato del Regno, nella nostra qualità di ufficiale dello Stato Civile della Reale Famiglia, assistito da S. E. il signor Agostino Depretis, cav. Gran Croce dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e della Corona d’Italia, presidente del Consiglio dei ministri e ministro segretario di Stato per gli affari esteri, deputato al Parlamento Nazionale, nella sua qualità di notaio della Corona, e accompagnato dal signore comm. Tabarrini, senatore e segretario del Senato del Regno, ci siamo recati nel palazzo del Quirinale, e in questa camera da letto a piano terreno dell’appartamento particolare di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele II, per lo scopo contemplato dagli art. 369 e 370 del vigente codice civile.
« Comparsi, in conformità dell’art. 386 del vigente codice civile, dinanzi a noi il signor comm. Lorenzo Bruno fu Giovan Battista, senatore del Regno, l’on. sig. comm. Guido Baccelli del fu Antonio, deputato al Parlamento Nazionale, professore il primo di clinica-chirurgica nella R. Università di Torino e il secondo di clinica-medica nella R. Università di Roma, e il signor cav. dott. Carlo Saglione del fu Angelo, medico di S. M. il Re Vittorio Emanuele II, l’uno dell’età di anni 57, l’altro di anni 47, e il terzo di anni 41, domiciliati il primo a Torino e gli altri due in Roma, alla presenza nostra e delle LL. EE. il conte Francesco Arese del fu Marco, cavaliere dell’ordine supremo della Santissima Annunziata, senatore del Regno, di anni 72, dell’on. deputato al Parlamento nazionale Francesco Crispi del fu Tommaso, cavaliere Gran Cordone della Corona d’Italia, ministro per gli affari interni, di anni 58, informati e richiesti, hanno dichiarato che alle 2 e mezza pom. del giorno 9 di questo mese, in questa città di Roma e nella camera anzidetta è morto S. M. Vittorio Emanuele II Re d’Italia, che era nato il 14 marzo 1820 in Torino, dalle furono LL. MM, il Re Carlo Alberto e Maria Teresa, arciduchessa d’Austria, granduchessa di Toscana, ed era rimasto vedovo della defunta Regina Maria Adelaide, arciduchessa d’Austria.
« Accertata cosi la morte della prefata Maestà Sua, il re Vittorio Emanuele II, Re d’Italia, di anni 57, mesi 9 e giorni 26, abbiamo redatto il presente atto di Stato Civile, scritto in due registri originali da conservarsi l’uno negli archivi del Senato del Regno, e l’altro negli archivi generali dello Stato, ai termini dell’art. 38 dello Statuto fondamentale del Regno, e dell’art. 370 del codice civile.
« Data lettura di questo a tutti i presenti sopra nominati, i medesimi l’hanno con me sottoscritto nel doppio registro originale.
(Seguono le firme).
Il cadavere del re Vittorio Emanuele, dopo redatto l’atto di morte, fu imbalsamato dal dottor Saglione con l’aiuto del dottor Savignoni. Tutto l’occorrente per l’imbalsamazione fu fornito dalla farmacia Garneri al Gambero, che era quella della Corte.
Il re Umberto non permise che nessun artista ne facesse la maschera; il solo pittore Scipione Vannutelli fu ammesso nella camera mortuaria per ritrarre da morto l’effigie di Vittorio Emanuele. Il pittore non avendo seco i colori ne la tavolozza, si servì di quelli della regina Margherita e fece soltanto uno schizzo all’acquarello, che è conservato come reliquia preziosa dalla famiglia Reale.
La mattina del giorno 11, alle 9, avvenne il trasporto della salma dalla camera del pianterreno nel salone degli Svizzeri. Uno squadrone di corazzieri, in tenuta di parata, si schierava nel cortile del Quirinale, facendo fronte da tre lati, e col quarto aperto verso la porta che metteva nel quartiere di Vittorio Emanuele. La compagnia di bersaglieri di guardia si schierava in faccia allo scalone. Le dame della Rezina attendevano, vestite a lutto, a metà dello scalone; nel cortile, sotto il porticato, erano aggruppate le famiglie degli ufficiali della Casa civile e militare, e il personale del palazzo.
Il corteo uscì in quest’ordine dalla camera mortuaria: un pelottone di corazzieri, due ale di staffieri in livrea con torcie, due cerimonieri: Simone Peruzzi e il conte Menabrea, il maggiore Giannotti, ufficiale d’ordinanza di Sua Maestà il re Umberto, il colonnello Guidotti, aiutante di campo di Sua Maestà Vittorio Emanuele, e due ufficiali d’ordinanza.
Veniva subito la salma del Re seguita da tutti i dignitari della Casa civile e militare e da un pelottone di corazzieri.
Il general Medici camminava a stento e non sapeva frenare le lagrime.
Il corteo traverso il cortile fino allo scalone, passando dinanzi alla compagnia di guardia. Quel silenzio alto e funereo non era interrotto altro che dal suono degli sproni sul lastrico e da qualche singhiozzo. Il corpo del Re, vestito in alta uniforme, e avvolto nel manto di Gran Maestro dell’Annunziata, foderato d’ermellino, era posato su una barella di velluto rosso, portata dai quattro ufficiali dei corazzieri. Il volto era calmo, perfettamente conservato.
Il corteo procedè fino al salone degli Svizzeri. Questa sala era stata tutta parata di velluto rosso. Sul fondo era stato eretto un catafalco sormontato da un baldacchino foderato d’ermellino. Ai due lati erano eretti due altari, e dinanzi correva una cancellata per tenere il pubblico a distanza. Il corpo del Re fu collocato sul catafalco in posizione quasi verticale, affinché se ne potesse scorgere il volto. Sul primo gradino del catafalco era posata la corona reale, lo scettro, la spada, e su un cuscino la corona d’oro, offerta dalla città di Roma in quei giorni. Più sotto le altre corone, fra le quali aveva il posto d’onore quella inviata dal Principe ereditario di Germania; attorno al feretro sedici candelabri accesi e altri nella sala.
Il giorno seguente e quello successivo il popolo fu ammesso a visitare la salma. Aveva accesso dalla porta di via Venti Settembre, traversava il giardino e in mezzo a una fila di soldati e giungeva alla scala di servizio, che mette al salone degli Svizzeri. Qui traversava la sala fra una doppia fila di carabinieri, e riusciva dalla parte che mette allo scalone per uscire poi dalla piazza del Quirinale. Ma la folla era tanta e tanta che si dovette impedire il transito delle vetture dalla via Venti Settembre e raddoppiare i soldati. Non erano i romani soli che venivano a contemplare per l’ultima volta le sembianze del Re, ma un pellegrinaggio devoto, composto d’Italiani di tutte le provincie, accorsi qui subito dopo la morte. A Roma in quei giorni vi erano più di centomila visitatori e molti recavano seco corone, per modo che ai piedi del catafalco vi era nell’ultimo giorno tutto un ricco tributo di ghirlande di fiori e di foglie di lauro e di quercia, emblemi spettanti solo ai soldati vittoriosi.
Durante queste visite a uno degli altari pregavano i cappuccini, all’altro i cappellani di corte, e attorno al feretro vegliavano i corazzieri.
Il 16 soltanto la salma fu racchiusa nella doppia cassa mortuaria con molta pompa, in presenza di tutti i funzionari della corte, dei ministri e del Presidente del Senato. S. E. Depretis, in qualità di notaio della Corona, oltre l’atto di decesso pose nella cassa una relazione minuta degli atti avvenuti in quei giorni, e una descrizione dello stato del cadavere. La prima cassa, che era di zinco foderata di raso, fu suggellata con i suggelli della Corona; la seconda di noce, scavata in un tronco d’albero, riccamente ornata di borchie d’argento.
L’atto fu firmato prima dai due cavalieri dell’Annunziata Lanza e Minghetti, dal general Medici, dal conte Visone, dal conte Panissera di Veglio e da tutti i presenti e quindi il notaio della Corona applicò sulla cassa di noce una targa d’argento col nome del Re e la data della morte.
Il nuovo Re ricevè il giorno 12 il giuramento delle truppe. Queste erano schierate sul piazzale del Macao per modo da formare tre lati di un quadrato col fronte rivolto all’ingresso. Gli ufficiali portavano il lutto; le bandiere e le trombe erano velate di crespo nero.
Il Re uscendo alle 2 dalla palazzina del Quirinale era mesto e quasi affranto. A destra gli cavalcava il duca d’Aosta, sparuto e con lo sguardo vago; a sinistra il ministro della guerra, general Mezzacapo. Lo seguiva un numeroso Stato Maggiore, di cui facevano parte la casa militare del defunto Re, il grande scudiere conte di Castellengo, il generale Bertolé-Viale, gran cacciatore, e molti aiutanti di campo.
La folla salutava in silenzio il giovane Sovrano. Ma appena entrò sul piazzale del Macao scoppiò un applauso fragoroso e il popolo stringendosi attorno al cavallo lo salutava col grido di: «Viva Umberto I re d’Italia!»
Umberto I era commosso, le musiche suonavano la marcia reale, i soldati rendevano gli onori militari e la folla continuava ad applaudire.
Il Re percorse al passo il fronte delle truppe, quindi si collocò nel centro del quadrato, accolto da una nuova ovazione popolare.
In quel punto le bandiere dei quattro reggimenti di cavalleria, portate dagli aiutanti maggiori, furono collocate alla sinistra del Re. Il general Bruzzo lesse ad alta voce la formula del giuramento e i soldati alzando il braccio destro, gridarono: Giuro, confondendo la loro voce con quella di un migliaio di ufficiali che avevano formato un semicerchio intorno a Sua Maestà. Tutte le musiche allora intonarono la marcia reale e la folla rispose: «Viva il Re!»
In piazza dell’Indipendenza dove i soldati sfilarono, il Re ebbe nuove ovazioni e il popolo, rompendo le file volle avvicinarglisi; dal Macao al Quirinale il Re fu accompagnato sempre da evviva frenetici, ai quali rispondeva col suo bel saluto militare. Anzi quando giunse al quadrivio delle Quattro Fontane, il popolo trascinato dall’entusiasmo, ruppe i cordoni formati da un battaglione di bersaglieri, e facendo una barriera dinanzi al cavallo del Re, lo acclamò quanto volle. Umberto I, benché affranto dal dolore, trovò in quella calorosa dimostrazione un grande conforto, e lo diceva dopo tornato al Quirinale a tutti quelli che erano ammessi alla sua presenza.
Nello stesso giorno il Consiglio Provinciale di Roma si adunava d’urgenza nella grande aula ove già nella nicchia del fondo era stato collocato il busto del Re.
Il prefetto, Caracciolo di Bella, quando vide tutti i consiglieri ai loro posti, dichiarò aperta la seduta e tessé l’elogio funebre di Vittorio Emanuele. Il Prefetto disse in ultimo: «Raccogliamoci nel nostro dolore e dalla memoria del gran Re togliamo la guida per la nostra condotta avvenire».
Il presidente Cencelli pronunziò un breve ed affettuoso discorso nel quale fece l’elogio del defunto Re. Egli propose quindi che il Consiglio nominasse una commissione per redigere un indirizzo di condoglianza al re Umberto e alla regina Margherita, e propose pure che il Consiglio concorresse largamente alla sottoscrizione iniziata dal Consiglio Comunale per erigere a Roma un monumento a Vittorio Emanuele.
Il deputato provinciale Baccelli disse che nulla aveva da aggiungere alle parole eloquenti del Presidente e del Prefetto. «La grandezza della nostra sventura è solo pari a quella del nostro cordoglio. Quel grido di dolore che, uscito dalle cento città distaccate, spinse il gran Re alla loro liberazione, quel grido di dolore ha echeggiato un’altra volta, ma più straziante ancora, perché era quello della patria redenta, orba del suo padre. È bene che quel grido si perenni in un monumento di bronzo o di granito, durevole quanto la nostra eterna gratitudine e fedeltà alle istituzioni di cui fu egli il fondatore. I nostri figli vedendo collocata così in alto la figura del Re cittadino, diranno di lui quello che diceva Plinio a Traiano: «Vi furono despoti che si sollevarono sopra noi perdendo l’uso dei piedi, portati sul capo o collo di schiavi; tu ti sollevasti comminando con noi, perchè fosti il primo istauratore della patria».
«Riassumendo, o signori, le idee e i desiderii della deputazione, io vi prego di accettare per acclamazione il seguente ordine del giorno:
«Il Consiglio Provinciale di Roma nella comune sventura, si associa alle altre città e provincie del Regno e delibera che ad eternare la sua riconoscenza al gran Re che uni la Nazione e fondò la libertà, sia eretto un monumento nella Capitale del Regno ed a tale effetto stanzia nel suo bilancio una quota di concorso di lire 100,000.
«Ordina che il banco della Presidenza sia velato lutto durante la prossima sessione straordinaria.
«Nomina nel suo seno una commissione perchè insieme alla Presidenza e alla Deputazione Provinciale presenti alle LL. MM. un indirizzo che esprima i sentimenti di vivissima condoglianza e di eterna fedeltà della Provincia di Roma».
Come il deputato Baccelli aveva desiderato, tutte le sue proposte furono approvate per acclamazione fra gli applausi generali.
Il Presidente nominò la commissione composta dei signori de Rossi, Renazzi, Grispigni e Novelli e in fine di seduta Augusto Ruspoli propose che il Gran Re avesse sepoltura onorata in Roma, dove aveva detto «stiamo e resteremo».
Anche questa proposta fu approvata per acclamazione e giova notare che fra i consiglieri vi erano Borghese, Bandini, Aldobrandini, di Campello, de Rossi, Marucchi, Fontana, cioè tutti gli eletti con i voti dell’Unione Romana, i quali pur non assistendo alla seduta, avevano nel Consiglio Provinciale una certa influenza.
Il Consiglio Comunale, adunatosi subito dopo la grande sventura, aveva fatto ancor più e più presto. La sera del 10 si riuniva convocato d’urgenza e il ff. di sindaco Emanuele Ruspoli, propose che il Consiglio esprimesse il voto che Vittorio Emanuele avesse a Roma degna sepoltura e stanziasse 100,000 lire per concorrere al monumento. Terenzio Mamiani tessè con tanto affetto l’elogio del defunto Re, che fece piangere i consiglieri e il pubblico. Le due proposte furono votate all’unanimità in mezzo agli applausi e i consiglieri Mamiani, Vitelleschi e Sesmit-Doda vennero scelti per portare al re Umberto il voto del Consiglio.
Questo voto, non isolato, ma rispecchiante il desiderio di tutta l’Italia, rendeva perplesso il nuovo Sovrano. Duoleva a lui d’interrompere le consuetudini della sua casa, di non far riposare tutti i suoi cari nel Mausoleo di Superga, ma riconosceva che a Vittorio Emanuele spettava per diritto altra sepoltura nella Roma da lui resa all’Italia, e che a Roma spettava il dovere di custodirne la salma.
Il municipio di Torino aveva già spedito al Presidente del Consiglio dei Ministri il seguente indirizzo:
«Il municipio di Torino, interprete dell’universale sentimento della commossa popolazione volge preghiere vivissime e fa voti ardentissimi perché gli avanzi mortali del grande Monarca, che chiuse la serie dei Re di Sardegna e come tale condusse a termine le più perigliose imprese per la redenzione dell’Italia, abbia il sepolcro a Superga, ove stanno le ceneri del magnanimo suo padre, iniziatore del risorgimento nazionale, del prode suo fratello, compagno di lui nei campi di guerra, della madre sua diletta, della sposa affettuosissima, dei figli cari, dei grandi avi, nell’esempio dei quali crebbe alle forti virtù di principe e di soldato».
Il Re non volle prender da solo una deliberazione di tanta importanza e adunò al Quirinale il Consiglio dei Ministri, volendo, anche in una questione, nella quale avrebbe potuto esser solo arbitro, rimettersi al parere del Gabinetto. Presidente del Consiglio era un piemontese, ma il Depretis in questo dimenticò le sue origini per rammentarsi di esser soltanto italiano, e tanto il deputato di Stradella, quanto il Crispi, che aveva in quel tempo una grande e benefica autorità nel governo, consigliarono al Re di lasciare a Roma la custodia della salma gloriosa.
Roma aveva vinto e il Ruspoli, appena questa risoluzione gli fu notificata, rivolse a nome dei suoi concittadini il seguente indirizzo a Torino:
- «Ai Torinesi i Romani:
«La storia dei vostri eroici sacrifici non è compiuta: Roma a nome d’Italia, ne ha chiesto ancora uno, ed è il più doloroso.
«A conforto della vostra Suprema amarezza voi attendevate la salma di Quel GRANDE che tutti piangono, per tributare a lui le ultime testimonianze di affetto e deporlo nelle tombe dei suoi antenati.
«Il forte Piemonte le cui virtù erano tutte personificate nel Re soldato, sarebbe il più degno custode delle ossa gloriose, ma la Patria invoca da voi, che esse riposino in Roma. Il sepolcro del primo Re d’Italia sorgerà nella Capitale del Regno, affermazione del diritto italiano.
- «Torinesi!
«Roma confida in voi; in voi, popolo educato alla grande scuola dei sacrifici».
Quest’indirizzo si coprì di migliaia e migliaia di firme, e il Municipio di Roma, le raccolse in un volume e le rimise in seguito a quello di Torino.
Il Re stesso scrisse ai Torinesi una lettera affettuosa per mitigare il loro dolore. Eccone il testo:
- «Torinesi!
«Mio primo desiderio fu che la salma del Re fosse tumulata a Superga. In mezzo ai suoi cari avrebbe trovato un degno riposo, dopo un glorioso lavoro.
