Roma italiana, 1870-1895/Il 1879
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Il 1879.
Nella vita dei popoli, come in quella degli individui, a un periodo di tempo di forti commozioni ne tiene dietro quasi sempre un altro di profonda apatia o di raccoglimento.
Nell’anno 1878 il popolo di Roma era stato troppo spesso agitato da dolori profondi e da gioie vivissime, aveva dato sfogo così di frequente ai propri sentimenti, che dovette naturalmente riposarsi e raccogliersi in se stesso.
Questo medesimo fenomeno si manifestava anche nel resto d’Italia; si voleva vivere in pace ad ogni costo con tutti, ma senza programma determinato, così nella politica interna, come in quella estera. La manifestazione di questo stato d’animo del popolo italiano scorgevasi chiaramente rispecchiata nel terzo ministero, che l’on. Depretis aveva formato alla fine dell’anno precedente. Mancava in quello anche il ministro degli esteri, e quel decastero, come l’altro dell’interno, era retto dal Presidente del Consiglio, segno certo che la politica estera non avrebbe avuto nessun carattere spiccato. L’Italia si sarebbe studiata di mantenersi in buoni rapporti con le potenze estere, prendendo cosi, giorno per giorno, senza un piano prestabilito, quei provvedimenti atti a mandare avanti la baracca alla meglio. Eppure in Europa, era appena scomparso il pericolo di una guerra, si doveva applicare il trattato di Berlino, e nell’Afganistan ferveva un conflitto nel quale potevano essere trascinate, oltre l’Inghilterra, altre nazioni; e accennando a quel conflitto, non ho accennato che a una sola delle questioni importanti. Ma l’Italia pareva che avesse esaurita l’energia e rimanesse indifferente a tutto.
A Roma da più tempo era stata sollevata una quistione serissima: quella del concorso governativo ai lavori edilizi; eppure anche questa era trattata con una certa indifferenza, benchè tutto IL PONTE MARGHERITA rimanesse sospeso, e il Comune non potesse metter mano a nessun lavoro, nè dare un ordinamento stabile al suo bilancio, se non era stabilito se questo concorso sarebbe davvero avvenuto, e quale la quota, quali gli oneri che imponeva, e come il concorso verrebbe ripartito nei successivi bilanci.
L’anno incominciava con una sequela di tristi notizie. La Regina era ammalata e dovette mancare anche al pranzo di gala al Quirinale. Non era una malattia leggera; trattavasi di un indebolimento di tutto l’organismo, che acquistava fasi acute. La gioventù e la forza d’animo della Augusta Signora facevano si che ella spesso riuscisse a dominare il male, e allora ella si mostrava, come al solito, ovunque la sua presenza era necessaria, o solamente desiderata; ma il male riprendeva poi il suo imperio, e allora la Regina doveva mettersi a letto, o rimanere nel suo quartiere. Il roseo incarnato era sparito dal volto di Margherita di Savoia, e il sorriso era velato dalla tristezza. Si vuole che ella fosse stata scossa molto dall’attentato di Passanante, che la truce scena dell’assassino, ritto sulle ruote della carrozza, col pugnale alzato sul Re, non le potesse uscire dalla mente, e che Ella tremasse di continuo per la vita del marito. Queste ansie morali le minavano la salute delicata, e soltanto il tempo, riconducendole la fiducia nell’animo, poté restituirle la salute. Anche il general Medici era molto malato all’albergo del Quirinale, dove il Re andava spesso a visitarlo; l’on. Cairoli era infermo, e infermo anche il Presidente del Consiglio. Il primo aiutante di campo del Re fu per lungo tempo in serio pericolo di vita ; il Cairoli soffriva per la ferita riportata a Napoli, ed il Re aveva per lui continue attenzioni. Non solo andava a trovarlo spesso, ma inviò anche a donna Elena un bellissimo gioiello, come usava fare con le collaresse dell’Annunziata.
A tutte queste malattie che affliggevano gli animi, venne ad aggiungersi la ricorrenza di una data dolorosa, che rendendo più vivo un doloroso ricordo, accresceva la mestizia generale. Voglio alludere al 9 gennaio, giorno infausto per l’Italia.
Si fecero solenni funerali a cura della Casa Reale al Sudario il 14; la musica fu diretta dal maestro Rotoli. Il 16 vi fu il funerale al Pantheon, e l’addobbo fu ideato dal cav. Massuero e piacque, come piacque di nuovo il Benedictus del Terziani. Il 24 gennaio ne fece fare uno il Municipio a Santa Maria degli Angeli, e fu il più sontuoso. Si notò che il padre Bernardino da Caprarola, superiore della chiesa di Aracoeli, ove il funerale era stato celebrato l’anno prima, ufficiò a Santa Maria degli Angeli, insieme con i certosini; che anzi fu lui che cantò la messa. Venne scelta quella del Cherubini con l’assoluzione del Terziani, il quale dirigeva la musica, che fu eseguita dalla Filarmonica Romana e dall’Accademia di Santa Cecilia. Volendosi dare al Terziani un attestato di ammirazione fu stabilito allora di offrirgli una bacchetta d’oro. Questo divisamento fu effettuato pochi mesi dopo, e la bacchetta venne consegnata al maestro con molta solennità durante un banchetto. Il Terziani aveva certo molto valore come compositore di musica sacra, e l’ammirazione era davvero giustificata.
Ma non erano quelle dimostrazioni ufficiali di cordoglio, che provavano il rimpianto per la morte del Gran Re. Il giorno 9, senza che nulla in precedenza fosse stabilito, senza che si facesse nessun appello alla pietà pubblica, la tomba del Re si copri di corone. Esse erano recate dalle diverse associazioni e da privati, e giungevano da ogni remota contrada d’Italia. Alla chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio sarebbe stato celebrato pure un funerale a cura dei cittadini, e il parroco non sarebbesi rifiutato di ufficiare, se nell’ottavario dell’Epifania non fosse proibito dai sacri canoni di far esequie.
L’avere il padre Bernardino da Caprarola ufficiato nella messa di Requiem per Vittorio Emanuele, dimostrava una certa tendenza, se non alla conciliazione, almeno alla tolleranza, tendenza di cui dava prova il Pontefice in ogni suo atto, e che fu rilevata dal ministro del culto, on. Taiani, in una risposta che egli dette in Senato all’on. Finali, dicendo che il ministero doveva esser conciliante, dal momento che dal Vaticano si faceva udire una voce serena, spesso ispirata.
Il desiderio della conciliazione fra Stato e Chiesa si faceva vivo fra i cattolici, e di quel desiderio si fece propugnatore il conte Valperga di Masino; a lui si unirono molti fra i conservatori d’Italia. A Roma uno dei raggranellatori delle file sparse del partito era stato Roberto Stuart, giornalista e letterato notissimo, inglese per parte del padre, giornalista egli pure, e italiano per la madre.
Il partito moderato non fece buon viso al nuovo partito, e non poteva farglielo. Il Sella disse schiettamente in una lettera all’on. Cavalletto, che il programma del partito conservatore era la negazione di quello del conte di Cavour, che era stato sempre il programma del partito moderato, perché mentre questo voleva la completa separazione dello Stato dalla Chiesa, il nuovo partito richiedeva l’ingerenza della Chiesa in alcune questioni per il vantaggio della Nazione.
Verso il 20 febbraio il nuovo partito tenne adunanze in casa del conte Paolo di Campello, alle quali assisterono il marchese di Baviera, il principe di Sulmona, il principe Chigi e il marchese Ferraioli. Dalle Marche e dall’Emilia erano venuti a Roma, a quello scopo, il marchese Connestabile della Staffa, e l’on. deputato Bartolucci, il quale per molti anni, e anche durante le discussioni per la soppressione delle Corporazioni religiose, si era trovato solo rappresentante alla Camera delle idee del nuovo partito. Firenze aveva mandato qui il marchese Burbon del Monte, l’avv. Grossi e il prof. Falorsi; Bologna il conte Malvezzi e il signor Rabbioni; Milano il conte Melzi.
In quelle sedute fu letto e discusso il programma del conte Valperga di Masino, che era pure presente, e fu giudicato troppo oscuro nella parte che si riferiva ai rapporti fra l’Italia e la Santa Sede, e troppo prolisso nella redazione. Alcuni intervenuti proposero un altro programma, nel quale era ammessa più spiccatamente la sommissione del nuovo partito alla Santa Sede e di esso fu ispiraratore l’on. Bartolucci.
In quelle sedute venne stabilito di presentare al Papa il programma affinché lo approvasse, ma anche prima che il nuovo partito si costituisse i giornali clericali, fra cui l’Osservatore Cattolico di Milano, lo avevano avversato. Non tutti l’intervenuti alle riunioni del palazzo Campello firmarono il programma; anzi soltanto i meno clericali; gli altri volevano che fossero in esso meglio salvaguardati i diritti della Santa Sede, e che il Papa soltanto dovesse stabilire se i cattolici potevano andare o no alle urne.
E quasi queste scissure non fossero bastate per dimostrare la mancanza di base del nuovo partito, e il significato differente che aveva la parola conservatore per i cattolici dell’alta Italia e per quelli romani, la voce del Papa si fece udire per condannarlo fino dal suo nascere.
