Ricordi di Parigi/Vittor Hugo

Vittor Hugo

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Uno sguardo all’Esposizione Emilio Zola

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VITTOR HUGO


I.

V’è uno scrittore, in Francia, salito in questi ultimi anni a un tal grado di gloria e di potenza che nessun’ambizione letteraria può aver mai sognato d’arrivare più alto. Egli è, per consenso quasi universale, il primo poeta vivente d’Europa. Ha quasi ottant’anni: è nato il secondo anno del secolo. Le siècle avait deux ans. Era già celebre cinquant’anni sono, quando Alessandro Dumas diceva ai suoi amici, parlando di lui: — Nous sommes tous flambés — non aveva inteso che il [p. 130 modifica] dramma Marion Delorme. Il suo nome e le sue opere sono sparsi per tutta la terra. D’un nuovo suo libro spariscono centomila esemplari in pochi giorni. I suoi lavori giovanili sono ancora ricercati oggi come quando annunziarono per la prima volta il suo nome all’Europa. Tutti i suoi cinquanta volumi sono pieni di gioventù e di vita come se fossero venuti alla luce, tutti insieme, pochi anni sono. La vita di quest’uomo è stata una guerra continua: una guerra letteraria, prima, bandita dal teatro; una guerra politica, dopo, rotta nelle assemblee e proseguita in esilio: l’una contro il classicismo, l’altra contro un’imperatore; tutt’e due vinte da lui. Nessun altro scrittore del suo tempo fu più di lui combattuto, e nessun altro sedette, vecchio, sopra un più alto piedestallo di spoglie nemiche. Falangi d’avversarii furiosi gli attraversarono la strada; — egli passò e quelli disparvero. I suoi grandi rivali discesero l’un dopo l’altro nel sepolcro, sotto i suoi occhi. Una serie di sventure tragiche disperse la [p. 131 modifica] sua famiglia: tutti i rami della quercia caddero l’un sull’altro fulminati; il vecchio tronco rimase saldo ed immobile. Egli passò per tutto le prove: fu povero, fu perseguitato, fu proscritto, — solo — vagabondo — vituperato — deriso; ma continuò impassibilmente, con una ostinazione meravigliosa, il suo enorme lavoro. In tempi in cui pareva finito, si rialzò tutt’a un tratto, trasfigurato, con opere piene di nuove forze e di nuove promesse. Su tutte le vie della letteratura mise l’impronta dei suoi passi giganteschi. Non tentò, assalì tutti i campi dell’arte, e v’irruppe tempestando, rovesciando, sfracellando, lasciando da ogni parte le traccie di una battaglia. Alla tribuna, nel teatro, in tribunale, in patria, in esilio, nella poesia e nella critica, giovane e settuagenario, fu sempre ad un modo, audace, ostinato, sfrenato, provocatore, rude, furioso, selvaggio. E suscitò degli eserciti di nemici, ma si trascinò dietro degli eserciti. Una legione di scrittori fanatici e devoti gli si strinse e gli si stringe [p. 132 modifica] intorno, e combatte in sua difesa e nel suo nome. Mille ingegni eletti, in varii tempi, non brillarono d’altra luce che del riflesso del suo genio; altri, attratti nella sua orbita, sparirono nel suo seno; altri s’affaticarono inutilmente, tutta la vita, per levarsi dalla fronte l’impronta ch’egli v’aveva stampata. La pittura, la scultura e la musica s’impadronirono delle creazioni della sua mente, e le resero popolari, per la seconda volta, in tutti i paesi civili. Una ricchezza enorme d’immagini, di sentenze, di traslati, di modi, di forme nuove dell’arte, profusa da lui, circola, vive e fruttifica in tutte le letterature d’Europa. Egli è da mezzo secolo argomento continuo di discussioni ardenti e feconde. Quasi tutte le nuove questioni letterarie o hanno radice nelle sue opere o vi girano intorno forzatamente, ed egli presiede, innominato e invisibile, a tutte le contese. Ma ora le contese, per quello che riguarda lui, almeno in Francia, sono quasi affatto cessate. La sua età, le sue sventure, la sua immensa fama, [p. 133 modifica] la vitalità poderosa delle sue opere, rinvigorita da recenti trionfi, la popolarità grande del suo nome tenuta viva continuamente dalla sua parola e dalla sua presenza, lo hanno messo quasi al di fuori e al di sopra della critica. I suoi più acerrimi nemici letterarii d’un tempo tacciono; i suoi più accaniti avversarii politici saettano il repubblicano, ma rispettano il poeta, come una gloria della Francia. Chi non lo riconosce come poeta drammatico, lo ammette come romanziere; chi lo respinge come romanziere, lo adora come poeta lirico; altri che detestano il suo gusto letterario, accettano le sue idee; altri che combattono le sue idee, sono entusiasmati della sua forma; chi non ammira nessuna delle sue opere partitamente, ammira ed esalta la vastità grandiosa dell’edifizio che formano tutte insieme: nessuno gli contesta il genio; nessuno, parlandone cogli stranieri, si mostra incurante od ostile all’omaggio che gli vien reso; e anche chi l’odia, ne è altero. Oltre a ciò, l’aura politica del momento gli è [p. 134 modifica] favorevole. Egli è un poeta popolare e un tribuno vittorioso, e porta sulla corona d’alloro come un’aureola sacra di genio tutelare della patria. È arrivato a quel punto culminante della gloria, oltre il quale non si può più salire che morendo. La sua casa è come una reggia. Scrittori ed artisti di tutti i paesi, principi ed operai, donne e giovanetti, entusiasti ardenti, vanno a visitarlo. Ogni sua apparizione in pubblico è un trionfo. La sua immagine è da per tutto, il suo nome suona ad ogni proposito. Si parla già di lui come d’una gloria consacrata dai secoli, e gli si prodigan già quelle lodi smisurate e solenni che non si concedono che ai morti. Ed egli è ancora pieno di vita, di forza, d’idee, di disegni, ed annunzia ogni momento la pubblicazione d’un’opera nuova. Ecco l’uomo di cui intendo di scrivere oggi. Dopo l’Esposizione universale, Vittor Hugo. Un argomento val l’altro, mi pare. [p. 135 modifica]