«Per me e per la mia famiglia pareva incomportabile rinunziare alla tomba dei nostri avi. L’Italia chiese che Re Vittorio Emanuele riposasse in Roma. Questa domanda solenne scosse il mio cuore di Re e di figlio: mi decisero le deliberazioni e il consiglio del mio Governo ad ordinare la tumulazione del Re glorioso in Roma, quale nuova affermazione dell’indissolubilità d’Italia, quale nuova sanzione dell’unità della patria.
- «Torinesi!
«Nato fra voi, educato agli esempi dei quali mio padre lasciomni larga eredità, so quanto faceste per la patria, so il cordoglio del Piemonte nel vedere tolta a Superga la salma amata. Non meno grave del vostro è il mio sacrificio. Appena lo conforta la gloria serbata al primo Re soldato di riposare in Roma, mèta dell’Italia. La gloria di averla raggiunta si riflette su Torino e sul Piemonte dove mio padre imparò l’incrollabile costanza dei propositi.
«Chiesi a voi un sacrificio che io ho fatto; alla religiosa devozione, al patriottismo vostro affido la spada che il Re cinse da Novara a Roma. Dono a voi ciò che ho di più santo’ e di più caro, i segni di valore che il Re conquistava combattendo per l’unità e l’indipendenza della patria.
«Costì erigerò un monumento che eterni la memoria del primo Re d’Italia. So con quanto amore lo custodirete. Fra poco verrò a ringraziarvi dell’atto di abnegazione che vi ho domandato per significarvi quanto mi confortano i sentimenti di affetto verso me e la patria, dei quali voi generosi mi deste splendide testimonianze.
«UMBERTO».
La quistione della città che avrebbe custodito le ossa del Gran Re era risolta, non così quella della chiesa ove sarebbero stati celebrati i funerali, nè del luogo ove la salma sarebbe tumulata in attesa del monumento, per erigere il quale si raccoglievano somme ingenti. Era una gara pietosa fra comuni e province, istituti e scuole, fra poveri e ricchi per contribuire alla erezione del sontuoso Mausoleo al primo Re d’Italia, che non doveva sorgere altro che a Roma.
Si desiderava che Pio IX accordasse una delle quattro Basiliche per i funerali, e a preferenza S. Giovanni.
Monsignor Anzino intavolò trattative in proposito col Vaticano per conto della Corte e il ministro dell’interno col cardinal di Pietro, uomo mite, col quale aveva fatto conoscenza a Lisbona nel 1858 e aveva riannodato amicizia a Roma, e con monsignor di Marzio, dotto prelato siciliano, al quale è ora affidata la Palatina di Palermo. Il Papa era propenso ad accordar la Basilica, come accordò il clero per il trasporto funebre e la chiesa del Pantheon per l’associazione del cadavere e la tumulazione, facendo, dicesi, un ultimo atto di autorità, contro il parere del cardinal Vicario e del cardinal Bilio, che aveva con sè tutti i fanatici. Pareva che Pio IX mostrandosi clemente volesse amicare l’Italia e Roma al Papato per toglier di mezzo gli ostacoli al Conclave futuro, che egli più d’ogni altro doveva prevedere più vicino di quello che si credeva.
La scelta del Pantheon soddisfece il desiderio degli Italiani e appena si ebbe la concessione dal Vaticano, si incominciarono i lavori, affinchè la salma vi fosse trasportata il giorno 19.
Mentre questi fervevano il Consiglio Provinciale di Roma inviava il seguente indirizzo al Re, già votato in precedenza:
- «Sire!
«Noi vi portiamo le lagrime della provincia di Roma per un’altissima sventura: la morte dell’augusto Vostro Genitore, Re Vittorio Emanuele. Esse sono testimonianza di immenso affetto per il grande estinto; sono arra di fedeltà a Voi che ne impugnaste la spada e lo scettro e volete serbare la lealtà e la fede nei grandi destini della Nazione.
- «Sire!
«Noi vi siamo grandemente riconoscenti di aver consentito che la salma del Grande Figlio d’Italia riposi in questa Roma, il cui acquisto alla patria fu il più grande dei suoi trionfi, fu la chiave di volta volta dell’edificio nazionale. Qua verranno le generazioni future a prender lena rammentando l’unità del triplice pensiero: Italia, Roma, Vittorio Emanuele. Stretti attorno al Vostro trono noi saremo con Voi se giorni di prova ci aspettano, per Voi saremo ognora sulla via della civiltà e del progresso.
«Lo spirito del primo Re veglia sulle sorti d’Italia, la sua grande figura c’incuora ai nostri doveri, tutti ci lega la gloriosa Dinastia di Savoia.
«Per il Consiglio Provinciale di Roma |
Il Municipio voleva che i funerali del Gran Re, non riuscissero soltanto solenni quali li richiedeva l’opera compiuta da lui, e quali avevali decretati il Governo, ma anche affettuosi per la partecipazione del popolo.
Con questo intento rivolse al popolo appunto il seguente manifesto:
S. P. Q. R.
«Romani! «La nostra città nella sua storia, che fu quella del mondo, non ebbe mai per volger di secoli più giusta ragione di piangere ed onorare un Re ed un Eroe.
«Il grido di dolore del popolo italiano oppresso e diviso, che Egli redense e compose in una sola famiglia, si è ridestato all’annunzio della sua morte. Fra le nostre mura è convenuta gente innumerevole da ogni parte d’Italia, a render tributo di pianto al suo liberatore e Re; oggi in Roma, batte il cuore di tutta la Nazione.
«Lui, fondatore del Regno d’Italia, il mondo civile onorava ed onora; Principi illustri, i Legati di tutta Europa e quelli di più lontane regioni assisteranno ai funerali di Lui, associandosi al nostro lutto.
«Sette anni or sono, noi salutammo Vittorio Emanuele trionfatore e vindice: domani Egli avrà tomba nel più degno dei nostri eterni monumenti.
«Quella tomba sarà per noi sacra quanto la patria libera ed una. Il nome di Vittorio Emanuele II vi starà perenne ammaestramento delle virtù, che fanno un popolo libero e grande.
«Dal Campidoglio, a dì 16 gennaio 1878.
«E. Ruspoli Sindaco ff. — G. Finali — A. Armellini — E. Cruciani — Aliprandi — O. Sansoni — S. Gatti — G. Fraschetti — P. Poggioli — L. Torlonia — G. Mazzino — F. Nobili-Vitelleschi — A. Bracci».
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Mentre dall’Italia giungevano senza interruzione le deputazioni dei Comuni, degli istituti, dei sodalizi per assistere ai funerali, dall’estero giungevano le missioni speciali inviate dai Sovrani. Il 13 arrivò l’arciduca Ranieri d’Austria, cognato e cugino del defunto Re, e zio di Umberto I. Veniva come parente e come inviato dell’Imperatore d’Austria, e fu ricevuto dalla Corte con gli onori dovuti, e dal popolo con vera gratitudine.
L’Arciduca abitava al palazzo Chigi, presso l’ambasciatore de Haymerle, ma passava molta parte della giornata al Quirinale e vi pranzava ogni sera. Dal pranzo di famiglia erano stati esclusi dame e gentiluomi, e alla tavola delle LL. MM. non prendevano posto altro che il Principe di Carignano, il Duca d’Aosta, e l’Arciduca Ranieri.
Il giorno seguente giunse pure il maresciallo Canrobert, inviato speciale del Presidente della Repubblica Francese. Al vecchio e glorioso campione delle guerre di Crimea .e di Lombardia erano stati uniti il colonnello Lemmoine, già addetto militare a Roma, ove s’era meritate le simpatie della Corte e dell’esercito, e il luogotenente Patrizio di Mac-Mahon, figlio del Presidente della Repubblica. La missione francese abitava all’albergo Costanzi.
In quello stesso giorno arrivava il principe Federigo Guglielmo, erede della Corona di Germania, l’amico del nostro giovane Re, l’idolo del popolo italiano. Quegli che fu poi Federigo III veniva in un momento di grande dolore a ribadire quei vincoli di amicizia non mai smentita da tanti anni fra le due dinastie e le due nazioni. S. A. I. fu ricevuta alla stazione dal Principe di Carignano, dalla casa militare del Re e da una deputazione della Camera. I due Principi si baciarono affettuosamente e il vecchio principe Eugenio piangeva. Federigo Guglielmo aveva le spalline, la sciarpa, la dragona e la cintura della spada velate di nero e il volto bellissimo rivelava una grande tristezza. Una vera ovazione popolare accolse l’erede del trono di Germania all’uscire dalla stazione. Il Principe andò ad abitare all’ambasciata di Germania, ma ne riusci subito per visitare la salma di Vittorio Emanuele e salutare il Re. Il loro incontro fu veramente affettuoso; parevano due fratelli che piangessero insieme, colpiti ambedue da una comune sventura.
La sera del 16 tutta la guarnigione di Roma era sotto le armi, schierata lungo le strade che dalla stazione mettono al Quirinale, tutto il popolo era nelle vie per salutare la Regina Maria Pia, l’infelice principessa di Savoia, che aveva mosso dal lontano Portogallo, insieme col suo primogenito, per trovarsi al fianco della sua famiglia nei giorni del dolore. Il Re era andato ad attenderla alla stazione, insieme con l’arciduca Ranieri, col principe Federigo Guglielmo, col maresciallo Canrobert e con i Principi della sua casa. La Regina Maria Pia era così affranta, così mesta, che non poteva parlare. Scambiò abbracci affettuosi coi fratelli; salutò col capo ad uno ad uno i personaggi che le venivano presentati e sali in carrozza insieme col Re. La folla l’accompagnò per tutta la via gridando: «Evviva la figlia del Re Galantuomo!» e le grida raddoppiarono all’ingresso della palazzina del Quirinale, ove a piedi della scala incontrò la Regina Margherita, nelle cui braccia si getto piangendo. La pietosa figlia del Re volle subito visitare la cappella mortuaria e passo gran parte di quella prima sera del suo arrivo a pregare, inginocchiata dinanzi alla salma di Vittorio Emanuele.
La Regina d’Inghilterra aveva inviato il conte Roden, il granduca di Baden il proprio fratello, il governo Rumeno il signor Balacteano, già ambasciatore a Vienna; tutti gli altri sovrani avevano affidato la missione di rappresentarli al trasporto funebre ai loro ambasciatori e ministri.
Che cosa fosse Roma la sera e la notte prima del 17 non si può dire. Le vie anche più remote erano piene di gente in cerca di alloggi, di comitive d’Italiani di altre provincie che passeggiavano, non tentando neppure di cercarsi un ricovero, tanto l’impresa era inutile. Alle sei della mattina la folla era così compatta da rendere malagevole la circolazione, e le vie per cui doveva passare il corteo erano già invase. Alle otto la guarnigione di Roma e 30,000 soldati, venuti di fuori, erano sotto le armi; così quella parte che doveva precedere e seguire il carro, come l’altra che doveva fare ala sul suo passaggio.
Il carro, quello stesso che aveva servito ai funerali di Carlo Felice, alto, sontuosamente ornato e tirato da otto cavalli piumati e coperti di gramaglie, condotti a mano dagli staffieri, si fermò alle 10 dinanzi allo scalone della Reggia. Nel cortile del Quirinale vi erano già 450 deputati, circa 200 senatori, i membri della Corte dei Conti, della Corte di Cassazione e d’Appello, del Tribunale supremo di guerra, dei Consigli superiori, del Corpo diplomatico, dei Municipi di Roma e di Torino.
La cassa fu portata dagli ufficiali dei corazzieri e dai graduati, e issata sul carro. Quindi i maestri di cerimonie dettero il segnale che il corteo si movesse.
Esso componevasi cosi:
Uno squadrone di cavalleria, una batteria, una musica di fanteria, una compagnia del genio, un battaglione di bersaglieri, un distaccamento di marina, un battaglione alpino, un battaglione di fanteria.
Venivano poi una musica di fanteria, un battaglione d’istruzione, una compagnia di allievi carabinieri, un distaccamento della scuola di marina, un battaglione composto dell’Accademia di guerra, delle Scuole e dei diversi Collegi militari, una musica militare, l’ufficialità dell’esercito e dell’armata, il comandante delle truppe con lo Stato Maggiore a cavallo.
Sfilavano dopo il corpo insegnante e degli Istituti di scienze e belle arti di Roma, i sindaci e le giunte municipali di Roma e Torino, i presidenti e le deputazioni dei tribunali civili e di commercio, il Rettore e il consiglio accademico dell’Università romana, la deputazione provinciale di Roma, i segretari generali e direttori generali dei ministeri e della Casa civile del Re, e le deputazioni degli impiegati, il prefetto di Roma e il consiglio di prefettura, gli ufficiali generali di terra e di mare, la Corte d’Appello, le deputazioni del Consiglio superiore dei lavori pubblici, dell’istruzione pubblica, dei Comitati delle diverse armi, dei consigli consultivi dei ministeri di guerra e marina, il Comando generale dello Stato Maggiore, il Consiglio superiore di marina, la deputazione dei consigli e del Gran Magistero dei SS. Maurizio e Lazzaro, dell’ordine militare di Savoia, dell’ordine del Merito Civile di Savoia e dell’ordine della Corona d’Italia.
Quindi venivano la Corte dei Conti, la Corte di Cassazione, preceduta dai mazzieri, il Consiglio di Stato, i Deputati, i Senatori, un pelottone di trombettieri, i grandi ufficiali dello Stato, i cappellani di Corte e il parroco e il clero dei SS. Vincenzo e Anastasio, gl'inviati straordinari, i capi di missioni, i cavalieri dell’Annunziata, Lanza, Minghetti, Cialdini e Sermoneta, Sua Altezza Reale il duca d’Aosta, il Principe Imperiale di Germania, l’Arciduca Ranieri e il Principe Reale di Portogallo.
Seguiva i Principi il general Medici a cavallo con la spada di Vittorio Emanuele a traverso la sella. Dopo veniva il carro circondato dai ministri Depretis e Crispi, dai presidenti della Camera e del Senato, Farini e Tecchio, dai cavalieri dell’Annunziata, Ricasoli e Arese.
Un alto silenzio regnava per tutte le vie, benché fossero stipate di popolo. Sul carro piovevano dalle finestre fiori e corone.
Subito dopo il carro, camminava l’on. Correnti recando su un guanciale di velluto rosso la Corona ferrea dei re Longobardi, che si vuole fatta con i chiodi della Croce, e dietro il Capitolo e la fabbriceria di Monza, ai quali la corona è affidata, poi gli aiutanti di camera del defunto Re, il suo cavallo di guerra, che Vittorio Emanuele montava a Palestro e San Martino.
La vista di quel cavallo coperto di gramaglie destava in tutti la commozione. Lo seguivano ottanta bandiere dell’esercito accompagnate da una scorta d’onore, le rappresentanze dei municipi e delle provincie, le società e le corporazioni. Uno squadrone di cavalleria chiudeva il corteo, che lentamente giunse al Pantheon passando per le vie Venti Settembre, Quattro Fontane, Tritone, via due Macelli, piazza di Spagna, Babbuino, piazza del Popolo, Corso, via Lata, piazza del Collegio Romano, via Piè di Marmo, piazza e via della Minerva.
Il passaggio del corteo era accompagnato dallo sparo del cannone e dai rintocchi lugubri delle campane di Montecitorio e del Campidoglio.
Nella chiesa era stato eretto un superbo catafalco sormontato da un ricchissimo padiglione di velluto nero a frange d’oro.
La chiesa non avrebbe potuto contenere tutte le persone che componevano tutto il lunghissimo corteo, così non vi furono ammessi altro che i Principi, i capi di missioni, i Deputati, i Senatori, i grandi dignitari dello Stato e della Corte e gli Ufficiali generali.
Sulla porta del tempio, allorchè il carro si fermò, trovavasi a ricevere la salma il capitolo con l’arciprete Gori. La cassa fu presa da 16 corazzieri e mentre entrava in chiesa si abbassarono le 80 bandiere dei reggimenti di fanteria, che erano aggruppate a fianco della porta.
L’arciprete benedì la bara, che fu deposta dai corazzieri sul grande catafalco. Quindi venne coperta col drappo funereo e su di esso, furono posate la corona Reale, lo scettro, la spada, l’elmo e la corona ferrea; attorno al catafalco erano state deposte tutte le corone giunte al Quirinale il giorno prima e la mattina stessa, fra cui quella delle signore romane, portata dalla Marchesa del Grillo.
L’arciprete intuonò l’antifona: Non intres, dopo fu eseguito dagli accademici di Santa Cecilia e della Filarmonica il Libera me Domine, e all’Oremus l’arciprete benedì di nuovo la salma e per ultimo fu cantato il Benedictus. Alle parole Requiescat in pace una commozione potente s’impadroni di tutti gli astanti.
Fu osservato che dei consiglieri comunali di Roma, di parte clericale, il solo che partecipasse al corteo fu il marchese Ferraioli.
Tutto il giorno il tempio fu visitato da una folla di gente, e a mezzanotte gruppi di popolo che tentavano di penetrare. Per tre giorni consecutivi il pellegrinaggio pietoso non cessò mai e nella mattina a tutti gli altari si dicevano messe di Requiem.
Sul frontone del tempio si leggeva:
a vittorio emanuele ii
padre della patria
Sulla porta
italia
con orgoglio di madre
con dolore di figlia
prega
al gran re
che fu cittadino fedele e soldato vittorioso
l’immortalità dei giusti e degli eroi
Si vuole che queste iscrizioni fossero dettate dal Coppino, ministro della pubblica istruzione.
La terza sera dopo il trasporto al Pantheon, quando si potè ottenere che la folla sgombrasse il tempio, fu sepolto il cadavere del Re fra l’altare maggior e quello di Sant’Anastasio. Assistevano alla cerimonia i ministri e le case militari del Re e dei Principi. Una semplice lapide con le lettere in oro indicava la sepoltura del Padre della Patria.