Leone XIII, come ho detto, fino dalla sua elezione si era dimostrato assennato e giusto, così nel governo della Chiesa, così nei suoi rapporti con l’Italia e con le potenze in guerra col Papato al momento della morte di Pio IX, così nei suoi discorsi. Ciò non soddisfaceva punto gl’intransigenti del Vaticano, i quali si erano sgomentati al solo pensiero che il Papa potesse mettersi sulla via di una conciliazione con l’Italia, conchiudendo un accordo col promotore del nuovo partito. Per quegli intransigenti Leone XIII era tutt’altro che un Papa ideale. Lo tacciavano di avarizia per aver licenziato molti parassiti, per avere imposto tasse ai Capitoli di San Pietro, di Santa Maria Maggiore e di San Giovanni in Laterano, per non aver creato cardinali, e per non accordare sussidii a nessuno, nè far regali ai vescovi. La sua supposta avarizia, che non era altro che economia ed ordine, temevano lo avrebbe spinto fino ad accettare dall’Italia la dotazione annua di tre milioni e mezzo.
Gl’intransigenti ricorsero ad ogni mezzo per ricondurre il Pontefice sulla sola via che doveva, secondo essi, percorrere, compreso quello di farlo parlare spesso col cardinal Manning, che era venuto espressamente d’Inghilterra, e di fare, per mezzo di quell’intelligente porporato, capire al cardinale Segretario di Stato, Nina, quale errore sarebbe nato se il Papa avesse lasciato credere di esser favorevole al nuovo partito conservatore. Il Papa doveva parlare, e pronunziarsi apertamente contrario ad esso, e di nuovo affermare i suoi diritti sul potere temporale per distruggere tutte le possibili illusioni.
Erano venuti a Roma i rappresentanti di 1300 giornali cattolici per fare omaggio al Papa e offrirgli l’obolo da essi raccolto, e in presenza di essi Leone XIII dette il colpo mortale al nuovo partito, alzando la voce per ripetere le proteste di Pio IX.
Nonostante il violento discorso del Papa, il lavorio per la costituzione del partito conservatore continuò. Poco tempo dopo il barone d’Ondes Reggio riprese le trattative col Vaticano per il programma, che era davvero l’osso duro. Anche il d’Ondes voleva che il partito partecipasse alle elezioni politiche ed amministrative, pur attenendosi alle dottrine della Chiesa, ma non approdò a nulla. Peraltro la discussione si estese e del partito si occuparono quasi tutti gli scrittori politici, e molto il marchese Alfieri, che lo diceva sorto non vitale, perchè accoglieva nel suo programma rivendicazioni di fatti compiuti, mentre il vero partito conservatore avrebbe dovuto prendere per base la legge sulle guarentigie. Durante l’anno il partito si costituì, e parendogli forse insufficiente per la propaganda delle proprie idee l’aiuto del Fanfulla, mise assieme i capitali necessari per fondare un giornale intitolato appunto Il Conservatore, che fu diretto da Roberto Stuart.
Quella concilizione, che sgomentava tanto gl’intransigenti del Vaticano, si effettuava lentamente fra i liberali e i clericali nei rapporti di società. Le signore del partito nero, stanche del lutto portato per tanti anni, incominciarono a riunirsi sul campo delle Corse, nei balli e nei comitati di beneficenza.
Alla caccia alla volpe partecipano i Borghese, il duca e la duchessa di Ceri, la giovine e bella principessa Rospigliosi-Bandini e molte altre dame e cavalieri, che non si erano più mostrati. Anche all’Apollo ricompariscono le signore della società clericale; esse assistevano numerose alla rappresentazione del 20 gennaio quando dopo un anno vi tornò la Regina, e le fu fatta una calorosa ovazione. Tutte quelle dame si alzarono, meno una bella marchesa, d’origine americana, più clericale delle romane. Lo sgarbo di quella signora fu notato e biasimato; per un pezzo ella è stata segnata a dito a Roma, ove il rispetto per Margherita di Savoia è profondo fra la gente di ogni partito.
Al Quirinale vi fu un primo ballo sul finire di gennaio e due altri dopo. Erano stati diramati 2000 inviti, e i balli riuscirono bellissimi. Si ballava pure dal duca e dalla duchessa di Marino, dai Teano, dai Cesarini, dai Pallavicini, in casa Hüffer, in casa del Drago, dal barone di Haymerle, dal conte Coello ministro di Spagna, dal marchese di Noailles, alla ambasciata di Germania spessissimo, dalla marchesa Lavaggi, e nella villa della duchessa Massimo di Rignano, agli Orti Sallustiani. La Regina, quando aveva brevi tregue al suo male, non mancava d’intervenire, e ballava la quadriglia d’onore, i Lancieri e null’altro, perchè il ballo le nuoceva. In tutte le case ove andavano i Sovrani era preparata una cena per LL. MM. e per quelli ammessi a ballare nella quadriglia d’onore, che era composta allora di sedici coppie e vi partecipavano il principe di Svezia, il granduca e la granduchessa di Sassonia-Weimar, donna Laura Minghetti, donna Amalia Depretis, la signora Magliani, moglie del ministro delle Finanze, le ambasciatrici di Austria, di Germania, di Russia, di Francia e d’Inghilterra, e la contessa Coello. La corte si ritirava presto perchè il Re ha sempre voluto coricarsi di buon’ora, e la Regina non doveva affaticarsi, ma i balli continuavano fino alle 7 e alle 8 della mattina.
Anche gli ambasciatori presso il Papa ricevevano, perchè il lutto, con l’assunzione di Leone XIII era terminato. Difatti ballarono all’ambasciata d’Austria al palazzo di Venezia, dal marchese Cardenas, ambasciatore di Spagna, all’ambasciata di Portogallo dal conte Thomar, dal marchese di Laurenzana, rappresentante delle tre repubbliche dell’Equatore, e dal conte d’Araguaya, ministro del Brasile. La principessa Bandini pure riapri le sue sale con molta gioia delle sue belle figliuole, e di tutte signorine del patriziato nero, che da molto tempo erano condannate ad annoiarsi in ossequio alla politica.
Ma la più bella festa di quell’anno fu quella che dette il barone di Keudell al palazzo Caffarelli per solennizzare il 50° anniversario della fondazione dell’Istituto Archeologico tedesco, che ricorreva il 21 aprile. L’imperatore Gugliemo I in quella occasione aveva decorato Rodolfo Lanciani per i suoi lavori archeologici, e il comm. Giov. Battista de Rossi per aver rintracciato e pubblicato per cura dell’Istituto sette piante di Roma anteriori al 1500, la più importante delle quali era stata rinvenuta a Mantova. Al prof. Helbig, direttore dell’Istituto, fu pure offerto dal ministero della pubblica istruzione una copia integra in dodici grandi tavole cromo-litografiche della pianta del Bufalini.
Due pranzi avevano preceduto la festa al palazzo Caffarelli: uno dato dal Sindaco in Campidoglio al quale avevano assistito tutti gli ambasciatori e ministri esteri, i ministri italiani e una quantità di scienziati; un altro all’albergo del Quirinale dato dal prof. Helbig a tutti gli archeologi italiani e stranieri. La contessa Ersilia Lovatelli era la sola dama che vi assistesse in qualità di dotta cultrice della scienza dell’antichità.
Ma torniamo alla festa all’ambasciata. Essa incominciò alle 11, dopo l’arrivo dei Sovrani, con un prologo in versi del marchese Anselmo Guerrieri-Gonzaga, che terminava con l’accennare i sentimenti che uniscono «alla nuova Roma il nuovo Impero». Lo recitò Adelaide Ristori, marchesa del Grillo, che prodigava in quel tempo con tanta larghezza i tesori del suo genio nelle feste eleganti e nelle opere di beneficenza.
Nella grande sala del palazzo era stato costruito una specie di podio coperto da un velario elegantissimo. Su quello si svolsero i quadri viventi, raffiguranti scene celebri dell’antichità. Il primo riproduceva la disputa fra Agamennone ed Achille e vi presero parte la contessa Kisseleff-Ruspoli, la signorina Dickson, che rappresentava la bella Briseide, i signori Plowden, Sester e Tizkos. Il soggetto del secondo quadro era: Pericle ed Aspasia nello studio di Fidia. I diversi personaggi furono rappresentati dalla signora Derenthal, dalla marchesa di Santasilia, dalla signorina Howe, dai marchesi Guerrieri-Gonzaga e Giuccioli e dal signor Schmidt. Alessandro Magno ed Efesione davanti alle donne di Dario, era l’argomento del terzo quadro, composto dalla marchesa Chigi, dalla bella contessa Matilde Papadopoli, dalla principessa di Teano, che fu ammiratissima nel costume di una delle mogli di Dario.