II.

Io credo, esprimendo quello che penso di Vittor Hugo, d’esprimere presso a poco quello che ne pensano tutti i giovani del mio tempo. Non c’è nessuno di noi, certamente, che non si ricordi dei giorni in cui divorò, giovanetto, i primi volumi dell’Hugo che gli caddero fra le mani. È stata senza dubbio per tutti una emozione nuova, profonda, confusa, indimenticabile. Tutti ci siamo domandati tratto tratto, interrompendo la lettura: — Che uomo è costui? — Nello stesso tempo dolce e tremendo, fantastico e profondo, insensato e sublime, egli mette accanto a una stramberia rettorica che rivolta, la rivelazione d’una grande verità che fa dare un grido di stupore. Colla stessa potenza ci fa sentire la dolcezza del [p. 136 modifica] bacio di due amanti e l’orrore di un delitto. È ingenuo come un fanciullo, è truce come un uomo di sangue, è affettuoso come una donna, è mistico come un profeta, è violento come un oratore della Convenzione, è triste come un uomo senz’affetti e senza speranze. In cento pagine ci mostra cento faccie. Egli sa esprimere tutto: sensazioni vaghe dell’infanzia, su cui s’era mille volte tormentato invano il nostro pensiero; i primi inesplicabili turbamenti amorosi della pubertà, le lotte più intime del cuore della fanciulla e della coscienza dell’assassino; profondità segrete dell’anima, che sentivamo in noi, ma in cui l’occhio della nostra mente non era mai penetrato; sfumature di sentimenti che credevamo ribelli al linguaggio umano. Egli abbraccia colla mente tutto l’universo. Ha, se si può dire, due anime che spaziano contemporaneamente in due mondi, e ogni opera sua porta l’impronta di questa sua doppia natura. Chi non ha fatto mille volte quest’osservazione? In alto v’è quel suo [p. 137 modifica] eterno ciel bleu che ricorre ad ogni pagina, i firmamenti mille volte percorsi, gli astri continuamente invocati, gli angeli, le aurore, gli oceani di luce, mille sogni e mille visioni della vita futura, un mondo tutto ideale, in cui egli si sprofonda come un estatico, trasportando con sè il lettore abbarbagliato e stordito; e sotto, dei mari neri e tempestosi, tenebre su tenebre, la sua eterna ombre, i suoi abîmes i suoi gouffres, il bagno, la cloaca, la corte dei miracoli, il carnefice, il rospo, la putredine, la deformità, la miseria, tutto quanto v’ha di più orribile e di più immondo sopra la terra. Il campo della sua creazione non ha confini. Ravvicinate Cosetta e Lucrezia Borgia, Rolando della Leggenda dei secoli e Quasimodo, Dea e Maria Tudor, Gavroche e Carlo V, le sue vergini morte a quindici anni, i suoi galeotti, i suoi sultani, le sue guardie imperiali, i suoi pezzenti, i suoi frati, e vi parrà d’aver dinanzi l’opera non d’un solo, ma d’una legione di poeti. Riandate rapidamente [p. 138 modifica] tutte le sue creazioni: esse lasciano l’impressione d’un’enorme epopea di frammenti, che risale da Caino a Napoleone il grande, e una memoria confusa di amori divini, di lotte titaniche, di miserie inaudite, di morti orrende, viste come a traverso a una bruma paurosa, rotta qua e là da torrenti di luce, in cui formicola una miriade di personaggi metà creature reali e metà fantasmi, che sconvolgono l’immaginazione. Tutte le opere sue son come colorate dal riflesso d’una vita arcana ch’egli abbia vissuta, altre volte, in un mondo arcano, al quale par che alluda vagamente ad ogni pagina, e alle cui porte s’affaccia continuamente, impaziente dei confini che gli sono assegnati sulla terra. Una fantasmagoria immensa di cose ignote all’umanità par che lo tormenti di continuo, come una visione febbrile. Tutto quello che v’è di più strano e di più oscuro sul limite che separa il mondo reale dal mondo dei sogni, egli lo cerca, lo studia e lo fa suo. I re favolosi dell’Asia, le superstizioni di tutti i secoli, [p. 139 modifica] le leggende più bizzarre di tutti i paesi, i