Per il giorno 16 erano stati convocati Senato e Camera. Le due aule erano parate a lutto. Non solo sul banco della presidenza erano stesi i veli con frange d’argento, ma anche sugli stalli dei deputati e attorno agli stemmi delle città italiane. Ai due rami del Parlamento il presidente del Consiglio lesse con le lagrime agli occhi l’elogio funebre del defunto Re, e il Tecchio al Senato nel partecipare la risposta fatta da Vittorio Emanuele alla deputazione che gli recava gli augurii, non seppe trattenere il pianto.
Dopo i funerali, alla distanza di due giorni, vi fu la seduta reale per il giuramento di Umberto I.
Il Principe Imperiale di Germania, che doveva partire, rimase per assistere alla solenne seduta e accompagnò a Montecitorio la Regina d’Italia e la Regina di Portogallo, insieme con l’Arciduca Ranieri, col Principe di Baden e col maresciallo Canrobert.
Alle 2 precise giunse il Re Umberto, accompagnato dal Duca d’Aosta e dal Principe di Carignano e fu ricevuto alla porta del palazzo dalla deputazione delle due Presidenze. Applausi lunghi salutarono il suo apparire nell’aula, come avevano salutato l’arrivo della Regina.
S. M. il Re prese posto sul trono avendo a destra il duca d’Aosta, a sinistra il principe di Carignano. Dirimpetto al trono c’era un banco speciale per la presidenza del Senato e della Camera. S. E. il Ministro dell’interno, dopo aver preso gli ordini da S. M. il Re, invitò i signori Senatori e i signori Deputati a sedere.
Allora S. E. il Ministro di grazia e giustizia annunziò che i due rami del Parlamento erano riuniti per presenziare il giuramento che Sua Maestà il Re Umberto, salendo al trono, doveva fare in conformità dell’art. 22 dello Statuto del Regno.
Sua Maestà il Re si alzò in piedi. I Deputati e i Senatori fecero altrettanto. Quindi S. M., con voce chiara e vibrata, giurò secondo la formola seguente:
«In presenza di Dio ed innanzi alla Nazione giuro di osservare lo Statuto, di esercitare l’autorità reale in virtù delle leggi e conformemente alle medesime, di far render giustizia a ciascuno secondo il suo diritto, di regolarmi in ogni atto del mio regno col solo scopo dell’interesse, della prosperità e dell’onore della patria».
Applausi prolungati accolsero il giuramento del Re.
Frattanto S. E. il Ministro di grazia e giustizia presentò al Re tre pergamene, su ciascuna delle quali era trascritto il giuramento, perchè le firmasse. Una di esse doveva rimanere negli archivi della Corte, una negli archivi della Camera e una in quelli del Senato.
Dipoi giurarono i Senatori e Deputati; dei primi fece l’appello il Ministro di grazia e giustizia, dei secondi il Ministro dell’interno.
I Deputati presenti erano in numero di 450 e i senatori circa 180. Finita la cerimonia del giuramento, il Re lesse il seguente discorso:
- «Signori Senatori, Signori Deputati,
«Le parole che nei primi momenti di dolore diressi al mio popolo, vengo ora a ripeterle ai suoi rappresentanti.
«Io mi sento incoraggiato a riprendere i doveri della vita dal vedere come il lutto della mia casa abbia trovato un’eco sincera in ogni parte del nostro paese, come la benedetta memoria del Re liberatore abbia fatto di tutte le famiglie italiane una sola famiglia. (Applausi prolungati).
«Tanta unanimità di affetti su di grande lenimento al cuore della mia diletta consorte, la Regina Margherita, la quale educherà il nostro amatissimo figlio ai gloriosi esempi del suo grande avo. (Triplice salva d’applausi. Grida di viva la Regina Margherita).
«Nè meno confortevoli ci sono stati nell’improvviso lutto, il compianto di tutta l’Europa, il concorso d’Augusti Principi e d’illustri personaggi stranieri, che crebbero solennità e significanza agli onori resi al nostro Primo Re nella Capitale del Regno. (Applausi).
«A voi tocca di mantenere il paese a si grande altezza.
«Noi non siamo nuovi alle difficoltà della vita pubblica. Pieni di utili insegnamenti sono gli ultimi trent’anni della storia nazionale, nei quali per alterne prove d’immeritate sventure e di preparate fortune si compendia la storia di molti secoli.
Questo è il pensiero che mi affida nell’assumere gli alti doveri che mi si impongono.
«L’Italia, che ha saputo comprendere Vittorio Emanuele, mi prova oggi quello che il mio grande Genitore non ha mai cessato d’insegnarmi, che la religiosa osservanza delle libere istituzioni è la più sicura salvaguardia contro tutti i pericoli. (Vivi applausi).
«Il Parlamento, fedele alla volontà nazionale, vorrà guidarmi nei primi passi del mio Regno con quella lealtà d’intenti che il glorioso Re, di cui tutti celebrano la memoria, seppe inspirare anche nella viva emulazione dei partiti e nell’inevitabile conflitto delle opinioni. (Applausi).
«Sincerità di pensieri, concordia di amor patrio, ci accompagneranno, ne son certo, nell’ardua via che prendiamo a percorrere, in fine della quale io non ambisco che meritare questa lode: Egli fu degno del Padre». (Applausi vivissimi e prolungati. Grida di Viva il Re).
Una ovazione continua accompagnò il Re da Montecitorio al Quirinale; qui i gridi emessi da migliaia di petti divennero così insistenti, che le LL. MM. dovettero farsi al balcone. Il Re aveva spinto innanzi la Regina Pia e parve volesse presentarla al popolo. Questo atto fece raddoppiare i gridi; il popolo chiedeva di vedere il Principe di Napoli. Allora il bellissimo Principe ereditario di Germania, che si associava sempre con tanta spontaneità d’affetto alle gioie e ai dolori della casa di Savoia e dell’Italia, prese fra le braccia il piccolo Vittorio Emanuele e lo presentò al popolo baciandolo.
I gridi, a quell’atto del Principe tedesco, si cambiarono in urli frenetici, e agli evviva al Re e all’Italia si univano gli evviva alla Germania.
Chi ha visto quella scena la rammenta ancora commosso, e rivede il forte guerriero stringere fra le braccia l’erede della dinastia italiana, quasi a significare che la salda amicizia dell’impero tedesco non sarebbe mai mancata al giovine Regno.
L’Italia e il suo Sovrano non potevano desiderare in un momento di lutto e di trepidazione maggiori dimostrazioni di simpatia, nè più numerose. Non voglio qui enumerare le commemorazioni del gran Re che si fecero nei Parlamenti stranieri, nel seno delle associazioni, nè tener conto di tutti gl’indirizzi di condoglianza e di simpatia che giunsero al Quirinale. Riprodurro soltanto quella del Consiglio Comunale di Brusselles, la città che aveva fama di nutrire odio per gl’Italiani dopo che erano venuti a Roma, e dove gli ultramontani si riunivano a preferenza per ordire trame innocue, è vero, contro il possesso di Roma per parte nostra. Dati questi fatti, l’indirizzo votato all’unanimità dal Consiglio Comunale della capitale del Belgio aveva un alto significato:
- «Sire,
«Da secoli la gloria e il dolore hanno fatto del Belgio e dell’Italia due nazioni sorelle: sorelle per le tradizioni di un grande passato, sorelle per la fama artistica, sorelle infine per un lungo martirio della dominazione straniera.
«L’Italia e il Belgio sono nazioni sorelle anche oggi, poichè la loro indipendenza ha la medesima origine: la volontà nazionale; la medesima guarentigia: la Monarchia costituzionale e liberale. L’una consolida ciò che l’altra ha fondato.
«Tra sorelle un lutto di famiglia è una sventura che si divide.
«A questo titolo noi crediamo d’avere il diritto d’unire il nostro rammarico ai dolori di V. M. e del suo popolo; a tutti e due la morte ha rapito un padre.
L'OBELISCO PER I MORTI DI DOGALI
«Si, o Sire, Vittorio Emanuele può, senza adulazione, essere chiamato il padre della patria italiana, perchè codesta patria egli l’ha fatta col suo coraggio, colla sua fermezza e colla sua saggezza, dandole l’unità.
«Il 1789 aveva, in Europa, secolarizzato la società civile, il regno d’Italia secolarizza la società politica.
«Vostra Maestà continuerà l’opera paterna, noi ne abbiamo la profonda convinzione. Questa convinzione è permessa al popolo fortunato che ritrova in Leopoldo II il degno erede del fondatore della dinastia.
«Ricevete, Sire, con benevolenza, l’omaggio rispettoso e simpatico del consiglio comunale di Brusselles. Ricevete i nostri voti sinceri per la prosperità d’Italia una e libera, sotto lo scettro popolare della casa di Savoia».
Uno dei primi pensieri del nuovo Re fu quello di ringraziare Roma per le dimostrazioni di riverenza prodigate al padre suo, per i tributi di affetto che avevagli portato. Il prezioso autografo trovasi depositato negli Archivi Capitolini.
«R. palazzo del Quirinale, 4 febbraio 1878.
- «Alla Diletta Città Capitale del Regno:
«Fino dal giorno in cui ci colpi la grande sventura che lo scorrere del tempo nona llevia, nè disacerba io aveva sentito il bisogno di rivolgermi per conforto alla città di Roma, terra di altissimi pensieri, che col suo solo nome aggiunge maestà ad ogni avvenimento, e serba consolazione per ogni dolore.
«Voi - Alti rappresentanti della cittadinanza Romana me ne avete prevenuto; ed io ve ne ringrazio.
«Roma — suggello infrangibile dell’Unità Italiana, monumento imperituro di Re Vittorio Emanuele con la inspirata disciplina del suo Popolo ha dimostrato, in questo giorno d’improvviso lutto, come qui sia pronta, viva, solenne la manifestazione della coscienza nazionale. Per questo l’Italia desiderò, e io ho consentito, che la salma del Re Liberatore restasse per voi, come ossequio al passato della prima Italia, come pegno di fede e di promesse per l’Italia rediviva.
«Cosi ai Romani io confidai ciò che di più sacro ho in terra.
«La religione dei sepolcri è secolare ed inviolata nella mia Casa. Sulla tomba del mio Avo magnanimo e sfortunato, il Re Vittorio Emanuele giurò di compiere l’impresa a cui Carlo Alberto aveva sacrificato la corona e la vita. Quel giuramento fu mantenuto. L’Italia sa quale è il voto che io ho pronunziato sull’avello del Glorioso Re mio Genitore, nè io lo dimenticherò giammai.
«UMBERTO»
La Regina non era stata dimenticata dalle signore romane; a lei, la bella, la buona, la colta sovrana, esse si affrettarono a presentare un indirizzo così redatto:
- «Maestà!
- Per l’immensa sciagura che ha colpito l’Augusta Vostra Famiglia e che destò così profondo il lutto della Nazione rafforzandone la fede e gli affetti, noi abbiamo lacrimato con Voi, abbiamo partecipato alla Vostra angoscia di Figlia, di Sposa, di Italiana.
«Oggi, Maestà, noi Vi preghiamo di accogliere questa testimonianza della nostra devozione e del nostro dolore, al quale è conforto il pensiero di chiamare Regina Voi, che meritate per virtù la grandezza, e a cui l’amore del popolo giunse prima che lo splendore del trono».
Uno dei primi atti di Umberto I fu quello di accordare una amnistia per i reati politici e di stampa, per tutti gli altri soggetti a pena di mesi sei e una riduzione di sei, mesi per ogni altra pena. L’amnistia commutava ogni pena di morte in pena dei lavori forzati a vita. Con un altro decreto amnistiava pure i renitenti alla leva, purché si presentassero dentro quattro mesi al distretto.
Il Re aveva pensato anche ai poveri in quei giorni di lutto e aveva rimesso 50,000 lire al Sindaco, e 50,000 al Cardinal Vicario. Il Cardinale accettò l’obolo reale e rispose ringraziando e assicurando che le elemosine sarebbero state specialmente distribuite nella parrocchia ov’era morto il Re Vittorio Emanuele. Alcuni parroci pare che rifiutassero di distribuire le elemosine; uno nel distribuirle diceva: «Ecco il denaro che vi manda il vostro Re». Ammoniti dal Cardinal Vicario, che aveva ordini superiori, finirono però per ripartire il denaro fra i loro poveri senza far più osservazioni.
Il lutto grave che la corte aveva preso per sei mesi, e i nove giorni trascorsi dal giorno della morte del Re ai funerali, durante i quali i teatri erano stati chiusi, avevano molto danneggiato i direttori delle compagnie. Il ministro dell’interno fece loro rimettere cinque mila lire, e cinque mila ne mandò il Sindaco all’impresario dell’«Apollo». Del resto a Roma in quei giorni tutti avevano guadagnato e il denaro non scarseggiava davvero, perchè lo ripeto, il numero delle persone venute alla capitale in quel tempo è incalcolabile, e l’ordine sotto ogni aspetto fu ammirevole. Il ministro dell’interno ebbe ragione d’encomiare il questore Bolis, ma molti elogi egli avrebbe dovuto farli a se stesso. Il Crispi aveva voluto provare all’Europa che le istituzioni erano così salde in Italia, da non potere essere scosse neppur dalla morte del fondatore della unità, e vi era splendidamente riuscito.
L’improvvisa perdita fatta dall’Italia, aveva destata la musa di tre poeti: Anselmo Guerrieri Gonzaga, il traduttore di Goethe, scrisse un bel sonetto; un canto dettò Valentino Giachi, che incominciava:
«Parliam di Lui, fratelli. Ahimě! disparve |
Il carme di Domenico Gnoli era intitolato: È morto il Re. Ne rammento pochi versi solamente e non i primi. Eccoli:
«È morto il Re! Come funerea coltrice |
Che udran da noi quand’Ei, commosso al flebile Grido Latino, La Corona gettò dei Re Sabaudi Là dal Ticino: Quando i suoi prodi afferravan le briglie Del Re Guerriero Cacciante nel fragor delle battaglie L’arduo destriero: Quando, recinta la fronte d’un fulgido Serto d’amore, Ei cavalco tra la follia de’ popoli Liberatore. E le cento città, tra i monti e l’isole Dove il si suona, Furon le cento gemme che ingemmarono La sua corona». </poem>}}
Non rammento altro del bel carme e non so dove trovarlo. Questo mi scuserà presso l’autore di averlo presentato così, senza capo nè coda.
I lutti non erano terminati. Mentre a Roma si lavorava per fare solenni esequie al Re al Pantheon il 9 febbraio, un’altra morte venne a contristare non solo la capitale, ma tutto il mondo cattolico.
Pio IX, grave di anni, aveva superato una penosa malattia, e si diceva pienamente ristabilito, quando il giorno 7 del mese di febbraio, alle 10 di mattina, si seppe che era aggravatissimo, non per la consueta infermità alle gambe, ma per una bronchite, malattia pericolosa, data l’età e la costituzione del Pontefice. E questo si seppe, o meglio si suppose, perchè dal Vaticano era partito ordine a tutte le chiese e parrocchie di esporre il SS. Sacramento, senza indicare lo scopo della esposizione.
Si sapeva che il Papa il giorno prima era in buona salute e aveva ricevuto diverse persone, e la notizia della sua grave infermità, sparsasi non si sa come, perchè l’uscita dal Vaticano era rigorosamente proibita a quanti vi si trovavano, gettò in Roma una specie di panico, ed era naturale. Dal 1870 non si era avverata nessuna morte di Papa, non era stato tenuto nessun conclave, e non sapevasi quali pareri avrebbero prevalso in Vaticano. Inoltre, era così recente la morte del Re, gli animi erano ancora così scossi, che ogni notizia funebre era capace di turbarli. E cosi, appena fu esposto il SS. Sacramento nelle chiese, una folla corse al Vaticano. I giornalisti, avidi di notizie; i cittadini, curiosi di novità; gli addetti alla Corte Pontificia, perplessi, formavano quella folla. Pochi privilegiati in piccol numero furono ammessi nel palazzo pontificio. Allora soltanto si seppe che il Papa, alle 4 della mattina, era stato colto da un violento accesso di febbre, e che tutti i cardinali residenti in curia erano stati chiamati al Vaticano. Prima che partisse l’ordine delle preci e della esposizione nelle chiese, monsignor Marinelli, sacrista maggiore, amministrava il Viatico al Pontefice, mentre nella camera di lui oravano molti cardinali. Il Papa volle comunicarsi da se, ma le forze gli mancarono, poichè la paralisi aveva già invaso il braccio destro, così che monsignor Marinelli dovette sostenere il braccio del morente, affinchè la mano potesse introdurre la particola fra le labbra.
Dopo il viatico monsignor Marinelli amministrò al Papa l’estrema unzione.
V’erso le 10 il polso aumentò sempre di frequenza e il respiro facevasi sempre più affannoso; pareva che ad ogni momento l’infermo dovesse rimanere soffocato dal catarro, mentre conservava piena lucidità di mente. Alle 12 entrava in agonia, e profittando dell’ultimo residuo di forze, benediva i cardinali. Alle 3 perdeva l’uso dei sensi, e alle 5 spirava. Il cardinale penitenziere maggiore, che ne avea spiato l’ultimo respiro, intonò il Requiem.
La camera nella quale mori Pio IX, modestamente arredata, era piccola e quadrilunga. Vi erano due letti, perché quando il Papa era ammalato, si trasportava da uno nell’altro per cambiarlo. Nel mezzo si vedeva un mobile alto su cui stavano alcuni oggetti di devozione; a capo al letto erano appesi due quadretti, uno rappresentante San Giuseppe, l’altro la Madonna di Sinigaglia, di cui il defunto era particolarmente devoto.
Ma sulle ultime ore dell’ultimo Papa che ha esercitato il potere temporale, lasciamo che parli l’Osservatore Romano.