Il quarto aveva per soggetto: Ovidio che legge la sue Metamorfosi alla Corte d’Augusto, e anche in questo figurarono la principessa di Teano, la marchesa Santasilia e la contessa Kisseleff. I quadri avevano un carattere classico, i costumi erano stati disegnati su quelli dei monumenti antichi, e specialmente sui vasi, cosicchè piacquero immensamente, tanto più che sotto quelle artistiche vesti risaltava meglio la bellezza delle dame. A Roma si parlò lungamente di quella festa dell’arte e della bellezza.
Prima di terminare questa rapida rassegna della vita elegante di Roma, voglio accennare alle corse che si facevano a Villa Ada, passata dalla casa Reale in proprietà del conte Telfner e a quelle che si facevano alla tenuta di Redicoli, fuori di Porta Pia, all’ottavo miglio.
Le corse a Villa Ada erano elegantissime; i premi venivano assegnati dalla contessa Telfner, sposa da poco, e dalla signora e signorina Mackay, le due ricchissime americane. Vi conveniva un pubblico ristretto, ma sceltissimo. Le scuderie che correvano specialmente erano quelle di Telfner e del conte Larderel. Alle corse di Redicoli, dette di Belladonna, vi andava la Corte. La Regina conduceva nella sua carrozza di mezza gala il Principe di Napoli, che in quell’inverno menava pure all’Apollo a sentire il Barbiere di Siviglia, e altre opere. Il principino era sempre vestito da caporale dei torpedinieri e quel costume gli stava molto bene. Non era più il piccino dilicato che i romani avevano veduto per la prima volta nel 1871. Erasi fatto più forte, e sul viso giovanile gli si leggeva una espressione di fierezza e di intelligenza che lo rendeva simpatico.
Il Re usciva dal Quirinale in carrozza e a Ponte Nomentano saliva a cavallo. S. M. prendeva interesse a quelle corse, e dava un premio di 4000 lire per i cavalli di età non superiore ai 4 anni, nati e allevati nella provincia romana. Quelle corse non possono esser paragonate a quelle che si fanno ora alle Capannelle in primavera, ma per i romani avevano un’attrattiva forse maggiore, e una folla immensa assisteva al ritorno delle carrozze da ponte Nomentano fino al Quirinale. I tiri a quattro cavalli erano belli e molti; due del duca di Ceri, uno del principe di Teano, due di casa Doria, uno di don Giannetto e uno di don Alfonso, uno del principe Leuchtemberg, figlio della granduchessa Maria di Russia, preceduto da battistrada, uno di don Bosio di Santa Fiora poi quelli del signor Hüffer, del conte Telfner, del conte di Coello, di don Camillo Borghese, del principe Massimo, dell’elegante principe di Belmonte, di don Leopoldo Torlonia, del signor Venturi, e dei fratelli Giorgi.
Anche per queste gare ippiche di Belladonna i premi ai vincitori della corsa del Gentlemen-riders erano conferiti dalle signore, e i signori che si disputavano quei premi erano il barone Franchetti, il conte Tiberi, il marchese di Roccagiovane, il signor Minghetti, il conte Senni e il signor Plowden, i quali sono quasi tutti anche adesso i re del turf.
La Camera si riaprì il 14 gennaio e subito piombarono le interrogazioni e le interpellanze, e si stabilì di discuterle durante i bilanci. In quella prima seduta fu presentato dal presidente del consiglio il trattato di commercio con l’Austria-Ungheria, che fu subito mandato alla commissione espressamente nominata, e il Coppino presentò quello per la costruzione del palazzo di Belle Arti. Vincitore del concorso era stato l’ingegnere Pio Piacentini romano e quella costruzione era un bisogno per la città. Il Coppino non ne chiese l’urgenza e non era presente neppur un deputato romano per chiedere che il progetto fosse mandato all’esame negli uffici.
Ho citato quest’esempio per dimostrare l’apatia, dalla quale tutti erano sopraffatti. La Camera era quasi sempre vuota e i deputati, invece di riunirsi nell’aula, si vedevano fuori del Parlamento per discutere, per brigare contro il Ministero, o fare accordi per sostenerlo; ma soprattutto per rovesciarlo. Ai partiti nettamente delineati, si erano sostituiti i gruppi e gruppetti, e ogni uomo di Sinistra niente niente influente, aveva il proprio. Quello Cairoli era il più potente di tutti, e nelle sue mani stavano le sorti del Ministero. Per questo il Depretis non poteva governare senza l’appoggio di una maggioranza. I compromessi con i diversi gruppi si facevano per ottenere il voto su una data quistione, e gli alleati di ieri erano spesso avversari oggi. La nessuna forza del Governo, la sua nessuna stabilità, le frequenti crisi e la salita al potere di uomini atti a portar voti per il progetto di legge più urgente, e dai quali dopo bisognava staccarsi, ecco le conseguenze più evidenti della mancanza di partiti. La stampa di Roma, ligia agli uomini di sinistra, era una prova della confusione del partito. Il Bersagliere non aveva bandiera spiegata, il Diritto era rappresentante e interprete del gruppo Cairoli, e per questo ostile al Ministero; la Capitale lasciava in pace il Nicotera, ma combatteva il Depretis; la Riforma, ispirata dal Crispi, non era punto tenera per il 3° gabinetto Depretis e lo chiamava «un Ministero tollerato». Il Ministero dunque non aveva per sé altro che l’Avvenire, giornale di nessuna importanza, e il Popolo Romano, che in poco tempo, sapendo trar dalla sua la borghesia, occupandosi specialmente delle quistioni che la riguardavano, e sostenendole a spada tratta, aveva acquistato autorità.
Si fecero allora tentativi per la ricostituzione dei partiti. Il Sella riprese la presidenza della Opposizione costituzionale di S. M. e vi furono trattative fra il Crispi e il Depretis, e fra il Baccarini, come mandatario del gruppo Cairoli, col presidente del Consiglio. Neppure il Nicotera rimase estraneo a quei tentativi di accordo. Ma le trattative fallirono per le pretese soprattutto del gruppo Cairoli, che chiedeva tre portafogli e quattro segretariati generali.
Il Ministero, barcamenandosi alla meglio, tirò avanti fra mille difficoltà, che gli venivano soprattutto dall’agitarsi delle società per l’Italia Irredenta, dai Circoli Repubblicani e Internazionali cresciuti a dismisura negli ultimi tempi. A quelli Barsanti, che già dimostravano dal nome i loro intendimenti, si aggiunsero anche quelli Passanante.
Il Governo ebbe un primo voto di fiducia il 28 marzo sull’ordine del giorno Cairoli rispetto al macinato, che la sinistra voleva vedere abolito. Il Depretis aveva dichiarato che non voleva ne macinato, nè disavanzo; dunque nuove imposte.
Il 1° aprile venne alla Camera l’interpellanza Cavallotti sullo scioglimento della Fratellanza repubblicana di Milano. Il Depretis riportò una vera vittoria perché in quella quistione non aveva contro nessun altro che l’estrema sinistra.
S’impegnò quindi la lotta sulle costruzioni ferroviarie, che durò eternamente, perchè ad ogni linea erano legati interessi rappresentati da piccoli e grossi gruppi, che creavano nuove scissure nel campo della Sinistra. Intanto nelle sedute antimeridiane si discutevano altre leggi, come quella del sussidio a Firenze, il cui municipio stava per fallire. La legge fu votata mercè l’aiuto di molti. Garibaldi aveva scritto una lettera ai colleghi della Camera raccomandandone l’approvazione, il Peruzzi aveva dimostrato in quali acque navigava il comune, il Martini aveva fatto notare con quale pazienza Firenze aspettava, e il Minghetti e il Cairoli si erano trovati concordi nel riconoscere i diritti di Firenze. Con tutto questo il secondo articolo sul rimborso per le spese della occupazione austriaca fatte dal Governo toscano con i denari del Comune, non sarebbe stato approvato se non si fosse alzato il barone Ricasoli e non avesse rammentato che nel 1859, quando assunse il governo della Toscana erano nelle casse dello Stato i denari per pagare il Comune, ed egli se ne servì per mandare soldati alla frontiera.
Appena votato il sussidio a Firenze, gli uffici della Camera si occuparono del concorso per Roma, concordato fra il presidente del Consiglio e il sindaco nelle frequenti sedute che tennero insieme. Il progetto era questo:
Art. 1. — È autorizzato il concorso dello Stato, per una somma di 50 milioni di lire, alle spese da sostenersi dal Comune di Roma per l’attuazione del piano edilizio regolatore e di ampliamento della capitale del Regno.
Art. 2. — Il piano regolatore edilizio e di ampliamento della città di Roma sarà sottoposto all’approvazione governativa, a norma della legge 25 giugno 1863, n. 2359, non più tardi del 31 dicembre 1879.
Art. 3. — Previi i necessari accordi colle rispettive amministrazioni governative, dovranno in quel piano essere segnate le aree per le seguenti opere pubbliche, da costruirsi dal comune di Roma:
- 1. Il palazzo di Giustizia;
2. Il palazzo dell’Accademia delle scienze e dei Musei;
3. Il policlinico;
4. I quartieri per l’alloggiamento di due reggimenti di fanteria, di un reggimento di cavalleria, di un reggimento d’artiglieria;
- 5. Un ospedale militare della capacità di 1000 letti;
- 6. Una piazza d’armi.
