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zione di tanti simboli minori, non avea, nè poteva avere in mira il bene della Chiesa, ma solo prestavasi a contentare le domande di vescovi o di congregazioni per desiderio di popolarità e brama di far parlar di sè.

Variabile d’umore, impetuoso e irreflessivo, era stato fino dall’infanzia, a cagione del male epilettico che lo tormentava. Il mio nonno, Filippo Adimari-Morelli, che fu suo compagno di studi nel seminario di Volterra, mi narrava che i superiori lo avevano affidato alla sorveglianza di lui, suo maggiore di soli tre anni, poichè da solo non poteva guardarsi neppure in mezzo a tanti altri giovanetti retti dalla disciplina dell’istituto. Uscito di collegio era lo stesso, e se più tardi non avesse incontrato l’abate Graziosi, il padre Venturi, il canonico Storace, e Pio VII, che lo guidarono con amore e discernimento nella vita, non sarebbe certo pervenuto al pontificato. Si vuole che vedendo revocato, per la sua infermità, il breve che doveva permettergli l’adito nella carriera ecclesiastica, volesse gittarsi nel Tevere, e che un certo Cattabeni, suo amico, incontrandolo a Campo Vaccino, mentre si avviava verso il fiume, lo avesse distolto, con efficaci esortazioni, dal suicidio.

Data quindi la malattia, che non lo lasciò mai, Pio IX era, secondo la scienza moderna, un irresponsabile così nel bene come nel male, e i suoi biografi, invece di giudicarne gli atti alla stregua comune, non dovrebbero mai perder di vista la infermità che lo affliggeva.

Monsignor Liverani, nel suo celebre libro Il Papato, l’Impero e l’Italia, scritto dopo il 1860, libro che fu tacciato allora di libello, così ne traccia il ritratto:

«Non nepotismo, non ombra d’avarizia o sete di accumular tesori: conoscere e valutare l’oro e l’argento soltanto quanto giova a farlo correre in mano dei poveri o nel decoro del culto o del santuario; paziente ed infaticabile a dare ascolto o udienza; ma alla stess’ora brigarsi soverchio delle più minute notizie e di pettegolezzi volgari; estimare il valore degli uomini e delle cose più dagli aggiunti e dalle circostanze che dalla sostanza loro; essere accessibile a sinistre impressioni e prevenzioni maligne; tenace e subitaneo nelle risoluzioni e nelle avversioni; agevole di farsi rapir l’anima da improvvise simpatie e dal genio; incauto ad affacciare sul volto il godimento, la repugnanza e i più riposti sentimenti del cuore, che torna il medesimo dell’aver ceduto la chiave ai furbi e scaltri cortigiani che gli leggono l’anima sulla fronte. Quindi, innanzi a lui occhi imbambolati, bocche semiaperte, colli torti, muscoli in resta e in sospensione per correre con l’approvazione là ove la maestosa e augusta faccia di Pio fa cenno, per ripeterne con encomio i desiderii, quando pure importassero la sua rovina. Giudice veloce e spedito dell’altrui valore, piuttosto dal colore e dalle apparenze e dal portamento, dal viso sarcastico, dal capo caldo, dalla voce armoniosa, di quello che dalle doti dell’anima e dell’ingegno; restio a dar la sua grazia a chi non la sappia carpire, e però ombroso e sospettoso sempre verso gli onesti; sprovveduto e inerme con gli scaltri, virtuoso, ma di una virtù palese, fragorosa, sonora come la sua bella voce; tenero e spasimante di fare il bene, ma che mille gazzette ne portino attorno il grido per tutto il mondo e mille epigrafi e stemmi e medaglie lo ricordino eziandio ai più smemorati e spensierati. Mutabile nei giudizii e nei partiti a seconda della temperie meteorologica, del vario avvolgersi delle nubi, della guardatura del cielo e del balzar dei nervi e delle arterie e della condizione patologica di un corpo malato: il suo morale risente di tutte le impressioni di un fisico infermo».


Il Liverani aggiunge che una volta Pio IX bistrattò il cardinal Fieschi per non avergli bene assestato in dosso i sacri indumenti, che un’altra volta fece una scena violenta al conte Codronchi d’Imola per avergli presentato una supplica del marchese Bevilacqua, mentre in principio della udienza avevalo incoraggiato a dargliela dicendogli: «Sparate questa pistola».