«Fin dalla sera precedente i medici curanti avevano osservato nel Santo Padre i sintomi di una leggera febbre. Nella notte i sonni dell’augusto infermo furono più volte interrotti. Alle 3 ant. fu somministrato al Santo Padre qualche ristoro, si che parve tornato quasi allo stato ordinario. Ma però, prima delle 5 manifestavasi una grande agitazione accompagnata da freddo, ed una inquietante frequenza di respiro. Alle 8 e mezza il polso facevasi frequente, ma depresso; le vie bronchiali erano ingombrate persistentemente da copioso catarro. Però, nell’aggravarsi di tali sintomi, la mente godeva della più perfetta lucidità. Fu allora che mons. Marinelli, sagrista di Sua Santità, comunicò per viatico il Sommo Pontefice. E alle 9 lo stesso monsignore somministrava al Santo Pontefice la estrema unzione. Alle 10 il polso era appena sensibile.
«Frattanto l’ordine dato di esporre il Santissimo Sagramento nelle chiese parrocchiali, aveva svegliato il timore di molti, che non volevano prestare fede alla imminenza di una sciagura. Da tutte le parti si accorreva al Vaticano, e coloro che potevano esservi ammessi, leggevano la conferma dei loro timori nella tristezza che regnava sui volti.
«Intanto il morbo fatale faceva rapidi progressi, la superficie del corpo accennava a raffreddarsi, e un incipiente lividore invadeva le estremità. Passava un’altra ora e la respirazione si faceva sempre più difficile, e, cosa straziante, era accompagnata da un rantolo di tristissimo augurio. La mente del Santo Padre rimaneva sempre serena.
«Le anticamere erano gremite di tutti gli attinenti alla Corte, i quali confusi con tutti gli eminentissimi cardinali, coi membri del corpo diplomatico, e con altri personaggi, non celavano ormai più la espressione del loro dolore.
«In questo momento il Santo Padre, preso il Crocifisso di sotto il capezzale, benediceva con quello tutti coloro che circondavano il suo letto.
«Erano le 12 meridiane, e i medici avvertirono che la respirazione era divenuta addominale.
«Tutti i membri del Sacro Collegio erano raccolti nella stanza del moribondo Pontefice, ed ai suoi fianchi tenevansi costantemente l’eminentissimo Bilio, penitenziere maggiore, e il reverendissimo Martinelli.
«Incomincia, in mezzo a un religioso silenzio interrotto da singulti, la raccomandazione dell’anima, e nel recitarsi l’atto di contrizione il Santo Padre, raccolte tutte le sue forze, pronunziava distintamente le parole: «Col vostro santo aiuto...».
«Il respiro si fa sempre più affannoso, il rantolo sempre più pronunciato.
«Il Santo Padre conserva tuttora le facoltà della mente, e fa capire come gli dolga di non potere esprimere verbalmente le proprie idee. L’eminentissimo Bilio gli domanda che benedica tutto il Sacro Collegio dei Cardinali, e Sua Santità leva la mano e benedice.
«Ma in sulle 3 e 40 la cianosi avanza dalla superficie verso in centro, gli occhi cominciano a velarsi e...l’agonia incomincia.
«E qui manca la lena per descrivere lo spettacolo straziante che nelle due lunghissime ore che essa è durata hanno presentato quelle sale, tutte piene della presenza del Santo Pontefice, mute spettatrici dei suoi dolori, testimoni delle sue diuturne ed ardenti preghiere.
«Non pareva possibile che una tanta vita stesse per ispegnersi.
«Le più sante parole di conforto erano prodigate all’orecchio del moribondo dai cardinali assistenti, le preci si alternavano con le preci, e tutto il tesoro delle divine misericordie era invocato sul capo dell’amatissimo Padre, che stava per lasciare derelitti su questa terra i suoi amorosi figliuoli.
«Nelle anticamere si affollavano moltissime persone cui era stato consentito l’ingresso, e che genuflesse al suolo e piangenti invocavano la divina pietà..
«Ma il momento fatale si avvicinava a gran passi. Nella camera del Santo Padre, misto alle devote aspirazioni, s’udiva il singhiozzare sommesso degli astanti, che faceva lugubre accompagno al respiro breve e morente del Pontefice Sommo.
«Alle 3 e mezza il cardinale Bilio incominciava a recitare i misteri dolorosi, cui affannosamente rispondevano i presenti. Ma nello incominciare del quarto mistero, quelli che più d’appresso circondavano il letto del Pontefice sorgono in piedi, il rantolo va cessando, l’ultima lagrima appare sul ciglio del Padre comune dei fedeli, le parole dell’assoluzione sono ripetute ad alta voce accompag nate dall’orologio che batte l’ora della salutazione angelica. A quel suono, quasi fosse l’invito di Colei che Pio IX proclamò Immacolata, dalle labbra del Pontefice esce coll’ultimo sospiro, la sua ani ma bella e immortale!.
«Quale supremo momento!
«Il cardinale penitenziere maggiore pronuncia con voce grave, velata dalla commozione, il Requiem aeternam dona ei, Domine; a queste parole nessuno più regge la piena dell’affanno, che trabocca dal cuore. Il pianto viene abbondantissimamente sugli occhi di tutti, e tutti, cardinali, prelati, guardie e famigliari, si precipitano, s’incalzano, per baciare ancora quella mano che li avea tante volte benedetti, quella mano che avea sparso dovunque la consolazione, che non s’era mai abbreviata nelle grandi come nelle umili cose».
Pio IX, che aveva voluto durante il suo lungo pontificato udir sempre applausi e gridi di ammirazione, sia eccitando il sentimento nazionale degli Italiani, sia atteggiandosi a vittima e martire di quel sentimento trionfante, suscitato soprattutto da lui, moriva in momento opportuno per il papato, prima cioè che nei cattolici illuminati venisse meno la credenza che il potere temporale fosse necessario al Papa per governare la chiesa, e prima che questa, par un improvvido governo, perdesse autorità sulle masse.
Quando Pio IX, volontariamente chiuso in Vaticano, scoccava tutti i suoi fulmini contro il nuovo Regno d’Italia, e combatteva una guerra continua contro lo spirito moderno, facevalo non con quella ponderatezza che rivela un piano prestabilito e una meta fissa, ma a scatti e obbedendo agli impulsi di una indole mobilissima e soggetta alle impressioni. Quando dava tanto incremento alla superstizione a danno della religione vera, e sminuiva il culto di Dio e di Gesù con l’adorazione di tanti simboli minori, non avea, nè poteva avere in mira il bene della Chiesa, ma solo prestavasi a contentare le domande di vescovi o di congregazioni per desiderio di popolarità e brama di far parlar di sè.
Variabile d’umore, impetuoso e irreflessivo, era stato fino dall’infanzia, a cagione del male epilettico che lo tormentava. Il mio nonno, Filippo Adimari-Morelli, che fu suo compagno di studi nel seminario di Volterra, mi narrava che i superiori lo avevano affidato alla sorveglianza di lui, suo maggiore di soli tre anni, poichè da solo non poteva guardarsi neppure in mezzo a tanti altri giovanetti retti dalla disciplina dell’istituto. Uscito di collegio era lo stesso, e se più tardi non avesse incontrato l’abate Graziosi, il padre Venturi, il canonico Storace, e Pio VII, che lo guidarono con amore e discernimento nella vita, non sarebbe certo pervenuto al pontificato. Si vuole che vedendo revocato, per la sua infermità, il breve che doveva permettergli l’adito nella carriera ecclesiastica, volesse gittarsi nel Tevere, e che un certo Cattabeni, suo amico, incontrandolo a Campo Vaccino, mentre si avviava verso il fiume, lo avesse distolto, con efficaci esortazioni, dal suicidio.
Data quindi la malattia, che non lo lasciò mai, Pio IX era, secondo la scienza moderna, un irresponsabile così nel bene come nel male, e i suoi biografi, invece di giudicarne gli atti alla stregua comune, non dovrebbero mai perder di vista la infermità che lo affliggeva.
Monsignor Liverani, nel suo celebre libro Il Papato, l’Impero e l’Italia, scritto dopo il 1860, libro che fu tacciato allora di libello, così ne traccia il ritratto:
«Non nepotismo, non ombra d’avarizia o sete di accumular tesori: conoscere e valutare l’oro e l’argento soltanto quanto giova a farlo correre in mano dei poveri o nel decoro del culto o del santuario; paziente ed infaticabile a dare ascolto o udienza; ma alla stess’ora brigarsi soverchio delle più minute notizie e di pettegolezzi volgari; estimare il valore degli uomini e delle cose più dagli aggiunti e dalle circostanze che dalla sostanza loro; essere accessibile a sinistre impressioni e prevenzioni maligne; tenace e subitaneo nelle risoluzioni e nelle avversioni; agevole di farsi rapir l’anima da improvvise simpatie e dal genio; incauto ad affacciare sul volto il godimento, la repugnanza e i più riposti sentimenti del cuore, che torna il medesimo dell’aver ceduto la chiave ai furbi e scaltri cortigiani che gli leggono l’anima sulla fronte. Quindi, innanzi a lui occhi imbambolati, bocche semiaperte, colli torti, muscoli in resta e in sospensione per correre con l’approvazione là ove la maestosa e augusta faccia di Pio fa cenno, per ripeterne con encomio i desiderii, quando pure importassero la sua rovina. Giudice veloce e spedito dell’altrui valore, piuttosto dal colore e dalle apparenze e dal portamento, dal viso sarcastico, dal capo caldo, dalla voce armoniosa, di quello che dalle doti dell’anima e dell’ingegno; restio a dar la sua grazia a chi non la sappia carpire, e però ombroso e sospettoso sempre verso gli onesti; sprovveduto e inerme con gli scaltri, virtuoso, ma di una virtù palese, fragorosa, sonora come la sua bella voce; tenero e spasimante di fare il bene, ma che mille gazzette ne portino attorno il grido per tutto il mondo e mille epigrafi e stemmi e medaglie lo ricordino eziandio ai più smemorati e spensierati. Mutabile nei giudizii e nei partiti a seconda della temperie meteorologica, del vario avvolgersi delle nubi, della guardatura del cielo e del balzar dei nervi e delle arterie e della condizione patologica di un corpo malato: il suo morale risente di tutte le impressioni di un fisico infermo».
Il Liverani aggiunge che una volta Pio IX bistrattò il cardinal Fieschi per non avergli bene assestato in dosso i sacri indumenti, che un’altra volta fece una scena violenta al conte Codronchi d’Imola per avergli presentato una supplica del marchese Bevilacqua, mentre in principio della udienza avevalo incoraggiato a dargliela dicendogli: «Sparate questa pistola».
Una persona tuttora vivente e che fu prima del 1870 impiegato nella biblioteca Vaticana, mi narrava in questi giorni che il cardinale Antonelli era turbato ogni volta che doveva andare dal Papa, e un giorno incontrandolo sulle scale gli disse: «Se sapeste come sono amare queste udienze!»
Un’altra volta quella stessa persona, di cui per suo volere non stampo il nome, fu chiamata da Pio IX per un parere circa una bella. E siccome l’interpretazione che il dotto impiegato le dava non era conforme ai desiderii del Papa, questi cambiò a un tratto aspetto e il suo volto, di consueto bonario, prese una espressione così felina e irritata, che il poveretto ne tremò tutto, sentendo specialmente il Pontefice ghignare.
Potrei citare molte e molte testimonianze di persone viventi rispetto alla falsa riputazione di bontà di Pio IX, ma mi limito a queste due:
Una volta andò a visitare le Carceri Nuove ove si custodivano soltanto i condannati per delitti comuni e capitò nella cella del ragioniere Ruiz, il quale scontava una pena per falso. Questi, vedendo il Papa, gli si gettò ai piedi implorando: «Santità, sono Ruiz, grazia, grazia!» Pio IX cambiò di faccia e mentre prima sorrideva bonariamente, saltò in furia e con la mano alzata in atto di minaccia ripeteva: «Ah! sei tu quel birbante? E osi chiedermi grazia? Sconta il tuo fallo, scontalo!» e uscì dalla cella con impeto. Il poveretto si accorò tanto di quella scenata, che ne mori di dolore.
Un’altra volta andò a vedere un paliotto d’altare in marmi diversi, che uno scultore lavorava per la chiesa del convento delle Sacramentate al Quirinale. Questo scultore aveva sposato la vedova di un noto liberale, che era zia dei due Lucatelli, condannati alla galera, e uno dei quali fu poi giustiziato per aver partecipato alla cospirazione romana del 15 agosto 1853. Il Papa lodò moltissimo l’opera dello scultore e gli fece molte domande sui luoghi da dove aveva tratti i marmi. L’artista, incoraggiato da tanta benevolenza, prima che uscisse gli s’inginocchiò chiedendo grazia per i due giovani condannati, ma il Papa s’era già alterato e inveì contro di lui e contro i due Lucatelli dicendo: «Ma che grazia! Mi hanno messo sottosopra Roma!»
Poco dopo anche lo scultore era rinchiuso in carcere.
I primordii della carriera ecclesiastica di Pio IX lo mostrano tal quale doveva essere sulla cattedra di San Pietro. Lo vediamo buono, amorevole, pronto al sacrifizio fino a dividere le celle e il vitto dei poveretti quando dirigeva il ricovero di Tata Giovanni, fanatico nei fervorini delle Missioni a Sinigaglia, allorchè scritturato da monsignor Odescalchi recitava la parte del neofito strappando lagrime ed applausi all’uditorio, e rigido e autoritario nella amministrazione dell’ospizio di San Michele, affidatagli da Leone XII. Come vescovo di Spoleto spiegò una grande carità facendosi piccolo con i piccoli, soccorrendo intere famiglie nei tugurii che visitava, consolando gl’infermi, mettendo pace fra i discordanti e ammonendo gli scorretti. Ma anche qui, venuta la rivoluzione, permise fosse istituita la guardia civica, poi fuggì a Leonessa, che faceva parte della sua diocesi, ed era situata nel territorio napolitano, e ritornò col ritorno degli Austriaci, accettando di far parte della commissione istituita dal generale Bernetti per giudicare i colpevoli. Fece insomma in piccolo come vescovo di Spoleto quello che ripetè diciassette anni dopo a Roma come Papa. Ma non è mia intenzione di tracciar qui la biografia del Pontefice e di esaminare l’opera sua. Molti lo hanno già fatto con intendimenti diversi e sempre con spirito partigiano, ora portandolo alle stelle, ora denigrandolo. Occorre che il tempo raffreddi gli entusiasmi e i rancori, perché la figura di Pio IX possa emergere dalla storia tale quale fu.
Accolgo qui soltanto alcune notizie sulle consuetudini del Papa, fornitemi da persona che gli visse accanto e che lo conosceva bene. Al documento non aggiungo nė tolgo neppure una virgola.
«Dei dugento sessantaquattro papi che lo hanno preceduto nei musaici della basilica ostiense, Pio IX fu l’unico nel voler conservare sulla sedia di San Pietro le abitudini del gentiluomo. Gentiluomo di provincia, se volete, ma tenace nel conservare il lusso e le agiatezze delle nostre case patrizie che aveva avuto agio di vedere ed intelligenza per apprezzare nella sua prima carriera ecclesiastica.
«In primo luogo volle le dimore pontificie tanto urbane che suburbane fossero ripulite e divise in maniera più igienica ed adatta alla necessità di una vita decente. Salvo le anticamere e la sala di udienza, che rispetto forse alla dignità di vicario di Cristo, lasciò vaste, nude e maestose, il suo appartamento privato era formato di ambienti mezzani ben dipinti, riccamente arredati e con oggetti di arte. Al Vaticano era aggiunta la sua biblioteca con libri ben legati; al Quirinale la sala del biliardo ed a Castelgandolfo pregevoli serie di piatti raffaelleschi. Una parte ne lasciò vendere Leone XIII che poscia, mi sembra, riscattasse dalle mani del duca della Verdura.
«I suoi antecessori della Genga, Castiglione e Cappellari vissero con vergognosa incuria. Leone XII, nell’ultimo anno della sua vita, volle che gli cambiassero il letto di legno nel letto di ferro che allora allora erano venuti in uso. Glielo fece il meccanico Pietro Rambelli; e, nel ritirare il letto del papa, lo trovò così pieno d’insetti da doverlo distruggere col fuoco. Il cardinale camerlengo Sisto Riario Sforza quando, accompagnato dai chierici della Camera apostolica e dai due segretarii cancellieri, si recò presso il letto di Gregorio XVI per estendere il rogito di decesso, ne ritrovo il cadavere in un sudiciume indescrivibile.
«Pio IX al contrario dispose che così al Quirinale che al Vaticano la sua stanza da letto fosse seguita da una stanza da toletta e da un’altra da bagno. A Castelgandolfo lasciò che la cappella succedesse immediatamente la stanza da letto perché colà si tratteneva pochi giorni; ad Anzio prendeva i bagni di mare in vasca mobile. Il suo letto, circondato da tende ricamate, che sostenevano quattro aste di ferro terminanti col suo stemma di metallo dorato, aveva due materassi, uno di piume e l’altro di crino. Le coperte e le lenzuola erano finissime. Voleva fornita di cosmetici, di rasoi e saponi inglesi e persino di graziosi vasi di porcellana d’Inghilterra. Le cattive lingue dicevano: il papa si trucca come una ballerina; ed in fondo non avevano torti. Secondo la figura che nel momento doveva rappresentare, ravvivava il vermiglio delle labbra o si toccava le guancie col belletto. Notate questo anche sulle monete. Dal primo giorno del papato sino alla tardissima età i capelli sulla fronte hanno continuamente presentata la stessa piega. Fu intollerante alla dentiera artificiale.