Art. 4. — Nel piano stesso saranno progettati almeno due nuovi ponti sul Tevere coordinati al piano regolatore ed alle grandi vie da aprirsi lungo le rive del fiume, il palazzo per le esposizioni di Belle Arti, i magazzini generali di deposito ed i pubblici mercati.
Art. 5. – I piani di esecuzione degli edifizi, di cui all’art. 3, saranno compilati a cura del comune di Roma, entro l’anno 1880, sopra progetti di massima, che gli saranno stati comunicati dalle rispettive amministrazioni governative.
Entro lo stesso termine saranno dal comune allestiti i progetti definitivi dei ponti sul Tevere, del palazzo delle esposizioni di Belle Arti, dei mercati, dei depositi generali.
Si gli uni che gli altri dovranno essere approvati dal Governo, colle norme prescritte dalle leggi.
Art. 6. — Udita la rappresentanza comunale, saranno con decreti reali fissati i termini entro i quali dovranno compiersi gli edifici e le opere di cui all’art. 3 e 4.
Art. 7. — È concessa al comune di Roma la facoltà di derivare dall’Aniene, presso Tivoli 3 metri cubi d’acqua al più, ad oggetto di creare in Roma o nelle sue adiacenze una considerevole forza motrice per usi industriali.
Il progetto di questa deliberazione dovrà essere allestito e sottoposto all’approvazione governativa a norma di legge, entro l’anno 1881.
Art. 8. — Una parte della forza motrice, di cui all’articolo precedente, sarà ceduta in assoluta proprietà allo Stato, nella misura che sarà riconosciuta necessaria per gli opifici militari, che si istituissero in Roma.
Art. 9. — La somma di 50 milioni di lire del concorso governativo sarà stanziata nei bilanci dello Stato in ragione di 2 milioni l’anno nel ventennio dal 1881 al 1900 inclusivamente, e di un milione l’anno nel decennio dal 1901 al 1910 inclusivamente.
Art. 10 — Qualora per affrettare l’esecuzione delle opere contemplate nella presente legge, il comune di Roma deliberi di procurarsi i fondi necessari mediante una operazione di credito, il Governo è autorizzato a garantire questo prestito nei limiti degli stanziamenti fissati nel precedente articolo.
Art. 11. — Le aree e le proprietà demaniali sulle quali dovessero erigersi gli edifici di cui agli art. 3 e 4, saranno dal comune occupate senza alcun compenso allo Stato, insieme con gli edifici pubblicati nell’art. 3, le aree e le proprietà comunali, che fossero state per la loro costruzione occupate.
Art. 12. — Quando siano ultimati e collaudati il palazzo di giustizia ed il nuovo ospedale militare, saranno ceduti in piena proprietà del comune di Roma l’attuale ospedale militare di S. Antonio e l’ex-convento dei Filippini, ora occupato dai tribunali.
Dopo l’ultimazione dei quartieri militari, di cui all’art. 3, il Governo è autorizzato a cedere in proprietà al comune stesso il quartiere di Magnanapoli, tostochè dal ministero della guerra sarà riconosciuto non più necessario per il servizio militare.
Art. 13. — Ai nuovi fabbricati, che saranno stabiliti entro il perimetro stabilito dal piano regolatore edilizio e di ampliamento della città di Roma, è accordata l’esenzione temporaria dalla imposta diretta e dalle relative sovrimposte per una durata non maggiore di 20 e non minore di 11 anni, dovendo però in ogni caso cessare l’esenzione coll’anno 1910.
Un decreto reale, da emanarsi entro un anno dalla promulgazione della presente legge, determinerà la durata dell’esenzione applicabile alle aree fabbricabili, comprese nei singoli perimetri, che saranno dal decreto stesso graficamente designati.
Art. 14. — Le opere da eseguirsi dal comune di Roma, in esecuzione della presente legge, sono dichiarate di pubblica utilità, e per la loro esecuzione rimangono fermi i concorsi a carico della provincia, che sono stati deliberati dal Consiglio provinciale o che siano per legge dovuti da altri comuni.
Il concorso per Roma non venne in discussione prima delle ferie estive perchè la Camera si trattenne lungamente ad esaminare il progetto di legge sulle costruzioni ferroviarie, che pur votò, e quello sul macinato approvato pure e respinto dal Senato con molte modificazioni, e che portò alla caduta del Ministero Depretis. Per quel giochetto d’altalena, che era il risultato della mancanza di unione nel partito, salì di nuovo al Governo l’on. Cairoli, che si riserbò nel nuovo Gabinetto la presidenza e gli esteri. Il Villa ebbe l’interno, il Varè la grazia e la giustizia e il Baccarini i lavori pubblici, il senatore Perez l’istruzione pubblica, il generale Bonelli la guerra con l’interim della marina, e Bernardino Grimaldi, che era allora un uomo nuovo al Governo, le finanze.
La Camera si riunì il 17 luglio e il Cairoli nel presentare il nuovo ministero espresse la fiducia che il dissidio fra il Senato e la Camera potesse appianarsi, perchè i due rami del Parlamento volevano ambedue l’abolizione del macinato, e non vi era discordia altro che sull’applicazione.
Dal discorso del Cairoli si capì che egli aveva voluto rovesciare il Gabinetto precedente senza avere poi un programma finanziario diverso da quello del Depretis nella sostanza, e da ciò se ne argui male per la vita del Ministero.
Subito si riprese la discussione sul macinato e furono approvati alcuni articoli del progetto emendati dal Senato e la tassa sul grano che doveva essere abolita nel 1884. Fino dal 1879 il granturco, l’orzo, la segala e l’avena erano esenti dalla tassa sul macinato.
Le nuove tasse sugli alcools, sugli zuccheri e altre ancora non colmavano il vuoto del macinato. Il Sella aveva detto che l’abolizione di quella tassa era un salto nel buio, e i ministri delle finanze che sono venuti dopo se ne sono accorti.
La Camera tenne sedute fino al 23 di luglio per votare i bilanci, ma non si occupò nè del riscatto delle Ferrovie Romane, nè del disegno di legge per il concorso a Roma, che doveva dormire lungamente. Era stato riconosciuto difettoso negli uffici appena preso in esame, e nella città stessa si diceva fosse redatto per modo da far costruire tutti gli edifizii di cui abbisognava il Governo, senza dare alla città utile vero.
Intanto ogni lavoro d’iniziativa municipale restava sospeso da quel disegno di concorso e i lavoranti ne risentivano. Dal 1870 al 1878 erano stati spesi a Roma circa 80 milioni in lavori edilizi e moltissimi operai, attratti dalla prospettiva di guadagnar meglio che nei loro paesi, si erano riversati su Roma. Invece i tanto strombazzati lavori del Tevere andavano così lentamente che non erano state spese altro che 900 lire. Da ciò un gran disagio nelle classi lavoratrici e continue angustie dell’on. Ruspoli, il quale avendo concluso un accordo col Depretis fin da principio che salì al potere, vide ritardata la presentazione del disegno di concorso per la poca stabilità del Ministero, poi lo vide accogliere piuttosto male alla Camera, e finalmente, caduto il Depretis, dovè riprendere le trattative ab ovo col successore di lui, con una perdita di tempo di sette mesi.
Non starò a dire tutte le fasi per le quali passò il Concorso Governativo; basti sapere che alla fine del 1879 non era ancora votato, e la Giunta dovè preparare il bilancio con la solita incertezza di un anno prima.
Si dice che a Roma tutto diventi eterno, ed eterne divenivano tutte le quistioni quando in cominciavano ad andare da Erode a Pilato.
È un fatto che la nessuna stabilità del Gabinetto era una delle ragioni, se non la principale, delle lungaggini, dell’incaglio dei lavori e anche di quella miseria che la carità non riusciva a lenire.
Alcuni lavori d’iniziativa privata per altro si facevano. Il signor Costanzi, proprietario dell’albergo di quel nome, faceva costruire fra la via Torino e la via Firenze un grandioso teatro sui piani dello Sfondrini di Milano. Il signor Wedekind, facoltoso banchiere tedesco, aveva acquistato l’antico palazzo della Posta in piazza Colonna e sui piani dell’architetto Gargiolli ricostruivalo. Ora sarebbe già una rovina se non vi lavorassero da due anni, ma in quel tempo i muri non mostravano ancora i difetti di costruzione che hanno mostrato dipoi, e quel palazzo migliorava molto la piazza Colonna. Anche la Camera di Commercio volle preparare un locale per riunirvi la sala della Borsa e i proprii uffici, e fece ricostruire in piazza di Pietra la vecchia Dogana. Si trattava di conservare all’antico monumento il carattere primitivo, perchè l’imponente colonnato faceva parte un tempo delle Terme di Antonino, e di adattarlo a un uso moderno. L’architetto Vespignani fece il piano di quel palazzo e il 14 marzo fu posta la prima pietra del nuovo edifizio, nel quale si sono poi riuniti gli agenti di cambio e i borsisti, invece di continuare, come in passato, a far le contrattazioni in piazza Colonna.
Anche il ponte di Ripetta fu inaugurato per la festa del Re. Era stato costruito nella officina Cottrau a Napoli per cura di una società straniera di cui era rappresentante e direttore il conte Cahen d’Anvers, uomo ricco e amantissimo d’arte, il quale si adoperò molto per l’incremento del quartiere dei Prati di Castello.
L’inaugurazione si fece con una certa pompa e quel ponte fu un’opera veramente utile e dette sviluppo alla costruzione di un quartiere, che, senza di esso, non sarebbe mai sorto. Appena era stato messo mano ai lavori del ponte era incominciata, pure in Prati, la costruzione del Politeama Reale, e alcuni signori avevano gettate le fondamenta di villini e palazzi. I primi a costruire nel nuovo quartiere furono i due fratelli Odescalchi, poi il conte Cahen e il conte di Coello. L’inaugurazione del ponte aveva resa necessaria la costruzione della via Reale. I Prati di Castello, che erano una landa abbandonata, mercè il ponte di Ripetta furono nei giorni festivi, visitati da migliaia e migliaia di romani. Era un divertimento per loro di passeggiare in quella parte sconosciuta della città, e l’affluenza dei visitatori vi fece subito sorgere osterie e trattorie. Negli altri giorni le signore, che facevano la trottata sulla via Flaminia, tornavano in città per la via Angelica e il nuovo ponte. Il Re faceva sempre quel giro, e anche la Regina soleva attraversare i Prati per entrare in città. Si pagava il pedaggio e all’estremità del ponte vi era un posto di doganieri, perchè da quel lato la sponda del Tevere segnava la cinta daziaria di Roma. Toto Bigi, il famoso barcaiuolo che faceva transitare con la sua barca il Tevere ai Romani, non perdè nulla col nuovo ponte. Egli fu nominato primo ricevitore del pedaggio, e vestito con la nuova ed elegante divisa prese possesso del casotto; e divenne un oggetto di curiosità per i passanti.
All’iniziativa privata si doveva pure il grande Albergo Continentale in piazza della stazione, che fu terminato avanti che spirasse l’anno.
Per il 14 marzo il Re ebbe molti attestati di devozione e d’affetto. Le rappresentanze di circa 300 società operaie guidate dal senatore Pepoli, dall’avvocato Ferdinando Berti, dal conte Procolo Isolani, dal professor Luigi d’Apel, dal cav. Vincenzo Lodi, dal cav. Pietro Savioli e dai signori Giuseppe Cuccoli, Raffaele Bozzoni, Silvio Minghetti, Ugo Amorini ed Enrico Zironi, gli presentarono un album contenente più di 100,000 firme di congratulazione per essere scampato all’attentato, e di devozione. L’album era squisitamente ornato d’intagli, e il Re gradi moltissimo il gentile pensiero e parlo con affetto agli operai. La Regina, che assisteva al ricevimento, s’intrattenne pure con gli operai informandosi con premura delle loro condizioni ed encomiando quelli che dicevano di volersi inalzare con lo studio.
Ai primi d’aprile di quell’anno Garibaldi giunse quasi improvvisamente a Roma e andò ad abitare in via Vittoria. Tre giorni prima d’arrivar qui era a Caprera con Menotti e con Achille Fazzari. A un tratto accennò il proposito di partire subito, e senza ascoltare le rimostranze del figlio e dell’amico, che temevano per lui il disagio del viaggio, chiese telegraficamente un vapore a Rubattino. Ebbe la «Sardegna», che giunse a Caprera con un tempo da far paura. Garibaldi si fece portare a bordo sotto una pioggia dirotta e volle partire senza indugio. Egli prese il comando del bastimento, che dovette lottare con la burrasca per giungere sul continente. La mattina dopo il Generale era a Civitavecchia, e poche ore più tardi a Roma. Tutti ignoravano quale fosse lo scopo di questo viaggio improvviso, ma presto si conobbe.
Il Re mandò subito da Garibaldi il general Medici e due giorni dopo vi andò egli pure e si trattenne lungamente da solo col generale, il quale andò pochi giorni dopo a restituirgli la visita. Il Re, per non farlo scendere dalla carrozza, perchè i dolori lo tormentavano più che mai, scese in giardino, salì nella carrozza di Garibaldi e conversò con lui amichevolmente.
Questo scambio di visite meravigliò non poco, perchè si era letta recentemente sui giornali una lettera di Garibaldi a Pais, che diceva:
- «Mio caro Pais,
Quando il Re avrà fatto prospera l’Italia, egli meriterà la gratitudine nostra; quindi avete fatto bene.
«Vostro |
Va notato che il Pais non era voluto andare con la Società dei Reduci incontro al Re, al suo ingresso a Bologna, e di questa astensione informava il Generale.
Ma la meraviglia per le visite cordiali scambiate fra il Re Umberto e Garibaldi doveva crescere ancora.
Per il 21 aprile Garibaldi aveva indetta delle sale della «Associazione dei diritti dell’Uomo», una riunione democratica. Gl’inviti diramati erano 91; gl’invitati che si trovarono radunati il giorno indicato 70, fra i quali Alberto Mario, i deputati Avezzana, Campanella, Carducci, Cavallotti, Bertani, Bovio, Aporti, Mayr, Menotti Garibaldi; i signori Canzio, Pantano, Pais, Fabris, Alessandro Castellani, Valzania, Scifoni, Nathan, Parboni, Martinati, Imbriani ecc.
Appena entrato nella sala della riunione, il general Garibaldi pronunziò il seguente discorso:
- «Cari amici,
«Io vi ho chiamati per ordinare le sparse forze della democrazia repubblicana e parlamentare d’Italia a un’opera comune e a un fine comune.
« Epperò non dobbiamo occuparci di quelle cose nelle quali siamo discordi, sibbene di quelle nelle quali siamo unanimi.
« Io credo che siamo tutti d’accordo nel riconoscere il profondo malcontento di tutta Italia, malcontento per cause economiche, politiche e morali.
«Credo che siamo tutti d’accordo che, per toglierlo, tutti gl’interessi debbono esser rappresentati nel governo della cosa pubblica: nel volere pertanto il voto universale e l’abolizione del giuramento politico, acciocchè tutte le opinioni abbiano una voce in Parlamento;
«nel voler soppresse le guarentigie, tolto il culto ufficiale, e indivisa la sovranità dello Stato; «assicurate tutte le libertà come diritti inconcussi;
«rimaneggiato il sistema tributario, a ciò che paghi solamente e progressivamente chi ha;
«rotta la centralizzazione e avviato un sistema di centrale decentramento;
«armata la nazione, per essere in grado di liberare le provincie irredente;
«arati e bonificati i due quinti del territorio italiano incolto o paludoso, fecondandolo con i 115 milioni dei beni ecclesiastici invenduti;
«utilizzati a pro dei poveri i 2 miliardi delle Opere Pie, godute in parte dagli amministratori, dai frati e dalle oblate;
«guarita con tutti i rimedi che ispira l’affetto e suggerisce la scienza, la gran piaga della miseria;
«proporzionata l’autorità del potere legislativo e dell’esecutivo.
«E per ottenere questi risultati è necessario rivedere lo Statuto, insufficiente e inferiore ai nuovi bisogni della patria, a ciò che ella si regga, non con una carta largita trent’anni addietro a una sola provincia, ma posi e stia sovra un patto nazionale.
«A me pare che queste siano le principali idee sulle quali non corre divario fra noi.
«Principiamo col far trionfare quella che le contiene tutte e dalla quale tutte deriveranno: il suffragio universale e l’abolizione del giuramento.
«Perciò propongo il seguente ordine del giorno:
«L’assemblea delibera di determinare come oggetto del lavoro in comane della democrazia repubblicana e parlamentare, l’agitazione con la stampa e con i comizi popolari, per il suffragio universale e l’abolizione del giuramento politico, avendo in animo che alla patria possa venir fatto di stabilirsi e rassodarsi con un patto nazionale, e nomina un comitato di persone la cui sede centrale è in Roma, incaricato di eseguire la presente deliberazione».
Su quest’ordine del giorno si aprì la discussione e parlarono Garibaldi, Mario, Campanella, Verzania, Bertani e Cavallotti. L’ordine del giorno fu poi votato all’unanimità, meno sette astensioni. Fu pure votato un indirizzo proposto da Alberto Mario agli scenziati raccolti a festeggiare il 50° anniversario della fondazione dell’Istituto Archeologico tedesco, e dietro proposta di Matteo Renato Imbriani fu inviato un saluto ai fratelli irredenti.
Dopo questa assemblea il general Garibaldi rivolse il seguente manifesto agli Italiani:
{{smaller block|style=font-size:90%| «Il fascio della democrazia è formato:
«Mi giova che questo fatto importante, lungamente desiderato e studiato, siasi compiuto sotto gli occhi miei, il 21 aprile.
«Cospicui patriotti di ogni classe, nobili ingegni - decoro del nostro paese - i quali s’illustrarono nel preparare e nel comporre ad unità di nazione l’Italia dal 1821 in poi, militano nel campo della democrazia, e vi milita la gioventù generosa.