«La sua inclinazione alle belle cose gli fece talvolta commettere indiscretezze per non dir peggio. Il Benedetti spoletino si era invecchiato con esso seguendolo nell’officio di cameriere ad Imola ed a Roma. Nel mentre spazzolava certi deschi sui quali il papa teneva i gingilli che amava, gettò per terra una scatola di venturina, che si ruppe. Pio IX accorse ed il Benedetti, inginocchiato a raccoglierne i frammenti, gli diceva: È stata una disgrazia, padre santo. Ma costui, digrignando i denti, gli suono sulla cervice un potente pugno che lo fece stramazzare per terra. Il vecchio Benedetti si ritirò dal servizio; gli successe il figlio che ben presto morì logorato in ogni eccesso di bagordi in compagnia di un cappellaio che aveva bottega presso piazza Colonna. Era allora ispettore degli scavi un certo Giovan Battista Guidi, scavatore anch’esso per conto di terzi, e spietato distruttore di monumenti antichi. L’archeologo Canina lo denunziava come tale e come impiegato infedele: ma godeva la protezione di Pio IX, al quale regalava le più belle terre cotte delle quali spogliava i sepolcri etruschi, qualche collana o monile d’oro e specialmente gli scarabei così preziosi degl’ipogei di Tarquinio: Pio IX accoglieva tutto e non si curava di domandarne la provenienza. È ben vero che come accettava, per esempio, dieci capi, in breve tempo ne regalava otto. Così non è rimasta traccia delle tavolette di murrina e di alabastro gemmato che il barone Visconti commissario delle antichità trovò adoperate per concio in un muraccio della Salara medioevale negli scavi di Marmorata. È desiderabile che qualche saggio si sia salvato nella raccolta delle gemme del cardinale Antonelli, come sarebbe ancora desiderabile sapere dove questa raccolta sta nascosta.
«Amava del pari la nettezza e l’eleganza nel servizio della sua tavola ed i vescovi facevano a gara nell’inviargli i più fini tessuti, le più splendide stoviglie delle loro diocesi. Possedeva perfino un servizio simile a quello del sultano di Costantinopoli. I manichi dei coltelli erano d’avorio aggeminati d’oro. Il desinare era così composto quasi sempre: minestra di riso, fritto dorato, bue alla moda, arrosto con insalata, frutta e dolci. Il suo bollito si componeva di quattro libbre di scannello, di una gallina o di due pollastri, secondo la stagione. Il macellaio che gli forniva la carne fu un tale chiamato Pasticcio di Borgo. Apparteneva alla «Giovane Italia», ed in una delle tante cospirazioni tessute sotto Gregorio, gli venne riserbata la carica di governatore di Roma. Come accadeva sempre, la congiura si scoprì ed il povero governatore di Roma venne chiuso in castel Sant’Angelo donde lo liberò l’amnistia, se non erro.
«Ogni giorno la terrina del papa conteneva una libbra di riso. Pio IX ne riempiva una grande scodella: mangiava assai fritto bianco ed appena toccava gli altri cibi, salvo se l’arrosto era di capretto o di qualche altra carne tenera. Col procedere degli anni, i medici corressero questa propensione di Pio IX pel fritto. Primieramente, in luogo di schinali, fecero sostituire gli alicioni, come dicesi in pescheria; negli ultimi anni coglievano, alcuni minuti innanzi alla tavola, i germogli delle biete e li friggevano indorati coll’uovo. Salvo la minestra ed il fritto, Pio IX si poteva dire un uomo parco. Beveva quasi sempre vino della vigna dei Domenicani fuori di Porta Pia che largamente inacquava: alla fine del pranzo un bicchiere di mezzo Bordeaux e non altro. Anche la cena era frugale: ma tanto dopo la cena che dopo il pranzo incominciò, verso l’anno 1855, a prendere l’abitudine di fumare. Il Ferraioli faceva fare per esso sigari di foglia leggera e profumata».
Che la morte del Papa avvenisse quando il cuore del popolo era ancora angosciato dalla perdita del suo Re, fu un bene per Roma e per l’Italia. Gli animi colpiti dalla sventura sono propensi ai miti sentimenti e al perdono, e questo stato appunto degli animi della popolazione romana, permise che il più alto rispetto circondasse la bara del Pontefice, senza che neppure un atto meno che rispettoso, un grido inconsulto turbasse l’alta solennità delle esequie. Il contegno della popolazione aiutava mirabilmente l’opera del Governo, e specialmente quella di Francesco Crispi, che ne era il perno in quel momento.
Secondo quello che dice Raffaele de Cesare nel suo bellissimo libro Il Conclave, nel quale è posta specialmente in evidenza la parte che ebbe il Crispi negli affari di quei giorni, il Governo italiano non attese la morte di Pio IX per fare una circolare agli agenti accreditati presso i Governi stranieri, incaricandoli di assicurare che l’Italia avrebbe provveduto alla libertà materiale e morale del Governo provvisorio della Chiesa e del Conclave. E più tardi altra circolare confermava che il Governo si faceva garante dell’ordine completo. Cosi le potenze non avevano ragione d’invitare il Governo italiano al rispetto delle leggi sulle Guarentigie, e potevano, dopo queste ripetute dichiarazioni, affidarsi a lui completamente, tanto più che avevano una recente prova della sua forza nel modo ammirevole con cui erasi compiuto il passaggio del Regno, come avvenimento naturale.
Appena il Papa fu spirato il cardinal Camarlengo, che era l’Em. Pecci, procedè, assistito dal notaro apostolico, al riconoscimento del cadavere, sollevando il bianco lino con cui erane stato coperto il volto, e prese in consegna l’anello Pescatorio. Quindi assunto il governo temporaneo della Chiesa, fece, dai cardinali presenti in Vaticano, nominare un aiuto al cardinal Decano, Amat, che era infermo, nella persona del cardinal di Pietro, uomo colto, mite e notissimo per prodigalità e per la mania di posseder ville nei dintorni di Roma, e ordinò al cardinal Vicario di notificare alla città di Roma l’avvenuta morte, disponendo che i funerali fossero celebrati nella Basilica Vaticana, appena vi fosse trasportata la salma del Pontefice, e in tutte le chiese della città, ordinando che nella messa e nelle funzioni fosse aggiunta la colletta Pro Pontifice eligendo finchè durava la vacanza della Sede apostolica.
Sempre per ordine del Camarlengo si chiusero tutti gli accessi del Vaticano meno quello dalla porta di bronzo, e in quei primi tempi di Sede vacante si vedeva il cardinal Pecci camminare per il palazzo con un gran mazzo di chiavi in mano, sorvegliando l’esecuzione degli ordini dati.
La salma di Pio IX fu imbalsamata la sera del 9 sotto la direzione del professor Ceccarelli, e precisamente dai professori Petacci e Topai, in presenza dei dottori Antonini, Battistini, Trini, Sciarra, Melata e Capparoni. La farmacia Langeli fornì i medicinali e si praticò il sistema misto. Il precordio fu rinchiuso in un vaso di cristallo. Quelli dei precedenti Pontefici erano conservati nella chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio; quello di Pio IX, rimase nelle grotte Vaticane. La salma venne dopo esposta in una sala vaticana e furono ammesse moltissime persone a visitarla.
Alle 4 pom. del 10, fu interdetto l’ingresso alla sala ove era stato deposto il corpo del Pontefice, e si dette mano a rivestirlo degli abiti pontificali e ad adagiarlo sul letto sopra il quale doveva essere trasportato nella cappella del Sacramento, nella Basilica Vaticana.
Alle 5 il Pontefice era vestito completamente; aveva la mitria d’oro; le mani incrociate sul petto, sul quale posava l’immagine del Crocifisso.
Alle 6.30 i sediari sollevarono il funebre letto ed il corteo si mise in moto. Venivano prima, fra due file di guardie svizzere, i palafrenieri e poi il clero con torcie, i mazzieri e un distaccamento della Guardia Svizzera.
Subito dopo, il letto funebre circondato dalle Guardie Nobili e dai Penitenzieri della Basilica Vaticana, anch’essi con ceri.
Seguivano il feretro monsignor Ricci, maggiordomo, monsignor Macchi, maestro di camera, monsignor Samminiatelli, elemosiniere segreto, monsignor Vannutelli, sostituto di segreteria di Stato e i monsignori Negrotto, Casali del Drago, Di Bisogno e della Volpe, tutti camerieri segreti partecipanti. Inoltre il marchese Sacchetti, il marchese Serlupi, e il comm. Filippani, il duca di Castelvecchio, il principe Altieri e tutti gli ufficiali delle guardie nobili.
Venivano dopo i Cardinali, in grandissimo numero, con le torcie accese e salmeggiando, seguiti dal principe Orsini, assistente al soglio, dal maresciallo del conclave don Mario Chigi, dal principe Ruspoli, maestro del sacro Ospizio e da moltissimi altri membri dell’alta aristocrazia.
Il corteo era chiuso dai camerieri segreti di Sua Santità, e da un distaccamento della Guardia Palatina.
Alle 7 in punto la salma fece il suo ingresso nella Cappella del Sacramento, ricevuta dal Capitolo della Basilica. Posto a terra il feretro, i Cardinali l’attorniarono, e i cantori della Cappeila Giulia intonarono le preci d’uso; dopo le quali monsignor Folicaldi, canonico del Capitolo, dette l’assoluzione al cadavere.
Compiuta la mesta cerimonia tutti gli astanti si ritirarono e la salma rimase in custodia delle Guardie Nobili che hanno il diritto e il dovere di vegliarla fino al momento della tumulazione.
Roma aveva preso il lutto anche per la morte del Papa e appena la notizia se ne sparse in città tutte le botteghe si chiusero, e se non si chiusero i teatri fu perchè non si seppe in tempo per impedire le rappresentazioni.
Il popolo si recò numerosissimo a visitar la salma in San Pietro, ove rimase esposta tre giorni. L’ingresso era regolato dalle guardie municipali e dai carabinieri. Si entrava dalla porta laterale sinistra, tutta spalancata, e si usciva da quella di destra. Anche dentro la chiesa vi erano cordoni di guardie per regolare la folla, fino al cancello della Cappella del Sacramento. Qui i sampietrini davano accesso ai devoti per il bacio del piede.
La salma di Pio IX era deposta su un letto parato di rosso e rivestita della tonacella, la dalmatica e la pianeta rossa; alle mani, che teneva giunte sul petto, aveva guanti ricamati d’oro, e sul capo la mitria d’oro. Ai lati del letto pendevano i due cappelli rossi, che nelle funzioni solenni portano i camerieri segreti.
Agli angoli del letto vi erano quattro Guardie Nobili in piccola tenuta colla sciabola in mano e la bandoliera velata. I piedi del Papa erano coperti di scarpe nuove di velluto rosso e posti in guisa che il pubblico potesse baciarli comodamente. I più baciavano quello destro.
Pio pareva che dormisse; sul suo volto calmo non si scorgeva nessuna contrazione, nessun segno di perturbamento. Della morte non aveva altro che un leggero pallore, che rendeva la sua fisonomia più bella.
La porta in fondo alla cappella, resa preziosa dal sarcofago bronzeo del Pallaiolo, su cui è distesa la imponente figura di Sisto IV, era vegliata da una sentinella svizzera e da un milite della Guardia Palatina.
Verso le dieci del primo giorno, i carabinieri, le guardie municipali erano impotenti a trattenere la folla, e si chiese l’aiuto di una compagnia di linea. Il giorno dopo, un battaglione del 56° di fanteria, regolava meglio il passaggio della folla e ai devoti non era più permesso il bacio del piede. Il terzo giorno maggiore fu il numero dei visitatori, ma maggiore anche il numero dei soldati, così che tutto potè procedere col massimo ordine.
Il giorno 14 alle 6 e mezzo di sera, usciva dalla sacristia di San Pietro il Capitolo processionalmente, scortato dagli svizzeri con le alabarde, e si avviava in mezzo al silenzio imperante nel tempio grandioso, alla Cappella del Sacramento, per prendere la salma del Pontefice.
I cancelli della Cappella erano spalancati e il corpo era stato tirato indietro per modo da occuparne il centro; tutte le Guardie Nobili con i loro esenti, tutte le Guardie Svizzere con i loro ufficiali e i graduati della Guardia Palatina circondavano il feretro.
Il Sacro Collegio dei Cardinali in cappa violacea orlata di rosso, con la berretta e lo zucchetto in parte attendeva nella Cappella del Sacramento e in parte in quella del Coro.
Entrato il Capitolo Vaticano nella cappella funebre e dispostosi intorno alla salma del Pontefice, monsignor Folicaldi vestito del pluviale nero a ricami d’oro, dette il segnale della partenza e l’imponente processione s’incamminò a traverso la navata maggiore della Basilica descrivendo un mezzo cerchio sin quasi all’altare della Confessione.
Il vasto tempio era illuminato da poche torcie disposte sotto le arcate delle navi minori; sei soli ceri ardevano sull’altare papale; l’effetto era solenne e imponente. Gl’invitati che ammontavano a più di duemila, si accalcavano sulla via tenuta dal corteggio; non una guardia, nessun cordone di soldati; i soli svizzeri che scortavano la processione.
Precedeva il Sacro Collegio; solo in mezzo, il cardinal di Pietro, pro-decano, poi i cardinali dell’ordine dei vescovi, quindi il Camarlengo Pecci e i cardinali dell’ordine dei preti e infine quelli dell’ordine dei diaconi. Gli occhi della folla si posavano a preferenza sui cardinali Bilio, de Luca e di Pietro, che erano considerati papabili, e sul cardinale Hohenlohe, che si voleva fosse il candidato del potente impero tedesco. Il Cardinale rifiutato come ambasciatore, non era stato più a Roma stabilmente dopo il 1870, e abitava per solito la villa d’Este a Tivoli.
Seguiva la Croce, il Seminario e il Capitolo di S. Pietro, recando torcie accese, e finalmente il celebrante, che precedeva la salma del Pontefice. Questa giaceva sullo stesso letto su cui era stata esposta al pubblico, ed era portata a spalla dai sediari e dai palafrenieri pontificii e da alcuni esenti della Guardia Nobile. Intorno quattro soli ceri portati da quattro canonici di S. Pietro; dietro i dignitari della Corte, i principi assistenti al Soglio, Orsini e Colonna, il marchese Urbano Sacchetti, furiere maggiore, il marchese Serlupi, cavallerizzo maggiore. I professori Ceccarelli e Antonini, il primo chirurgo, e il secondo medico del Papa, camminavano intorno al feretro. Intanto i cantori della Cappella Giulia cantavano le meste note del Miserere.
Quando il corpo del Papa giunse dinanzi al cancello della cappella Clementina, il corteggio si fermò un istante, e il feretro fu voltato per farlo entrare con la testa verso l’altare.
Deposto il feretro nel mezzo fra dodici ceri, il Sacro Collegio e tutto il Clero e la Corte presero posto negli stalli canonicali, mentre il corpo diplomatico si riuniva nella tribuna a destra dell’altare, dirimpetto alla loggia dei cantori.
Dopo alcune preci fu cantato il Quemadmodum desiderat cervus, al quale tenevano dietro altre preci e la lettura di un’elegia latina pel defunto Pontefice, che fu posta nella cassa funebre.
Intanto dinanzi all’altare si erano recate le tre casse; il corpo, vestito pontificalmente così com’era, fu tolto con la coltre rossa dal letto e deposto entro la prima cassa di cipresso tappezzata di drappo cremisi. Il volto di Pio IX fu coperto da un bianco lino e ai piedi vennero deposte due borse rosse, contenenti le 96 fra monete e medaglie coniate sotto il suo pontificato. Questa cassa fu collocata entro una seconda di zinco, che fu saldata e sigillata in presenza di tutti, poi racchiusa in una terza di pino di color rossastro.
Alcuni confratelli della Compagnia del SS. Sacramento, che ha questo antico diritto, presero allora la cassa mortuaria e la deposero sopra un piccolo carro con ruote, che fu coperto con la coltre di velluto nero con gli stemmi della Camera apostolica, padiglione e chiavi in campo rosso, ai quattro angoli.
La processione si mosse, e i cardinali si collocarono in mezzo alle guardie svizzere fuori della cappella e proprio davanti al monumento di papa Cybo, dinanzi al quale, sopra la cantoria, dovea farsi la tumulazione. I cantori intonarono il Benedictus, il celebrante, dopo un’ultima prece dinanzi alla cassa, uscì dal Coro e si pose di fronte al sarcofago.
Il carro allora si mosse, tirato da confratelli vestiti di scarlatto, e spinse la pesante cassa dinanzi alla cantoria. Fin dalla mattina l’avello che per tanti anni aveva custodito le ceneri di Gregorio XVI era stato scoperto, i sampietrini vi avevano adattato sopra un’armatura per sollevare il feretro. Giunto questo dinanzi all’avello, il Sacro Collegio si ritiro, lasciando il corpo del Pontefice in custodia al Capitolo Vaticano. La cassa, legata con più corde, fu sollevata per mezzo di un argano, il cui cigolio faceva una impressione sinistra in mezzo al silenzio della Basilica. La cassa saliva, saliva lentamente, e alle 8 e 40 minuti giunse al piano dell’avello, entro il quale i sampietrini la murarono.
Oltre al corpo diplomatico assistettero alla tumulazione del Papa i Borghese, gli Aldobrandini, i Bandini, i Ricci, i Patrizi, i Piombino, i Colonna, i Caetani, i Cavalletti, i Fiano, i Gallese e i Torlonia. Anzi l’ultimo che baciò il piede di Pio IX fu appunto il principe Torlonia. Vi erano pure donna Laura Minghetti e l’ambasciatore d’Inghilterra presso il Quirinale. La famiglia Mastai assisteva da un coretto a tutta la cerimonia.