«E come alla democrazia riuscirà fatto di spandere la sua influenza con l’agitazione che essa verrà promuovendo per la rivendicazione e l’esercizio effettivo della sovranità nazionale, per il men aspro vivere dei diseredati della fortuna, per la giustizia sociale, per la libertà inviolabile, una moltitudine di cittadini egregi, che assistono sfiduciati e increduli al governo delle minorità, le quali si succedettero e si esaurirono entro venti anni, s’aggiungerà certamente e rapidamente alle sue schiere.
«Oggimai la democrazia è un valore di primo ordine fra i valori costituenti la nazione, è una potenza con cui quelle minorità, di buon grado o di mala voglia, hanno a fare i conti. Le sue varie scuole si sono collegate in un ordine di idee e di fini comuni, e convennero nell’adozione dello stesso metodo di apostolato, e degli stessi mezzi di agitazione, palesi e sinceri e dentro l’orbita giuridica - da cui la loro forza e fondarono la Lega della Democrazia.
«Il Comitato al quale fu affidato l’alto ufficio si compone dei nomi che già furono pubblicati.
«Questo comitato nominò nel suo seno una Commissione esecutiva residente in Roma.
«Il congresso del 21 aprile, non ha solo celebrato una lega politica, ma dissipati malintesi, rinnovellate o strette amicizie.
«Ogni scuola della democrazia serba la individualità propria nello svolgimento e nella propaganda delle rispettive dottrine, ed a ognuna appartiene l’arbitrio delle inerenti iniziative, ma ognuna altresì ne risponde. Pur sono sicuro che tutte, animate da un elevato sentimento di carità di patria e guidate da quella sapienza civile, che anche le altre genti riconoscono negli Italiani, vorranno coordinare la loro opera particolare e specifica, e contemperarla a quella generale del Comitato della Lega.
«E poichè la Lega della Democrazia si assunse di circoscrivere il proprio lavoro entro i termini del diritto e dei mezzi pacifici, avverta chi governa l’Italia che, ove tale diritto sia contrastato o impedito o in qualsivoglia modo manomesso, la responsabilità al cospetto della nazione e della storia sarà tutta sua, se, per la tutela e la riconquista di quel diritto, la Lega della Democrazia, con la coscienza della legittima difesa, si appiglierà ad altri mezzi da quelli che si è prefissi. Roma, 26 Aprile 1879.
«G. Garibaldi».
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Come appare chiaro, il desiderio di costituire la «Lega della democrazia» aveva condotto il Generale a Roma; ma appena compiuto questo atto, che s’era imposto come un dovere, provo di nuovo il desiderio della solitudine. Garibaldi in quel tempo faceva pietà davvero. Soltanto gli occhi conservavano lo sguardo carezzevole ed energico, che pareva rivelasse la sua doppia natura di angiolo e di demone, attribuitagli dalla leggenda; ma il corpo era quello di un infermo. Intirizzite le gambe, curva la persona, emaciato il volto e rattrappite per modo le mani che appena poteva portarsi la destra al berretto per far cenno di salutare, egli non era più che l’ombra del baldo guerriero del 1848 e del 1860.
Alla fine d’aprile il generale parti per Albano, ma prima volle donare al Municipio il magnifico scudo offertogli da Francesco Crispi a nome dei Siciliani. Il Sindaco andò a ringraziarlo, e lo scudo fu collocato nei Musei Capitolini.
Ad Albano il generale abitava la bella villa Le Lieure, con gli alberi folti che la circondano dal lato della strada e sul di dietro il vasto orizzonte che le si apre davanti fino al mare. Là faceva vita ritirata in mezzo ai suoi bimbi, Clelia e Manlio, attendendo con impazienza che fosse sciolto il suo matrimonio con la marchesa Raimondi, per dare a quelle due creature il suo nome. Egli sentiva prossima la fine e le lungaggini del processo lo amareggiavano.
In luglio andò ai bagni a Civitavecchia, ma non gli recarono quel giovamento che ne sperava, anzi i dolori si acuirono, ed egli volle tornare a Caprera.
Il Re e la Regina si dedicarono in quell’anno a differenti occupazioni, egualmente utili. Umberto I studiava assiduamente gli atti del Parlamento italiano, fino dalla sua costituzione, per cercare nel passato ammaestramenti per l’avvenire, e intanto dava ordine all’amministrazione della lista civile, che aveva trovata, al suo salire al trono, in stato deplorevole. Il Re aveva in orrore le passività e voleva che fossero estinte con la maggior sollecitudine, in onore alla memoria del padre, senza per questo che la Corte dovesse rinunziare al fasto di cui intendeva fosse circondata. L’impresa non era facile, perché le passività erano molte, innumerevoli gli abusi e grandissimo il numero degli impiegati inutili.
Egli si diede ad esaminare da sé ogni cosa, introdusse saggie economie, migliorò i possessi che erano d’onere più che di vantaggio all’amministrazione, mise in ritiro molti impiegati inutili e che non si sarebbero assuefatti a un regime più razionale e più severo, ed ebbe la soddisfazione di vedere in breve l’ordine sostituito al disordine. Il nipote di Urbano Rattazzi, Urbanino, come era chiamato il giovane avvocato, figlio del commendator Giacomo, gli fu in questo intricato e difficile lavoro di grande aiuto, e il Re per questo gli ha serbato grande riconoscenza.
La Regina si era imposta altri compiti. Ella visitava gli ospedali e le scuole e a questa pia occupazione ne univa un’altra più grave e più intimamente cara: quella dell’educazione del figlio. Ella si era prefissa di farne un uomo colto e modernamente educato. Il giovane Vittorio Emanuele toccava i dieci anni, già il Re di Spagna gli aveva inviato il Toson d’Oro, che gli fu consegnato dal conte di Coello, e occorreva toglierlo dalle mani delle governanti e prepararlo a studi più seri. Da quelle istitutrici aveva imparato il francese, l’inglese ed il tedesco ed aveva ricevuto l’insegnamento elementare; doveva cominciare per il giovane Principe un secondo periodo d’istruzione più seria. La Regina gli mise a fianco il prof. Cesare Mariani, uomo colto e buon pedagogo, per l’insegnamento dell’italiano; da altri professori fecelo iniziare alle scienze ed ella stessa si addossò il resto dell’istruzione del figlio. Lo conduceva sempre seco, ne apriva l’intelligenza ponendogli sott’occhio oggetti artistici, facendogli visitare musei, e ne destava la curiosità con letture bene scelte. Frattanto ne educava il gusto per la musica col condurlo al teatro e col volere che assistesse alle piccole feste musicali al Quirinale. Queste erano frequenti e riuscivano belle. La Regina prendeva lezioni di canto dal maestro Vera, e con lei cantavano donna Laura Minghetti, che aveva una bella voce di contralto, e il marchese Villamarina di Montereno, che cantava di basso. Talvolta Margherita di Savoia invitava anche qualche cantante celebre e qualche maestro. Una volta furono invitati Stagno, che cantava all’Apollo, e il Marchetti. La Regina cantò col celebre tenore il duo del Faust e alcune romanze del Tosti.
La previdente madre assuefaceva anche il Principe al vivere sociale, riunendo ogni domenica intorno a lui molti fanciulli della sua età, e il Principe doveva far loro gli onori di casa, dirigere i giuochi e offrire i rinfreschi. I piccoli amici che solevano andare al Quirinale erano molti, e la più schietta giocondità presiedeva a quelle riunioni infantili, nelle quali Vittorio Emanuele dava prova di avere gli stessi gusti del nonno in fatto di cibi, perché sdegnava i dolci e i gelati e diceva di preferir di molto a quelle ghiottonerie una fetta di salame e un pezzo di cacio, che mangiava di nascosto.
Gli amici del Principino erano i Teano, i due de la Penne, i due de Renzis, Umberto Pallavicini, Umberto Cesarini, le due Francesetti, e i Villamarina. All’educazione civile del Principe la Regina provvedeva facendolo assistere ai ricevimenti delle diverse deputazioni, e specialmente di quelle operaie, che esponevano al Re i loro desiderii, i loro bisogni, e gli dimostravano il loro affetto.
Nella primavera di quell’anno morirono due uomini che avevano avuto grande notorietà, uno fu il prof. Paolo Volpicelli, insigne scienziato, che aveva fatto adesione ai vecchi cattolici firmando l’indirizzo dei suoi colleghi al canonico Doellinger. Prima di morire ritornò in grembo alla Chiesa Cattolica, sconfessando le dottrine propugnate. Il Checcatelli fu l’altro insigne uomo che spari, ma senza rinnegare la sua fede liberale. Ebbe un trasporto soltanto civile e largo rimpianto fra gli amici, i quali dopo gli eressero un monumento al Campo Verano.