La sepoltura del Papa era soltanto provvisoria. In quell’avello sotto la cantoria deve esser sepolta la salma di ogni pontefice e rimanervi un anno, se prima di quel tempo non muore il suo successore. Pio IX aveva stabilito che il suo corpo dovesse riposare in un modestissimo tumulo nella basilica di San Lorenzo extra-muros, e che per quello non si dovesse spendere più di 400 scudi, cioé 2000 lire.
Il Pontefice era appena spirato e ancora si facevano i funerali per Vittorio Emanuele.
Il giorno 9 febbraio se ne celebrava uno a cura della famiglia reale nella chiesa del Sudario, al quale assistevano i Sovrani e il duca d’Aosta, il principe di Portogallo, e tutti i dignitari di Corte e i cavalieri dell’Annunziata. Un altro ve ne fu al Pantheon, solennissimo, il giorno 16. Il tempio cra stato addobbato con grandissima spesa, ma l’effetto che produsse fu tutt’altro che bello. Si ammirò peraltro la musica, e specialmente il Requiem e il Dies irae di Cherubini, e il Libera me Domine del Terziani.
Ma ritorniamo al Vaticano sul quale era in quel volger di tempo concentrata l’attenzione di Roma e del mondo intero.
Il sacro collegio dei cardinali, alla morte di Pio IX si componeva di 64. I cappelli essendo 70, ne erano vacanti sei. Si vuole che il Papa defunto si fosse proposto, in un prossimo concistoro, di conferirne quattro. La composizione del collegio era tale quale non si era vista da molti secoli. Avanti tutto è da riflettere che non vi erano che quattro cardinali viventi, creati da Gregorio XVI, cioè: Amat, Carafa, Schwarzemberg ed Asquini; gli altri 58 erano tutte creature di Pio IX, il quale ha sepolto 120 cardinali! Nel collegio prevaleva, è vero, l’elemento italiano, ma il numero dei cardinali stranieri superava il terzo della totalità, quando prima appena toccava il quinto. Infatti gli stranieri erano 25 così divisi per nazione e Stati: 8 francesi, 2 tedeschi, 5 austriaci, 4 spagnuoli, 3 inglesi, uno portoghese, il patriarca di Lisbona, uno americano, uno belga. Ed il loro numero era tale che se essi soli non potevano creare il Papa, potevano bensì impedire che gli altri lo facessero, essendo necessari all’elezione due terzi dei votanti.
Nell’elemento italiano era scarso il numero di coloro che appartenevano a grandi famiglie storiche. Era quasi un privilegio delle nobilissime famiglie italiane di avere un rappresentante nel S. Collegio, e le grandi case patrizie di Roma disponevano quasi del Papato. Alla morte di Pio IX non vi era un cardinale di famiglia patrizia, nè veneto, nė ligure; un solo nobile lombardo, il Borromeo, nessuno di Toscana, quattro soli romani: Bonaparte, Chigi, Antici e Di Pietro (famiglie moderne), uno di Napoli: Carafa, e nessuno di Sicilia. I Frangipane, i Savelli, i Conti erano spenti; i Colonna, gli Orsini, i Gaetani non avevano alcun rappresentante nel collegio, e non l’aveva neppure la nuova aristocrazia papale dei Borghese, Boncompagni, Rospigliosi, Altieri, Aldobrandini, Barberini, Doria Pamphili, ecc., perfino i banchieri, divenuti principi, come Torlonia e Grazioli, avevano sdegnato di mettere il collare di prete ad uno della famiglia. Tanto era decaduta la prelatura, che non si reclutava più tra baroni e marchesi, ma tra i clienti ed i domestici delle famiglie patrizie.
Le università erano disertate dai chierici, e l’accademia dei nobili ecclesiastici era popolata da figli di droghieri, o di agricoltori. Questo fatto notevole, che si verificava da oltre mezzo secolo, aveva alterato l’indole del collegio dei cardinali, e l’antico grido della plebe di Roma: volemo er Papa romano, sarebbe stato assurdo. Infatti bisognava risalire fino a Benedetto XIII, Orsini, per ritrovare un Papa romano, ossia retrocedere di un secolo e mezzo.
E da questo fatto, che ogni giorno più chiaramente si verificava, conseguiva che la elevazione dei natali, la finezza della educazione, il tatto sociale, la politica pratica, non erano più le doti principali o le più diffuse del collegio dei cardinali, e la tradizione romana dell’arte di Governo andava ogni di più estinguendosi. Il Baretti scriveva più di un secolo fa che i nobili romani ed i prelati erano gente di mezzana coltura, ma che l’ultimo fra essi conosceva a meraviglia l’arte di governare e la scienza politica.
E la inferiorità dei cardinali italiani era tanto più spiccata, quando si raffronti colla scienza e la elevata coltura di parecchi cardinali stranieri, taluni appartenenti a nobilissime famiglie, ma tutti, o quasi tutti, letterati, e teologi di grido.
Nondimeno non era da temersi la elezione di un cardinale straniero al papato; l’antica consuetudine, la preponderanza dell’elemento italiano, allontanava il pericolo di veder sedere sulla cattedra santa un papa straniero, di cui l’ultimo esempio fu il fiammingo Adriano VI, eletto per volere di Carlo V.
Riguardo ai partiti in cui si divideva il S. Collegio è da ricordare che v’era la parte spagnuola, la parte imperiale e la parte francese; nel 1878 tale divisione non era più possibile non avendo le corone (la Francia non aveva corona) quella influenza che prima esercitavano sul S. Collegio per l’antica tradizione e per l’importanza di ciascuna corte. Come divisione generica, i cardinali si distinguevano in zelanti e politici. I primi erano i rigidi sostenitori delle idee teologiche e delle pretese ecclesiastiche, e volevano conservare la supremazia della chiesa facendo guerra alle esigenze dei tempi, della politica e delle corti; i secondi erano temporeggiatori e moderati che si acconciavano alle circostanze e volevano vivere in pace colle corti, coi principi e colle repubbliche. Anche nel 1878 tale nomenclatura era possibile, avvertendo soltanto che per zelanti s’intendevano i fautori del sillabo, della infallibilità pontificia e del potere temporale, mentre la fazione politica era quella che voleva la pace della chiesa, conciliando i diritti della religione con quelli dello Stato, e senza transigere intorno ai dogmi ed alla disciplina, teneva conto delle esigenze dei tempi e della società civile moderna.
Parlare di partito liberale nel collegio cardinalizio sarebbe stato farsi una singolare illusione. Pio IX aveva in animo di nominare cardinale nel 1848 il Rosmini, ma dopo la fuga a Gaeta se lo cacciò dal petto ove l’aveva riserbato; e non solo non nominò cardinale nessuno di quei prelati che si erano chiariti liberali, ma fece stentare il cappello a Pentini e Mertel unicamente perché avevano fatto parte dell’alto consiglio (senato) da lui stesso creato. Inoltre la porpora fu negata agli uomini di scienza e di elevato carattere, e quindi non l’ebbero Gioberti, Theiner, Sibour e Ventura, come non l’ebbero l’Audisio ed il Dupanloup.
In questo Pio IX era dissimile a Gregorio XVI, che non temeva la scienza e creò cardinali Mezzofanti, Mai, Pecci di Gubbio ed altri senza tener conto che della loro dottrina ed onestà.
Quelli che potevano avere una tinta liberale, o quanto meno vedevano senza paura o con qualche affetto il meraviglioso risorgimento d’Italia erano morti: due naturalmente, cioè il Grassellini e il De Silvestri; due di crepacuore per i duri trattamenti avuti dalla corte e dal Papa stesso, IL PONTE GARIBALDI Santucci e D’Andrea; ne rimanevano due o tre della stessa scuola, ma poco influenti e tenuti in grande sospetto dalla corte pontificia.
Ecco lo specchio dei cardinali divisi per nazionalità:
Gli Italiani.
1) Luigi Amat, nato a Cagliari il 21 giugno 1796, vescovo di Porto, era uno dei quattro cardinali ancora viventi che aveva creati Gregorio XVI e, come suddito del Re Vittorio Emanuele, era devoto alla casa di Savoia.
2) Fabio Asquini, nato a Udine il 14 agosto 1802, segretario dei Brevi, era anche lui uno dei quattro cardinali di Gregorio XVI. Egli era un timido scrupoloso e attaccato al passato e intimamente legato col cardinale Caterini, uomo di principii estremamente retrogradi.
3) L’eminentissimo Caraffa di Traetto, nato a Napoli il 12 giugno 1805, arcivescovo di Benevento era un uomo di opinione temperatissima, generoso, caritatevole e rifuggente ogni intrigo di curia.
4) Carlo Luigi Morichini, nato a Roma il 21 novembre 1805, vescovo d’Ostia e di Velletri, era un uomo integro, sagace economista, statista, e, come ministro delle finanze nell’epoca liberale, svelò per il primo tutti gli abusi, tutti i difetti dell’antica amministrazione.
5) Giovacchino Pecci, nato a Carpineto il 2 marzo 1810, camarlengo di S. Chiesa, vescovo di Perugia, era un cardinale di opinioni temperate, sagace, prudente, colto e intelligente.
6) Filippo Guidi, nato a Bologna il 18 luglio 1813, era dell’ordine dei vescovi suburbicari e vescovo di Frascati. Teologo illuminato, seguace di S. Tommaso d’Aquino, combattè nel Concilio Vaticano i nuovi dogmi, fra i quali specialmente quello dell’infallibilità del Papa.
7) Luigi Bilio, nato in Alessandria il 25 marzo 1826, vescovo di Sabina. Egli era uno dei più giovani e retrogradi cardinali del S. Collegio, e, come consultore della congregazione dell’Indice, fu uno dei compilatori del « Sillabo »), opera meschina di meschino ingegno, che però gli valse la porpora.
8) Anton Maria Panebianco, nato a Terranova il 14 agosto 1808, era un uomo duro, teologo mediovale che impauriva la gente con le pene dell’inferno, incapace com’era di comprendere le gioie del paradiso e se fosse divenuto Papa, come i papi del Medio Evo, avrebbe tenuti sempre pronti il capestro e la bolla di scomunica.
9) Antonio De Luca, nato a Bronte nel 1805, prefetto della congregazione dell’Indice, era abile diplomatico, calmo, temperato e uomo che rispettava le opinioni altrui.
10) Teodolfo Mertel, di Allumiere, cardinale diacono, fece parte 1848 dell’Alto Consiglio ove si mostró uomo del tempo, fu ministro dell’interno dopo la restaurazione. Egli riconosceva le necessità dei tempi, comprendeva che il potere temporale era morto, ed era uno dei cardinali disposti alla riconciliazione dello Stato colla Chiesa.
11) Giuseppe Berardi, nato a Ceccano il 20 settembre 1810 da umile famiglia, con l’appoggio del cardinale Antonelli, giunse presto a un’alta posizione e riusci a rendere ricchissima la sua famiglia. Cardinale senza opinioni spiccate, era disposto a tutte le transazioni.
12) Tommaso Martinelli, nato a Lucca il 3 febbraio 1827, monaco agostiniano, fu, giovane ancora, creato cardinale quando meno se l’aspettava. Consultore dell’Indice poteva forse esser annoverato fra i più intransigenti.
13) Giovanni Simeoni, nato il 27 dicembre 1816, segretario di Stato, ebbe nascita da umilissima famiglia vassalla dei Colonna a Paliano, visse oscuro e nessuno avrebbe creduto ch’egli potesse se essere il successore del cardinale Antonelli. Semplice di modi e di vita, non aveva opinioni spiccate.
14) Raffaele Monaco La Valletta, nato a Chieti il 23 febbraio 1827, abate di Subiaco, Vicario di S. Santità, era un cardinale colto, ambizioso e grande amico del Bilio e delle sue idee.
15) Alessandro Franchi, nato a Roma il 25 agosto 1829, prefetto di Propaganda fide, era uno dei più fortunati e destri curiali della corte romana.
16) Prospero Caterini, nacque a Orano il 15 ottobre 1795, segretario di S. Romana Inquisizione, era uno fra i più autorevoli intransigenti.
17) Camillo Di Pietro, nato a Roma il 10 gennaio 1806, vescovo di Albano, cardinale dell’ordine dei Suburbicari, aveva molta cultura; perfetto gentiluomo e molto popolare spendeva senza misura e parlava con effusione; godeva poche simpatie in Vaticano per le sue idee più che conciliative.
18) Lorenzo Nina, romano; se fosse diventato Papa non avrebbe certo riaccesi i roghi di S. Romana e Universale Inquisizione, benchè ne fosse stato per molto tempo assessore, carica che esercitò con molta moderazione, poichè lasciava fare e lasciava passare.
19) Edoardo Borromeo, di Milano, nato il 3 agosto del 1822, prefetto della Fabbrica di S. Pietro, molto lontano dalla santità di S. Carlo e del cardinal Federico quanto era vicino alla leggerezza della corte pontificia. Era arrabbiato intransigente.
20) Luigi Oreglia di Santo Stefano, nato a Benevagenna nel luglio 1828, suddito di Vittorio Emanuele, era uomo di poco ingegno e non spiegò mai un carattere fermo.
21) Bartolomeo Pacca, nato a Benevento il 25 febbraio 1817, era giovane elegante, simpatico, perfetto gentiluomo, giuocava con disinvoltura come faceva la corte alle signore, e non aveva nė rancori politici ne idee politiche.
22) Domenico Consolini, prefetto dell’economia di Propaganda Fide, nacque a Sinigaglia nel 1807 da nobile e ricca famiglia e visse ritirato; non era punto intrigante, ed aveva idee conciliative.
23) Flavio Chigi, gran priore dell’ordine Gerosolimitano, nacque da principesca famiglia romana il 31 maggio 1810 ed era uomo di mondo e politico, piuttosto che uomo di Chiesa.
24) Luciano Bonaparte, nato a Roma il 15 novembre 1828, fu caldo liberale nel 1848 e 49 tanto da vestire l’abito di velluto nero colle piume all’Ernani sul cappello, e grande amico del repubblicano Gustavo Spada; divenne poi bigotto e scrupoloso, e ogni decisione dipese sempre dallo stato dei suoi nervi.
25) Ruggero Antici-mattei, patriarca latino di Costantinopoli, ove non andò mai, nacque a Recanati il 23 marzo 1811. Uomo mediocre, non esercitò nessuna influenza.
26) Antonio Antonucci, di Subiaco, vescovo d’Ancona, era un uomo semplice senza ambizione e che ebbe una speciale affezione per il re Carlo Alberto, che conobbe a Torino ove fu nunzio per più anni.
27) Domenico bartolini, romano, ebbe oscurissima nascita, ma con lo studio e a forza d’intrighi ottenne la porpora. Ambizioso era per conseguenza intransigente con la speranza d’ottener il triregno e far vedere da vero parvenu, d’esser nato cardinale.
28) Carlo Sacconi, vescovo Suburbicario, nacque in Montalto il 3 maggio 1808. Visse troppo a lungo nel mondo libero francese per poter essere intransigente.
29) Innocenzo Ferrieri, nato a Fano, nel settembre 1810, era uomo di poco ingegno e di scarsa dottrina, e non aveva idee precise: si schierò sempre fra i più per evitare una sconfitta.
30) Pietro Giannelli, nato a Terni l’11 agosto 1807, uomo di sottile e coltivato ingegno, comprese che le esagerazioni eran frutti fuori di stagione e fu moderato.
31) Lorenzo Randi, ultimo governatore di Roma, nacque a Bagnocavallo nel giugno 1818, e si distinse sempre per la sottomissione agli stranieri e per l’accanita persecuzione contro i liberali delle provincie, nelle quali fu delegato apostolico.
32) Bartolomeo d’Avanzo, vescovo di Calvi e Teano, nacque in Avella il 3 luglio 1811. Dovette la porpora all’accanimento col quale difese nel Concilio Vaticano il dogma dell’infallibilità ed era intransigente sviscerato.
33) L’eminentissimo Enea Sbarretti, auditore di Rota, era nativo di Spoleto, e fu un distinto giureconsulto d’idee molto moderate.
34) Luigi Serafini, vescovo di Viterbo, dove visse modestamente, nacque a Mogliano da umilissima famiglia, e come Sbarretti, del quale era buon amico, era uomo dotto e transigente.
35) Francesco Saverio Apuzzo, arcivescovo di Capua, nacque a Napoli il 9 aprile 1807 ed ottenne il cappello cardinalizio in seguito al Concilio Vaticano, ove moderatamente si oppose alle pretese papali ed era uomo d’idee molto incerte.
36) L’eminentissimo Lucido Parrocchi, arcivescovo di Bologna, nato a Mantova il 13 agosto 1833, era il più giovane membro del Sacro Collegio. Era uomo intransigente, accanito nemico del regno d’Italia, francofilo arrabbiato e reazionario feroce. E, caso strano ed unico, il Governo italiano, negò l’exequatur alle Bolle che facevano il Parrocchi successore di S. Petronio.
37) Luigi di Canossa, nato a Verona il 21 aprile 1800, fu vescovo della sua patria per 16 anni, molto simile al Parrocchi era come lui intransigente arrabbiato.
38) Antonio Pellegrini, fu uno dei cardinali creati nel concistoro del 28 dicembre 1877. Visse tranquillamente, oscuramente e si crede fosse intransigente.
39) Giovanni Moretti, arcivescovo di Ravenna, nacque a Ponzano nel 1817, si dice che fosse battagliero e irrequieto ma è certo che seppe barcamenarsi.
I Francesi.
40) Franco Augusto Donnet, arcivescovo di Bordeaux, nacque a Bourg-Argental il 16 novembre 1806, ed era gallicano moderato.
41) Giuseppe Ippolito Guilbert, arcivescovo di Parigi, nato a Aix il 13 dicembre 1802, ebbe la porpora in premio della parte da zelante infallibilista che sostenne nel Concilio Vaticano.