Come ho detto, si mormorava in Vaticano contro il Papa perchè non nominava cardinali, e si diceva che Leone XIII si astenesse dal dar la porpora a nuovi prelati, perchè alla porpora va unito il piatto, cioè la dotazione. Ai vescovi che non avevano chiesto l’exequatur aveva tolto anche il sussidio, aveva venduto l’«Immacolata Concezione», la corvetta di Pio IX, per non mantenere l’equipaggio, del quale aveva riso quando era andato a presentargli gli omaggi, facendosi annunziare come la marina pontificia. Ma i cardinali morivano e bisognava provvedere. Ne erano morti otto nell’anno precedente e nell’inverno e nella primavera del 1879 morirono il cardinal Berardi, l’Antonucci e il cardinal Guidi, uno degli oppositori del dogma dell’Infallibilità, e il cardinal Morichini, vescovo di Albano, che risiedeva al palazzo Moroni in Borgo Vecchio.
Occorreva dunque provvedere, e nel Concistoro del 13 maggio Leone XIII finalmente, creò diversi cardinali.
I nuovi porporati furono: monsignor Langravio di Furstemberg, arcivescovo di Olmutz, monsignor Floreano Desprez, arcivescovo di Tolosa, monsignor Lodovico Haynald, arcivescovo di Calveza e Boes, monsignor Pie, vescovo di Poitiers, monsignor Ferreira dos Santos Sievo, vescovo d’Oporto, monsignor Alimonda, vescovo d’Albegna, monsignor Giuseppe Pecci, vice bibliotecario di Santa Romana Chiesa, monsignor Hergenroether, prelato domestico di Sua Santità, il padre Newman, prete della Congregazione dell’Oratorio di Londra, il padre Zigliara, consultore delle Sacre Congregazioni dell’Indice.
Il Hergenroether era stato uno dei fautori della conciliazione del Papato con la Germania. Le trattative di quella conciliazione erano state condotte dal nunzio in Baviera, monsignor Aloisi-Masella. Dunque la nomina di lui aveva un carattere politico; il Pecci, fratello del Papa, era un dottissimo teologo e grande propugnatore delle dottrine tomistiche, così vivamente appoggiate dopo dal Papa.
Leone XIII nella ricorrenza della festa di San Pietro, scese per la prima volta nella Basilica Vaticana e andò a pregare sulla tomba degli Apostoli, come poi ha fatto sempre. Ma le porte della Basilica erano chiuse. Peraltro quel fatto destò negli intransigenti una certa apprensione.
I lavori del Tevere andavano a passo di lumaca; essi recavano peraltro grandi vantaggi alla scienza archeologica e all’arte. Le draghe portavano su monete, statue, oggetti diversi; molti preziosissimi. In prossimità del palazzo della Farnesina, fu rinvenuta in quell’anno, la stupenda casa romana, ricca di stucchi e di affreschi, che sono ora il più bell’ornamento del Museo delle Terme Diocleziane. Essi furono collocati provvisoriamente all’orto botanico alla Lungara, ma si riconobbe la necessità di creare un museo per raccogliervi tutto quello che si trovava negli scavi della città e nell’alveo del fiume.
Nel giugno di quell’anno fu inaugurato il tram a vapore fra Roma e Tivoli, costruito dall’ingegner Desiderio Baccelli per conto della stessa Società Belga che aveva costruito quello a cavalli fino a Ponte Molle. L’inaugurazione si fece con pompa e v’intervennero il Lacava, i deputati romani, Baccelli e Ratti, il deputato di Tivoli, Pericoli; monsignor Grassi, coadiutore dell’arcivescovo di Tivoli, andò a benedire la locomotiva con lungo seguito di preti. La stazione del tram era a San Lorenzo, e incomodi i mezzi di trasporto, benchè per andarvi fosse stata creata una linea d’omnibus che faceva capo a via de’ Funari. Incominciarono allora gli studi per mettere il tram a cavalli dalla stazione di Termini fino a San Lorenzo.
Il municipio, nell’incertezza del Concorso governativo, faceva quello che poteva. Aveva creato nuove scuole e provveduto di locali più salubri quelle già esistenti, ne aveva istituite dodici nel S. E. IL CAV. CRISPI suburbio, cioè alle porte Pia, Salara, San Giovanni, San Lorenzo, San Sebastiano, San Paolo, Cuvalleggeri, Angelica e Maggiore; alcune rurali all’Isola Farnese, a Conca, a San Vittorino, a Castel Porziano, a Castel de Guidi, a Fiumicino, a Torrempietra, a Palo, a Maccarese e a Prima Porta; aveva comprato dallo Spithöver la vigna sulla via Venti Settembre per allargare la strada davanti al ministero delle Finanze, aveva concluso un contratto col principe Torlonia per l’allargamento di via delle Convertite, e aveva decretato la sala per l’esposizione dei cadaveri, non dov’è adesso, ma dietro al Colosseo, e aveva estesa nel quartiere dei Prati l’illuminazione a gas.
Il Governo dal canto suo aveva inaugurato il Museo Agrario nel palazzo delle Finanze, aspettando che fossero pronti i locali nel convento di M. della Vittoria, sulla via Santa Susanna, museo ricco di collezioni forestali, che il ministero d’Agricoltura, per cura del comm. Miraglia e del cav. Siemoni aveva già esposto a Vienna, dove gli avevano procurato la onorificenza maggiore. Inoltre dopo la morte del padre Secchi aveva preso possesso dell’Osservatorio del Collegio Romano, che affidò al professor Tacchini. Quell’Osservatorio era rimasto sotto la direzione del padre Ferrari, erede della proprietà privata del padre Secchi, e non volle cederlo al Governo con le buone. Egli dovette esser cacciato dalle guardie.
Del monumento a Vittorio Emanuele e della costruzione del palazzo di Giustizia, occupavasi pure il Governo. Per il primo aveva nominato una commissione di cui era presidente il senatore Giorgini e segretario l’on. Martini. La commissione voleva che il monumento sorgesse all’Esedra di Termini e consistesse in un grande arco trionfale. Compilò un progetto e il Depretis lo presentò alla Camera; del secondo si occuparono tutti i ministri di Grazia e Giustizia riconoscendo gl’incovenienti che nascevano dall’essere i tribunali distribuiti nella città.
Le elezioni amministrative anche quell’anno riuscirono favorevoli ai clericali; la disunione fra i giornali di destra e di sinistra faceva trionfar sempre i candidati del partito opposto.
Prima che il Re lasciasse Roma per Monza, venne qua il principe Alessandro di Battemberg, che si recava in Bulgaria a prender possesso del suo nuovo Stato. Al Quirinale fu ricevuto cordialmente, ma l’ambasciata russa e quella germanica ebbero per lui singolari attenzioni. Abitava al palazzo Caffarelli come principe tedesco, ed il barone d’Uxküll gli dette un banchetto di gala. Era bello, alto, simpaticissimo, e in Roma desto grandi simpatie.
A Roma nell’estate vi fu un risveglio di vita letteraria. Ferdinando Martini, che si era già fatto un nome come autore drammatico e come scrittore arguto e brillante, fondò il Fanfulla della Domenica il cui primo numero si pubblicò il 27 agosto. Il Martini aveva trovato un editore dalle larghe vedute, il comm. Oblieght, che già possedeva il Fanfulla, la Libertà, il Bersagliere e altri giornali a Roma e nel resto d’Italia. I primi numeri fecero furore, e in breve il nuovo giornale divenne la lettura preferita di tutte le persone colte, e acquistò una grande autorità mercè il valore degli scrittori e l’intelligenza del direttore. Le Chiacchiere della Domenica, che vi stampava settimanalmente il Martini, erano gioielli di spigliatezza e di eleganza di forma. Il giornale faceva volentieri la polemica, rivedeva le bucce agli autori dei libri, che venivano fuori mano a mano, e aveva la furberia di non esser punto accademico. Trattava tutte le quistioni, meno quelle politiche, e in tutte portava una parola assennata. Accrebbe la sua diffusione il processo Fadda, che si dibatté alle Assise di Roma, ed ecco come. Sul banco degli accusati erano la moglie dell’infelice capitano ucciso dal Cardinali e un’altra donna, la Carrozza, imputata di essere stata la mediatrice fra la moglie e l’assassino. Una malsana curiosità spingeva nell’aula dell’Assise le donne di Roma per assistere al processo scandaloso e vederne gli attori, come le avrebbe spinte al teatro. Il Carducci scandalizzato da tanta curiosità, scrisse una poesia A proposito del processo Fadda, che stampò nel Fanfulla della Domenica, e fu avidamente letta. Riproduco qui quella poesia perchè oltre ad essere un gioiello letterario è la più bella critica che si potesse fare della crudele curiosità muliebre:
I.
Da i gradi alti del circo ammantellate |
II.
Voi sregolate, o belle, i pasticcini |
Poi, se un puttin di marmo avvien che mostri |
Inoltre le molte aderenze che aveva il Martini fra i letterati, fra gli uomini politici e nella società romana, facevano convenire negli uffici del suo giornale, che erano al 130 in Piazza Montecitorio, una quantità di gente, come già era avvenuto in quelli della Rassegna Settimanale, di cui era proprietario e direttore Sidney Sonnino. Alla Rassegna anzi, che aveva sede al pianterreno del palazzo Chigi, si riunivano nelle ore pomeridiane anche molte signore colte a prendere il thé, e a discutere di letteratura e di politica, insieme con gli amici del direttore, che erano quasi tutti deputati, come Leopoldo Franchetti, Giorgio Sonnino, Bonaventura Chigi ed altri.