42) Giovan Battista Pitra, già monaco benedettino, nacque a Champforgeuil il 31 agosto 1812, era dotto orientalista, bibliotecario di S. R. Chiesa, e d’opinioni intransigenti.
43) Enrico de Bonnechose, arcivescovo di Rouen, nacque a Parigi il 30 maggio 1800, fu oratore della Santa Sede nel Senato imperiale e si dimostrò sempre buon gallicano.
44) Renato Regnier, arcivescovo di Cambray, nato a S. Quintino il 1° giugno 1807, passò per orleanista e clericale costituzionale, ma è più facile che appartenesse alla schiera di coloro che tentavano di riappuntellare il trono pontificio.
43) Goffredo Brossais-Saint-Marc, nacque nel 1803 a Rennes, della quale città fu arcivescovo, e ebbe la porpora per essersi facilmente piegato alle pretese pontificie del dogma dell’Infallibilità.
46) Ludovico Caverot, arcivescovo di Lione, nato a Joinville il 26 maggio 1806; era uomo d’idee temperate, e, come primate delle Gallie, era aperto gallicano e nemico delle esagerazioni della Curia romana.
47) Federico de Falloux de Coudray, non si distinse in tutta la sua vita che per la ridicola galanteria, che lo fece il più azzimato prelato di Roma. Benché reggente della Cancelleria apostolica, si occupava più di cosmetici che di ogni altra cosa, e la sua creazione a cardinale fu uno scandalo, e sanguinose satire furono scritte contro lui.
Gli Spagnoli.
48) Giovanni Moreno, arcivescovo di Toledo, nato a Guatemala nel 1817, era uomo d’idee moderate.
49) Francesco di Paolo Benavides y Navarrete, patriarca delle Indie Occidentali, nacque a Balza il 14 maggio 1810, e somigliava molto al Moreno, del quale divise le idee.
50) Emanuel Gil Garcia, domenicano, arcivescovo di Saragozza, nacque nel 1802 e non era certo un successore di Torquemada, anzi moderato e giusto.
51) Michele Parga Y Rico, arcivescovo di Campostella non era dissimile né dal Moreno nè dagli altri, benchè non esponesse mai chiaramente le sue idee.
Il Portoghese.
52) Ignazio Cardoso do Nascimiento, patriarca di Lisbona, nacque a Murcia il 20 dicembre 1801, era devotissimo al suo sovrano e al Re Vittorio Emanuele e si adoprò per riconciliare il Re d’Italia e il Pontefice.
Il Belga.
53) Vittorio de Champs, arcivescovo di Malines, nacque a Mella il dicembre 1810 era un intransigente accanito, ambizioso ed irrequieto.
Gli Inglesi.
34) Eduardo Howard, discendente dei Nortkfoll, nacque a Nottingham il 13 maggio 1829 e frequentò la Corte della Regina ove fu ammirato per la sua leggiadria finchè non abbracciò lo stato ecclesiastico. Moderato come ogni buon inglese cercò sempre di esser conciliativo.
55) Eduardo Enrico Manning, arcivescovo di Westmister, nacque a Totterdige il 15 luglio 1808 da famiglia protestante. Abiurò il protestantesimo e si dimostrò fedele e intransigente cattolico nella discussione del dogma dell’infallibilità, e fautore del potere temporale, benchè qualche volta dimostrasse la necessità di adattarsi ai tempi.
56) Paolo CULLEN, arcivescovo di Dublino, nato in questa città nel 1803, ebbe convinzioni più profonde del Manning, ma senza pretensioni në ambizioni; fu intransigente cattolico.
L’Americano.
57) Giovanni Mac-Coskey, arcivescovo di New-York, nacque a Brooklin il 20 marzo 1801, fu alunno di Propaganda Fide, e primo cardinale americano, e come americano era tollerato e tollerante.
I Tedeschi.
58) L’eminentissimo Mieceslao Ledochowsky, arcivescovo di Posen, era un cattivo suddito tedesco, e intransigente come tutti i polacchi cattolici, e come alunno del de Merode, che gli fece dare la porpora in compenso d’una condanna e della sua fuga da Posen, ove aveva sollevato un fiero conflitto.
59) Gustavo Adolfo principe di Hohenlohe, nacque a Rethembourg il 26 febbraio 1823. Ebbe la porpora per vive istanze del Re di Baviera, ma fu sempre fiero oppositore degli intrighi e delle debolezze della Curia, lontano dalla quale visse molti anni, e nella quale fu riguardato come il rappresentante del vittorioso Guglielmo I.
Gli Austriaci.
60) Giovan Battista Franzelin, della compagnia di Gesù, nacque in Altino il 15 aprile 1816 e non era, come i suoi correligionari, nè intrigante, nè servile.
61) Giovan Battista Simor, arcivescovo di Strigonia, nato a Alba Reale nel 1813; e come primate d’Ungheria, appartenne a quella Chiesa che nei Sinodi nazionali ammette l’elemento laico ed era perciò d’idee molto moderate.
62) Giovan Battista Kutschker, arcivescovo di Vienna, nacque a Wiese nell’aprile 1810. Era devoto all’imperatore e geloso custode delle prerogative della Corona e uomo d’idee concilianti.
63) Federico di Schwarzemberg, arcivescovo di Praga, era il quarto superstite dei cardinali creati da Gregorio XVI. Era uomo di profonda cultura, di tenace volontà, elegante parlatore e uno dei più fieri oppositori del dogma dell’infallibilità, che combatté fino all’ultimo; egli abbandonò con altri cento vescovi il Concilio quando vide che nessuno lo ascoltava.
64) Giuseppe Miholowitz, arcivescovo di Zagabria, nato a Torda nel 1814, aveva le stesse idee del metropolita viennese.
Questi erano i cardinali che dovevano eleggere il nuovo Papa.
Prima di tutti giunse il cardinal di Bologna, Parrocchi, la cui sollecitudine fu notata, poi Serafini, Moretti, Caverot, Schwarzemberg, Kutschker, Mihalowitz e Deschamps, Guilbert e gli altri dopo, così che fin da principio si ebbe un bel numero di cardinali. Dentro dieci giorni dopo la morte del Pontefice dovevano giungere gli altri, e si sarebbe chiuso il Conclave, ma chi fosse giunto in ritardo sarebbe stato sempre ammesso.
Il tempo che corre fra la morte del Pontefice e l’ingresso in Conclave si chiama novendiali, perchè comprende nove giorni, durante i quali i cardinali si riuniscono di continuo in congregazione.
Il de Cesare e lo cito volentieri perchè il suo Conclave è un vero libro di testo su quella assemblea cardinalizia – dice che nelle prime congregazioni dei cardinali si propendeva a tenere il Conclave fuori di Roma, ma il Crispi non voleva assolutamente che quel fatto avvenisse. Egli aveva impedito che si adunasse il Parlamento, per evitare che qualche parola intempestiva fosse pronunziata in quel tempo di sede vacante o durante il Conclave, e aveva tutto disposto affinchè questo potesse esser convocato in mezzo alla calma più assoluta,
Del proposito dei più giovani specialmente fra i cardinali, di tenere il Conclave fuori di Roma, anzi all’estero, il ministro fu informato dal pro-diacono cardinal Di Pietro ed egli li fece dal medesimo dissuadere, dimostrando che se la Sede della Chiesa partiva, non sarebbe tornata più e il Governo si sarebbe impossessato del Vaticano. Nello stesso tempo tastava le opinioni dei cardinali più influenti, servendosi di monsignor di Marzio, che era vicario del cardinal Bartolini, il quale abitava al palazzo Falconieri a via Giulia, ove dimorava pure il cardinal Pecci. Questi aveva assistito il Bartolini durante una penosa malattia e ne aveva conquistato l’affetto. Monsignor di Marzio era pure amico dei cardinali de Luca e Panebianco, ambedue siciliani ed influenti. Così il Ministro dell’interno dal palazzo Braschi, si può dire che avesse una spia nel Sacro Coilegio, e non è improbabile che appena seppe che il Bartolini, il quale non era mai stato un ammiratore di Pio IX, che voleva vedere sulla Cattedra di San Pietro un diplomatico con mano ferma, e raccomandava a tutti il Pecci, lo facesse incoraggiare in questo proposito. Il Crispi doveva aver letto il libro Il Papa futuro pubblicato dal Bonghi pochi mesi prima la morte di Pio IX, nel quale designava il Pecci come Papa, e da quella lettura avea dovuto certo capire che il cardinale più adatto per reggere nel tempo presente la Santa Sede era senza dubbio l’arcivescovo di Perugia, del quale il general Carini avevagli lodato la moderazione e la carità, accoppiate ad una intelligenza pronta, ad una cultura vastissima, e ad un criterio retto ed assennato.
Mentre il cardinal Pecci reggeva il Vaticano, durante la vacanza papale, non seppe conciliarsi molte simpatie. Il primo atto che dette nell’occhio, fu l’ordine imposto di ripulire le carrozze, quasi egli ammettesse che il nuovo Papa non dovesse condannarsi alla prigionia nel Vaticano; il secondo l’aver concesso al Vespignani che facesse i piani per i lavori del Conclave, mentre questa incombenza spettava al Martinucci, che poi difatti li eseguì; il terzo la durezza che mostrò verso il Macchi e altri funzionari di Pio IX. Cosi si diceva per Roma, che il Pecci invece di acquistarsi simpatie, pareva si studiasse di alienarsele.
Gli ultimi tre giorni dei novendiali, secondo il prescritto, il Sacro Collegio celebrò nella Cappella Sistina i funerali in onore di Pio IX, con tutta la pompa richiesta, mentre nella sala Regia attigua a quella, nella sala Ducale e in tutta quella parte del Vaticano riserbata al Conclave, si dava l’ultima mano alle abitazioni dei cardinali, e tavole e troni erano affastellati per esser trasportati nella Sistina appena terminate le funzioni. Come è noto, quando il Conclave si tiene in Vaticano, è nella Sistina che sono eretti i troni cardinalizi e si fanno le votazioni. Il tubo delle sfumate era a destra del parafulmine che torreggiava sul timpano della Cappella Sistina, e si poteva vedere dalla piazza San Pietro. Contrariamente all’uso, il Camarlengo aveva disposto che il pranzo per i cardinali e per i conclavisti fosse fornito dalle cucine vaticane; il solo Hohenlohe volle gli fosse portato dalla cucina propria. La porta che conduce alla scala del Bernini era stata murata come quella che mette al cortile di San Damaso, e a questa era stata posta una delle ruote, per mezzo delle quali i cardinali potevano conferire con gli ambasciatori. Maresciallo del Conclave era il principe Chigi. Quella carica è ora ereditaria nella sua famiglia. Fu creata da Nicolò V, per ricompensare Luca Savelli, che impedì ai baroni Romani di ricuperare il loro diritto di voto, e allo spengersi della famiglia Savelli passò nei Chigi. Capitani del Conclave furono nominati i signori Alessandri, Leonardi e Tosi, addetti alle cancellerie apostoliche. Un corpo di guardie nobili e svizzere era posto nel cortile di S. Damaso all’ordine dei capi del Conclave.
Il Maresciallo del Conclave ha diritto, come il Camarlengo e il Maggiordomo, di batter moneta. Il principe Chigi si valse nel 1878 di tale diritto, e distribuì ai cardinali le medaglie d’oro prima che entrassero in Conclave. Esse portano sul fronte lo stemma di casa Chigi e di casa Sayn-Wittgenstein, dalla quale è uscita la principessa Chigi, e sul rovescio si legge:
marius
princeps chisius
s. r. e. mareschallus
perpetuus
mdccclxxviii
Quelle di bronzo e d’argento vennero distribuite ad altre persone.
Il giorno 19, verso le 3, cominciarono a vedersi per Roma le carrozze dei cardinali, che andavano al Conclave. Ogni cardinale avea seco un segretario e un servo. Dopo aver lasciato gli eminentissimi al Vaticano, le carrozze tornavano in città a prender bauli e valigie. Verso le 5 1/2 il movimento delle carrozze era cessato e si udì il suono di una campana che annunziava l’uscita dei profani e la chiusura del Conclave di dentro e di fuori. La chiave interna fu affidata al cardinal Camarlengo Pecci, quella esterna al Maresciallo Chigi, il quale abitava nella canonica della basilica. Della consegna delle chiavi si rogo istrumento pubblico dal maestro delle cerimonie, il quale riceve pure una chiave interna.
La mattina del 19 febbraio i cardinali si riunirono nella cappella Sistina ed assisterono alla messa dello Spirito Santo, che fu celebrata dal pro-decano di Pietro. Terminata la messa portata dinanzi all’altare la tavola dello scrutinio, e dopo che il maestro di cerimonie ebbe fatta lettura della chiusura del Conclave, si distribuirono le schede per lo scrutinio.
Monsignor Marinelli, sagrista, recitò allora il Veni Creator e tutti i conclavisti, cioè i segretari dei cardinali, dovettero prestar giuramento di serbare il più stretto silenzio sulle cose del Conclave.
Nel primo scrutinio di quella mattina il cardinal Pecci ebbe 19 voti, il Bilio 11 e il Franchi 5; gli altri voti andarono dispersi su molti candidati. Però sorsero dubbi sulla regolarità della votazione e su questo argomento si discusse a lungo e la votazione fu annullata.
Lo scrutinio segreto consiste in questo. Si eleggono prima tre scrutatori. Scritta e firmata la scheda e sigillata senza suggello proprio, il cardinale la depone in un calice a vista di tutti. Gli scrutatori le raccolgono, le esaminano, le leggono ad alta voce e notano in un foglio i voti. Se nessuno ha riportato il numero sufficiente, le schede si bruciano in un camino, insieme con un poco di paglia bagnata, per modo che il fumo si veda dalla piazza, e questa si chiama la sfumata.
Nello scrutinio delle ore pomeridiane, che fu pure lungo, perché la sfumata si vide verso le 7 1/2, il Pecci aveva riportato 26 voti. Allora si vuole che i cardinali Schwarzemberg e Simor domandassero al cardinal Bartolini, per chi credesse si dovesse votare, e che egli esponesse minutamente le ragioni per le quali credeva che i voti si dovessero dare al Pecci. I due cardinali austriaci dichiararono allora che i voti dei francesi e degli austriaci sarebbero stati per il Camarlengo; eguale dichiarazione fece il Franchi, il quale disponeva dei voti degli spagnuoli, così si può dire che il Pecci fosse già Papa nella prima giornata del Conclave.
La mattina del mercoledì, essendo tutti i cardinali rimasti fedeli alle promesse fatte, il Pecci fu eletto, e all’una e cinque minuti si spalancò l’invetrata della grande loggia, dalla quale Pio IX soleva dare la benedizione pasquale, e comparve un cardinale preceduto da una croce, il quale con voce commossa disse:
Annuncio vobis gaudium magnum: habemus pontificem eminentissimum et reverendissimum Dominum Joachinus Pecci, qui sibi nomen imposuit Leo XIII.
Poca gente udì quest’annunzio, perchè sotto la loggia non vi erano se non che alcuni preti francesi, e il deputato Visconti-Venosta insieme con la marchesa sua moglie. Appena fatta la promulgazione le campane di San Pietro sonarono a festa e la loggia si chiuse.
Frattanto il nuovo Papa era stato condotto da due cardinali anziani dietro la cappella Sistina, ove aveva calzato le scarpe rosse con la croce d’oro, la sottana di seta bianca, il rocchetto e la mozzetta di velluto rosso soppannata di ermellino, la stola ricamata d’oro e lo zucchetto bianco e aveva quindi ricevuto una prima adorazione, che consiste nel bacio del piede e della mano destra. Ad uno ad uno il Papa rialzava i cardinali e dava loro sulla guancia l’osculum pacis, cioè il bacio.
Se pochi erano quelli che avevano raccolto dalla bocca del cardinal Diacono la lieta novella, questa però si era sparsa a un tratto per tutta Roma, e un’ora dopo l’immensa piazza era gremita di gente. Si sperava che il Papa avrebbe dato la benedizione al popolo dalla loggia esterna, e si assicurava che ne avesse intenzione, ma ne fosse dissuaso.
I sampietrini avevano intanto aperto tutte le porte della Basilica, anche quella di bronzo, che era rimasta chiusa dopo il 1870, e la gente andava dalla piazza nella chiesa e riusciva, non sapendo da quale loggia il Papa si sarebbe presentato.
Alle 4 1/2, alcuni camerieri vestiti di nero aprirono la loggia centrale nell’interno della chiesa, quella che è sopra allo stemma dei Doria-Pamphily e vi stendevano un grande tappeto di damasco rosso collocando sovr’esso un cuscino. Un grande mormorio corse allora fra la folla, che teneva gli occhi ansiosamente rivolti sulla loggia. Dopo due o tre minuti di attesa, comparve monsignor Cataldi, maestro di cerimonie, e dietro a lui il nuovo Papa. Un applauso sonoro scoppiò allora nel tempio e le immense volte ripercossero più volte il grido di «Viva Leone XIII, Viva il nuovo Papa!»
Il Papa dette una prima benedizione, quindi i cerimonieri e il crocifero, che erano sulla loggia, fecero cenno al popolo di tacere. In mezzo a un grande silenzio il Papa con voce forte e chiara intonò l’antifona: Adjutorium nostrum in nomine Domini, e il popolo gli rispose.
Terminata l’antifona il Papa alzò gli occhi al cielo e ricongiungendo con largo giro le mani, con voce più elevata e più sicura pronunziò il Benedicat vos Omnipotens Deus ecc. e quindi impartì la trina benedizione papale volgendosi, prima a sinistra, poi al centro e poi a destra. La folla rispose Amen e cominciò di nuovo ad applaudire. Leone XIII fece cessare gli applausi.
La mattina dopo alle 10 nella cappella Sistina il Papa riceveva la cosidetta ubbidienza dai cardinali e quindi veniva cantato il Te Deum. Questa preghiera di ringraziamento si cantava pure in tutte le chiese di Roma, e le campane sonarono dalle 10 alle 11 per tre giorni consecutivi.
Le monache del Bambin Gesù lavorarono assiduamente in quei primi giorni a preparare tre nuovi vestiti per il nuovo Papa. Era stato notato che quando si presentò al pubblico sulla loggia di San Pietro, Leone XIII aveva abiti troppo ampi per lui; erano quelli del suo predecessore che era pingue.
Il Papa sgomentò quelli che lo circondavano nei primi giorni del Pontificato. Appena eletto, andò in carrozza al palazzo Falconieri, ove abitava prima, a prendere alcune carte che premevagli di ritirare; quando il conte Serafini, guardia nobile, che era stato addetto alla sua persona durante il Conclave si accostò per chiedergli una grazia come l’uso vuole, Leone gli battè sulla spalla dicendogli: «A lei penserò io»; ordinò inoltre che alle carrozze papali fossero tolti alcuni ornamenti in bronzo troppo appariscenti: Questo sgomentò, ripeto, perché si vedeva in ogni suo atto il desiderio di romperla, se non con la tradizione, almeno con la consuetudine creata da Pio IX, e in Vaticano i più erano propensi allo statu quo.
Intanto si aspettava l’incoronazione del Papa, che si suol fare in San Pietro. Quando a tratto si sparse la notizia che il Papa sarebbe stato incoronato la domenica 3 marzo nella cappella Sistina, perchè il Governo, interrogato se sarebbesi fatto mallevadore del mantenimento dell’ordine, aveva risposto di non poter garantir nulla. Forse questo si fece credere a Leone XIII, che in pochi giorni era già divenuto prigioniero dei suoi, ma non era la verità. Il Governo non fu interpellato mai e senza essere interpellato aveva già disposto il servizio per la Basilica di San Pietro. Quando si seppe che l’incoronazione si sarebbe fatta nella Sistina, si disse che il Papa avrebbe benedetto il popolo dalla loggia e sulla piazza furoro schierati due battaglioni di soldati, e per tutto guardie e carabinieri; ma gl’invitati che avevano assistito alla incoronazione uscirono dal Vaticano alle 2, e il Papa non si mostrò.
Ciò dispiacque in quel momento, e Roma non dimenticò così presto quel fatto.
Fu l’unica nuvola che oscurò la pace di quei giorni in cui il Governo italiano aveva voluto provare che la Chiesa era libera sotto la sua egida, e il Vaticano dal canto suo, con la speditezza dei lavori del Conclave e la serietà che lo circondò, come erano falsi i racconti che si facevano sui Conclavi precedenti.
Leone XIII seguitò a destare il malcontento della gente vaticana assuefatta al governo ben diverso del suo predecessore, il quale lasciava che le piante parassite gli crescessero intorno. Non piacque la nomina del Franchi a Segretario di Stato, e il non essersi piegato alle antiche consuetudini che concedevano tre mesi di stipendio alle guardie svizzere per l’elezione del nuovo Pontefice, gli procurò la noia dell’ammutinamento di quel corpo. Dovette cedere e aumentare lo stipendio. Gli svizzeri continuarono a tumultuare, istigati forse da altri malcontenti, e il Papa ne fece rimpatriare 37, cioè quasi la metà.
Appena eletto il Papa, venne a Roma la missione inglese guidata dal duca d’Abercorn per investire il Re dell’ordine della Giarrettiera, inviato dalla regina Vittoria al nostro Sovrano. La cerimonia si compiè nella sala degli specchi al Quirinale con tutta la pompa richiesta.
Il 7 marzo il Re inaugurò la seconda sessione della XIII Legislatura e dovette rivolgersi ai rappresentanti della nazione parlando a nome di un ministero quasi disfatto. Il discorso incolore fu accolto con poco entusiasmo, però il Re fuori del Parlamento ebbe una dimostrazione calorosa. Quella stessa giornata erano state presentate e accettate le dimissioni del Crispi, attaccato nella sua vita privata, e il Depretis per fare un ultimo tentativo di tenere insieme il Gabinetto, aveva preso l’interim dell’interno.
Il Cairoli fu eletto presidente della Camera a primo scrutinio, e il Depretis annunziò nella seduta successiva le dimissioni del Gabinetto in seguito alle mutate condizioni della Camera. Il Re, per ricompensarlo dei servizi prestati al paese e alla monarchia col suo ministero n. 2 gli mandò le insegne del collare dell’Annunziata.
Il 26 marzo finalmente il Cairoli, che aveva ricevuto l’incarico dal Re di formare il nuovo Ministero, ne annunziò la composizione alla Camera. Vi entrarono lo Zanardelli come ministro dell’interno, il conte Corti come ministro degli esteri, il Sesmit-Doda come ministro delle finanze con l’interim del tesoro, il Baccarini come ministro dei lavori pubblici, il De Sanctis come ministro dell’istruzione pubblica, il generale Bruzzo come ministro della guerra, l’ammiraglio Di Brocchetti come ministro della marina, il Conforti come ministro di grazia e giustizia.
Il Cairoli annunziò alla Camera un modesto programma di lavori: l’inchiesta ferroviaria, una legge per la costruzione delle ferrovie più importanti, nuovi sussidi per l’inchiesta agraria e la riforma elettorale. A presidente della Camera fu eletto l’on. Farini.
La Camera, dal marzo alle vacanze di Pasqua, votò il trattato di commercio con la Francia, quello di commercio e navigazione con la Grecia, la creazione dell’Accademia navale a Livorno e la tariffa doganale. Si ebbero poche interrogazioni e nessuna discussione importante in quel periodo di tempo, così che il lavoro andò avanti bene.
Al Caracciolo di Bella, che aveva dato le dimissioni dopo la caduta del ministero Depretis-Crispi, era succeduto il marchese Gravina, ma in quel tempo di lutto quasi nessuno si accorgeva che vi fosse un prefetto al palazzo Valentini, come non si accorgeva che al Quirinale vi fosse la Corte. Eppure oltre le LL. MM. era a Roma anche il duca d’Aosta, che comandava il VII corpo d’esercito e abitava la palazzina che Vittorio Emanuele s’era fatto costruire, senza che prima della morte potesse rinnovarla. Il giovane Re, nei primi tempi del suo regno, aveva provato il bisogno di avere a fianco l’unico fratello e il suo più affezionato amico per consultarlo nei momenti difficili.
La famiglia Reale viveva riunita e ritirata; la Regina aveva sospeso le visite a tutte le scuole e non usciva quasi mai. La sua delicata salute era stata scossa dal dolore e ogni distrazione le riusciva penosa.
Il nuovo Papa faceva poco parlare di sé. In primavera aveva rivolta una mite allocuzione ai cardinali, nella quale pareva che soltanto pro forma rivendicasse i diritti sul potere temporale; ma poco dopo una violenta enciclica distrusse l’effetto di quella prima e moderata manifestazione della sua volontà. Leone XIII ricevè anche il signor Luigi Veuillot, direttore dell’Univers, il quale gli portò 74,000 lire per l’Obolo di San Pietro, e fu accolto con la stessa deferenza con cui accoglievalo il Papa precedente. Ancora non si aveva avuto agio di giudicare la linea politica che avrebbe tenuto il nuovo Pontefice, ma nelle forme seguiva le consuetudini stabilite dal suo predecessore e come lui permetteva ai clericali di partecipare alle elezioni amministrative. Però i candidati della Voce della Verità e dell’Osservatore Romano furono battuti completamente da quelli liberali, benchè alcuni fossero portati anche dal Popolo Romano, che era diventato un giornale importante, e aveva sede nel palazzo di via delle Coppelle, ov’è stato tanti anni.
Al principio dell’estate s’inaugurò il palazzo della Posta a San Silvestro, che fu giudicato molto brutto e indegno di Roma.
Dopo le elezioni amministrative, l’on. Emanuele Ruspoli fu nominato sindaco di Roma ed egli di li a poco sposava donna Laura Caracciolo di Bella, figlia dell’ex-prefetto, e intraprendeva insieme con la sposa un lungo viaggio.
I Sovrani dopo avere assistito il 9 luglio al Pantheon a una messa commemorativa in suffragio dell’anima del Gran Re, deposero il lutto e si recarono in forma ufficiale a Spezia per il varo del «Dandolo» e quindi fecero il loro solenne ingresso a Torino, visitarono Milano e poi Venezia, ove la Regina rimase a fare i bagni.
Il conte Corti ministro degli esteri, era al congresso di Berlino; il Cairoli dopo una breve malattia era andato a raggiungere il Re a Milano, la Camera chiusa, molta gente trovavasi a Parigi per l’Esposizione, così che la vita taceva a Roma e tacque lungamente in quell’anno.
In autunno i Sovrani ripresero la loro visita nelle provincie del Regno. Andarono a Firenze, a Bologna, ad Ancona, a Foggia e da quella città si diressero a Napoli, che doveva essere l’ultima tappa di quel viaggio trionfale.
Il 17 il Re arrivò a Napoli proveniente da Caserta insieme con la Regina ed il Principe di Napoli. Fu ricevuto alla stazione dalle autorità e dopo scambiati i saluti d’uso salì in carrozza insieme con il Presidente del Consiglio Cairoli, con la Regina ed il Principino. Giunta la carrozza reale a San Giovanni a Carbonara un uomo si slanciò contro il Re e con un pugnale tentò di ferirlo il Re si tirò indietro e non ricevette che una semplice scalfittura all’omero, e nel medesimo tempo diede un colpo colla sciabola inguainata sulla testa dell’assassino. Questi non cessò di tirare colpi, e Cairoli che si era messo davanti al Re per proteggerlo, ricevette una ferita alla coscia. Una guardia municipale corse e arrestò l’assassino, che fu identificato per il pregiudicato Passanante Giovanni. La carrozza continuò il suo cammino e pochi si accorsero li per li dell’attentato, conservando il Re, la Regina, il giovane Principe e Cairoli, benchè ferito, un sangue freddo straordinario.
La notizia dell’attentato giunse a Roma il dopo pranzo sul tardi e subito furono spediti a Napoli telegrammi di ringraziamento alla Provvidenza per aver salvato il Re. Telegrafò Ruspoli a nome della popolazione e della Giunta, telegrafarono i deputati presenti in Roma a Cairoli perché fosse interprete presso il Re dei sentimenti loro, l’Associazione della Stampa, il Senato, e molti altri per modo che il Re ricevette in quei giorni più di 2000 telegrammi da ogni parte d’Italia.
Anche il Sommo Pontefice telegrafo in questi termini, facendo rimettere il telegramma dal cardinal Sanfelice al Re.
- «A Sua Maestà Umberto:
«Essendomi giunta notizia del deplorevole attentato contro la vita di V. M. esprimo le mie più vive anze nel medesimo tempo le mie grat lazioni per essere V. M. scampata dal grave pericolo. Prego Iddio per la conservazione della salute di V. M.
«LEONE XIII».
Verso le sette e mezzo di sera i primi giornali che uscivano sparsero la notizia per la città. Cominciarono a formarsi capannelli di gente per il Corso e a piazza Colonna, poi in poco tempo sorse una vera dimostrazione, che munitasi di torcie e di bandiere andò prima al palazzo Braschi, per sapere notizie sicure, poi, rassicurata dal segretario generale per l’interno Ronchetti intorno alla salute del Re, si diresse al Campidoglio acclamando Umberto e Casa Savoia.
Si affacciò il Sindaco e rivolse alla folla esultante queste parole:
«Pur troppo il pugnale dell’assassino si è levato sul petto del nostro Re; ma in quel petto batteva il cuore del prode soldato di Custoza, del figlio del Re Galantuomo, ed il braccio del Re punì con la spada l’aggressore, e difese così la Monarchia e la sua famiglia.
«Voi ben faceste a salire sul Campidoglio: queste storiche mura ripercuotono degnamente le grida di Roma, che confermano la sua fede al Re ed all’Italia.
«Re Umberto è degno figlio dell’Eroe di Palestro e di San Martino. Fu pure ferito Benedetto Cairoli; fra le ferite del gran patriotta non è la meno gloriosa quella che ha ricevuto a fianco del suo Re. La vostra Giunta, interprete dei sentimenti vostri, ha già telegrafato al Re ed alla Regina. Evviva l’Italia».
A queste parole si sollevò un indescrivibile entusiasmo ed il Sindaco riprese:
«Questo vostro entusiasmo, questa concordia di tutto un popolo provano al mondo che i destini d’Italia non dipendono dal pugnale di un assassino».
Nuovi applausi accolsero la chiusa del discorso del Sindaco. La dimostrazione tornò poi in piazza Colonna e fino alle due dopo mezzanotte piazza Colonna risuono di grida di: «Viva il Re! Viva la Casa Savoia! Morte agli assassini!»
La prefettura intanto verso le prime ore della sera fece affiggere il seguente manifesto:
- «Romani!
«Davanti ad un fatto così esecrando, per la troppa indignazione vien meno la parola; a Voi, Romani, ne basterà il solo annunzio, perchè tutti i sentimenti di affetto e di gratitudine che ci legano all’Augusto Figlio del Padre della Patria, al Re nostro leale e valoroso, prorompano dai vostri petti generosi, accompagnati da un senso di raccapriccio e dal più patriottico degli sdegni.
«Viva il Re.!
«Roma, 17 novembre 1878. | «per il Prefetto «Mazzoleni». |
Nel medesimo tempo il municipio pubblicava:
- Romani!
«Interpreti dei vostri sentimenti, abbiamo esternato a S. M. l’orrore che v’ispira l’odioso attentato, ringraziando Dio di aver salvato il Re e la Patria.
«Forte come il Padre, magnanimo come l’Avo, Re Umberto con la sua spada difese sè e la famiglia.
- «Romani!
«Mostrate che il popolo è col Re; l’affetto, la fedeltà ed il patriottismo vostro siano conforto agli Augusti Sovrani ed al Figlio loro.
«Dal Campidoglio, li 17 novembre 1878.
«Il Sindaco
«Ruspoli».
In Consiglio Comunale il principe Gabrieli deplorò l’attentato di Passanante, ma essendo fra i designati a portare a Napoli l’espressione dei sentimenti della cittadinanza, non vi andò, dandosi per malato.
Le dimostrazioni d’affetto alla Famiglia Reale furono in quella triste occasione così spontanee ed unanimi da commuovere. Anche il Papa, che vi si era associato col telegramma, non volle rimanere a mezzo e permise che un Te Deum di ringraziamento fosse cantato nella chiesa di S. Silvestro in Capite; un altro ne fu cantato al Sudario per iniziativa delle dame di Corte e a questo assistè tutto il corpo diplomatico.
Roma preparò al Re un’accoglienza trionfale pel 24 novembre. Ghirlande d’alloro, festoni, fiori e trofei ornavano il piazzale della stazione; tutta la tettoia sotto la quale si fermano i treni scompariva sotto le bandiere, le ghirlande, e il verde, tutte le porte erano ornate, tutti i pilastri rivestiti di fiori; la sala reale d’aspetto era addobbata di margherite e di veli, la via Nazionale era trasformata in una via trionfale.
I Sovrani giunsero alle 3 salutati dal cannone e dagli evviva della immensa folla. Quando il corteo reale, preceduto dai corazzieri giunse all’esedra di Termini, ove erano riunite le associazioni, ebbero una calorosa dimostrazione che si ripeté lungo tutto il percorso, fino al Quirinale. Il popolo volle di nuovo vedere i Sovrani al balcone e li costrinse a rimanervi applaudendoli incessantemente. Ma la dimostrazione non finì li. Tutta la sera nelle vie illuminate si udirono evviva e canti, e appena alle 2 della notte Roma ritornò silenziosa.
La sera dopo nuova dimostrazione e ritirata con fiaccole che, accompagnata da una folla immensa e plaudente, andò al Quirinale. La Famiglia Reale dovette affacciarsi e restare lungamente sul balcone.
In mezzo a tanta esultanza si sparsero due notizie dolorose: il Re soffriva di una leggiera bronchite e il Cairoli della ferita alla gamba, così che non poteva assistere alle sedute della Camera, sedute importantissime perchè si trattava dello svolgimento delle interpellanze sulla politica interna e sulla pubblica sicurezza. I fatti di Arcidosso, l’uccisione di David Lazzeretti, l’attentato di Passanante, le bombe di Firenze e tanti altri tenevano perplesso il paese, il quale non vedeva nella politica dello Zanardelli la garanzia necessaria per il ritorno della calma. La dichiarazione fatta dal ministro dell’interno sulla esistenza di 237 circoli internazionalisti sgomentò. Il 6 dicembre il Cairoli, ancora infermo, volle tornare alla Camera per dichiararsi solidale con lo Zanardelli.
Lo svolgimento delle interpellanze fu lunghissimo, la discussione degli ordini del giorno pure. Finalmente il Governò accettò un ordine del giorno Baccelli col quale era nettamente posta la questione di fiducia nella politica del Gabinetto.
La Camera lo respinse con 263 voti contro 189. Il ministero Cairoli-Zanardelli cadde, e cadde per le forze unite della Destra e dei Centri, che misero insieme 175 voti. A quelle due parti della Camera specialmente non poteva piacere la politica repubblicana del Gabinetto.
Da principio l’on. Cairoli fu incaricato dal Re della formazione di un nuovo Gabinetto, ma avendo incontrato molti ostacoli, questo incarico fu da S. M. affidato all’on. Depretis, che il 20 dicembre annunziò alla Camera la composizione del suo Gabinetto n. 3.
L’anno funesto, inaugurato col lutto, si chiudeva mostrando lo sfacelo dei partiti e la nessuna fiducia dell’Italia negli uomini che con tanta rapidità si succedevano e si alternavano al potere.