Nell’autunno di quell’anno, tre punti di ritrovo dei romani, tre caffè sul Corso, dovettero chiudersi per ragioni diverse.
Il primo fu il Caffè d’Italia, situato sull’angolo del Corso in piazza San Lorenzo in Lucina, in seguito a cattivi affari. Il Caffè d’Italia aveva avuto la sua storia ed è bene rammentarla.
Prima del 1859 era il punto di ritrovo dei liberali romani e come tale considerato dalla polizia pontificia, era continuamente sorvegliato dai gendarmi. Il bollettino telegrafico che annunziava la memorabile vittoria di Magenta fu affisso, la sera stessa della battaglia, sulla porta del Caffè d’Italia, che in quel tempo non portava questo nome. I gendarmi pontificii, nel timore che quell’annunzio potesse dar pretesto ad una dimostrazione patriottica, s’avanzarono verso le porte del Caffè, e ne staccarono il telegramma. La popolazione cominciò a fischiare ed i gendarmi si ritiravano già col bottino, quando il capo tamburo del 40° reggimento d’infanteria di linea francese, si presentò al maresciallo dei gendarmi, gli strappò dalle mani il telegramma, dicendogli in buon italiano che egli non aveva alcun diritto di sequestrare un telegramma, che annunziava una vittoria dell’esercito francese ed italiano. Affisse di nuovo il telegramma sulla porta del Caffè tra gli applausi della popolazione, e costrinse i gendarmi a ritirarsi.
In seguito alle dimostrazioni del 1859 la polizia pontificia ordinò più volte la chiusura del Caffè di San Lorenzo in Lucina. Si riapri più volte ed ebbe un periodo felice nel quale potè fare ottimi affari.
Nel 1874 cominciò a deperire finchè una disgraziata combinazione, un suicidio avvenuto in una delle sue sale verso il tramonto, cioè durante l’ora del passeggio sul Corso, non contribuì ad allontanare dal Caffè d’Italia molti dei suoi più assidui clienti.
Il secondo Caffè che si chiuse fu quello di Venezia, che prima della demolizione della proprietà Torlonia si trovava sull’angolo della piazza di Venezia. Trasportato in seguito all’allargamento del Corso e della via San Romualdo nella proprietà Ciccognani, il Caffè Venezia non fece mai, nonostante i concerti musicali, la fortuna dei suoi proprietari. Poi passò in mano dei creditori dell’ultimo proprietario, i quali stabilirono di aprirlo in novembre.
L’ultimo caffè che si chiuse, almeno provvisoriamente, fu il Caffè Nazionale più volgarmente conosciuto sotto il titolo di Caffè delle Convertite, posto sull’angolo della via di questo nome ed il Corso.
Il Caffè Nazionale acquistato dal signor Aragno, ricco liquorista, prima si trasportò altrove, accanto al palazzo Chigi, e poi tornò nella sua antica sede sotto il palazzo Marignoli, ov’è adesso.
Altri due caffè rimanevano peraltro, quello di Roma e quello del Parlamento, quest’ultimo sull’angolo di via Cacciabove, dove si svolgeva allora tutta la vita politica di Roma. Si riusciva sempre difficilmente ad ottenere un tavolino, e dopo le sedute parlamentari, e la sera fino ad ora tarda, il caffè era sempre affollato di gente.
Anche il Valletto, il teatro che aveva fatta la delizia dei bimbi e del popolino, e sul quale si rappresentavano le truci scene del brigantaggio e gli amori maneschi dei burattini, era stato sacrificato dal marchese Capranica, che aveva bisogno d’ingrandire il suo palazzo. Roma perdeva ogni giorno qualche tratto caratteristico della sua fisonomia, per prenderne altri meno attraenti forse per gli artisti, ma più conformi all’aspetto che si richiede a una città civile.
Il Papa aveva preso l’abbrivo nel creare cardinali; oltre a quelli che ho citato, altri ne creo in agosto, e furono: monsignor Jacobini, nunzio a Vienna, monsignor Meglia, nunzio a Parigi, monsignor Cattani, nunzio a Madrid, monsignor Sanguigni, nunzio a Lisbona. L’Jacobini rimase a Vienna; nella nunziatura di Parigi fu mandato monsignor Czastky; a quella di Madrid monsignor Bianchi; a Lisbona l’Aloisi-Masella. Al posto di lui a Monaco venne nominato monsignor Roncetti; nel concistoro nel quale creò cardinali i sullodati, il Papa pronunziò la notevole enciclica prescrivente le dottrine di San Tomaso d’Aquino.
Il Re tornò a Roma dopo la metà di novembre per la riapertura della Camera; la Regina accompagnò. Ella aveva avuto una grave ricaduta a Monza e i medici le avevano consigliato l’aria e la quiete di Bordighera.
Il gabinetto Cairoli, che aveva governato senza Camera, era dimissionario. Furono tentati accordi col Depretis per farlo entrare nel Ministero e riuscirono. Il 23 novembre il nuovo Gabinetto si presentava al Parlamento così composto: Cairoli, esteri; Depretis, interno: Magliani, finanze; Villa, grazia e giustizia; Baccarini, lavori pubblici; Ferdinando Acton, marina; Bonelli, guerra; Miceli, agricoltura. Al portafoglio della pubblica istruzione non fu provveduto subito.
Il Cairoli, nelle sue prime dichiarazioni al Parlamento, disse che il Governo avrebbe mantenuto il pareggio, anche abolendo la tassa sul macinato sui grani inferiori.
Il Sella rilevò subito alla Camera le ragioni della dimissione del gabinetto. Esse consistevano nell’avere il Grimaldi, nuovo al ministero, studiato i bilanci, ed essersi accorto che il pareggio era illusorio, ed evidente, il disavanzo. Il Cairoli sostenne che la crisi era avvenuta per le divergenze fra i ministri sulla applicazione della legge, che aboliva il macinato. Allora sorse il Grimaldi a dichiarare che avrebbe parlato in altro momento, ma che intanto affermava che l’aritmetica non era una opinione.
Queste parole avevano un significato per i deputati. Il Grimaldi, dopo studiato i bilanci, si era convinto che vi sarebbe stato un disavanzo con l’abolizione del macinato, e dimostrava nel Consiglio dei ministri la necessità di nuove imposte, e di votarle subito per poter sostenere validamente l’abolizione al Senato. Questo dissenso era stato la cagione del rimpasto ministeriale.
Prima della fine dell’anno vi fu un incidente rispetto alle preziose maioliche di Castel Gandolfo, di proprietà di Pio IX, che erano state vendute dai suoi esecutori testamentari insieme con molti altri oggetti di pertinenza del defunto Pontefice. I piatti di maiolica durantina erano stati comprati per 23,000 lire dal signor Giacomini il quale, facendoci un guadagno assai rilevante, li aveva rivenduti al duca della Verdura. In casa di questo signore li sequestrò il Governo.
Il Papa, informato del fatto, ricomprò subito i piatti e li collocò in Vaticano, nel corridoio attiguo alla stanza ove sono esposte le nozze Aldobrandini, e ove si vedono tuttora.
L’on. Martini aveva fatto alla Camera una interpellanza, su quella vendita, alla quale il Villa rispose assicurando che sarebbero stati tutelati i diritti del Governo.
Sugli ultimi del 1879 morì il generale Avezzana, e durante il trasporto della salma a Campo Verano avvenne un tafferuglio per il sequestro di una bandiera dell’ « Italia irredenta » e una corona dell’altra società « Alpi Giulie ». Già il Governo aveva avuto una quantità di noie per la tolleranza usata verso i promotori di quella agitazione. Una delle maggiori era stata la pubblicazione fatta dal colonnello de Haymerle, già addetto militare all’ambasciata a Roma e fratello stesso dell’ambasciatore. L’opuscolo era intitolato: Italica Res, e conteneva moltissime accuse contro la tolleranza del Governo di fronte a una agitazione che ci rendeva aliena l’Austria. L’opuscolo fu tradotto in italiano e pubblicato a Firenze.
Il Cairoli se avesse avuto nel suo ministero tutti uomini del suo gruppo, non avrebbe permesso il sequestro della bandiera, ma al palazzo Braschi vi era il Depretis e dovette lasciar fare.
Le notizie sulla salute della Regina erano sempre peggiori. Era andato a visitarla a Bordighera il Baccelli, e si era dichiarato contrario alla solitudine e al riposo, prescrivendole le distrazioni di Roma, ma la Regina non venne e il Re andò a passare il Natale con lei.
Il Papa aveva voluto mostrarsi più propenso a soddisfare il desiderio di Margherita di Savoia che non il suo antecessore, e le aveva concesso di ripristinare a uso del culto, la cappella che Pio IX aveva fatto costruire nel Quirinale per i suoi familiari. La Regina fu molto contenta di quella concessione e ne ha serbata sempre gratitudine al Papa.
L’anno morì, come muore quasi sempre, senza destare rimpianto. Era stato un anno infecondo, senza attività, senza esultanze; un anno di disagio per tutti.