paesaggi più tetri della terra, i mostri più orribili del mare, i fenomeni più spaventosi della natura, le agonie più tragiche, tutte le stregonerie, tutti i delirii, tutte le allucinazioni della mente umana sono passate per la sua penna. Egli vede tutto per non so che prisma meraviglioso; a traverso il quale, per contro, il lettore vede sempre lui. In fondo a tutte le sue scene e dietro tutti i suoi personaggi spunta la sua testa enorme e superba. Quasi tutte le sue creature portano l’impronta colossale del suo suggello, e parlano il linguaggio del genio; sono, come lui, grandi poeti o grandi sognatori; statue, a cui ha stampato sulla fronte il suo nome; larve dai contorni più che umani, che si vedono ingigantite come a traverso le nebbie dei mari polari, o accese della luce d’una glorificazione teatrale che le trasfigura. Così Javert, Gymplaine, Triboulet, Simoudain, Gilliat, Giosiana, Ursus, Quasimodo, Jean Val-jean. Così il suo Napoleone III, rappresentato [p. 140 modifica] come un volgare malfattore, tutto d’un pezzo, liricamente. Pochi i personaggi d’ossa e di carne, che abbiano la nostra statura e la nostra voce. E così la sua cattedrale di Nôtre Dame, convertita da lui in un monumento enorme e formidabile come una montagna delle Alpi. Tutte le sue creazioni sono, com’egli dice delle onde di un oceano in tempesta, melangées de montagne et de songe. Solo nel primo momento della concezione è osservatore tranquillo e fedele; poi la sua natura invincibilmente lirica irrompe, ed egli afferra colla mano poderosa la sua creatura, e la trasporta al di sopra della terra. Dalla prima all’ultima pagina è sempre presente, despota orgoglioso e violento, e ci fa della lettura una lotta. Ci caccia innanzi a spintoni, ci solleva, ci stramazza, ci rialza, ci scrolla, ci umilia, ci travolge nella sua fuga precipitosa, senza dar segno d’avvedersi che noi esistiamo. Balziamo rapidissimamente fra i più opposti sentimenti che può suscitar la lettura, dalla noia irritata all’entusiasmo [p. 141 modifica] ardente, come palleggiati dalla sua mano. Eterne pagine si succedono in cui l’Hugo non è più lui. Egli travia, erra a tentoni nelle tenebre, e delira. Non sentiamo più la parola dell’uomo; ma l’urlo o il balbettio del forsennato. E i periodi enormi cascano sui periodi enormi, a valanghe oscuri e pesanti, o i piccoli incisi sui piccoli incisi, fitti e rabbiosi come la grandine, e s’incalzano e s’affollano confusamente le assurdità, le vacuità, le iperboli pazze e le pedanterie. Vittor Hugo pedante! Eppure sì; quando ci esprime cento volte l’idea che abbiamo afferrata alla prima, quando ci mostra lentamente e ostinatamente, una per una, le mille faccette d’una pietra ch’egli crede un tesoro e ch’è un diamante falso. E in quel frattempo, mentre sonnecchiamo o fremiamo, ci si affacciano alla mente le analisi spietate dei critici, le ire dei classicisti, gli anatemi dei pedanti, gli scherni dei suoi infiniti avversarii, e stiamo per dire: — Han ragione! — Ma che! Arrivati in fondo alla pagina, v’è un pensiero che ci fa [p. 142 modifica] balzare in piedi e gridare: — No, per Dio! Hanno torto! — ; una frase che ci s’inchioda nel cervello e nel cuore per tutta la vita; una parola sublime, che ci compensa di tutto. E l’Hugo è di nuovo là ritto e gigante sul piedestallo che vacillava. Questa è la sua grande potenza: lo scatto improvviso, la parola impreveduta che ci rimescola, il lampo inaspettato che illumina la vasta regione sconosciuta, la porta bruscamente aperta e richiusa per la quale intravvediamo il prodigio, un gran coup dans la poitrine, come direbbe lo Zola, che ci toglie per un momento il respiro, e ci lascia rotti e sgomenti. Non è l’ aquila che si libra sull’ali; è il masso che erompe dal vulcano, tocca le nubi e ricasca. La sua arte è quasi tutta qui: un lungo lavorìo paziente che prepara un effetto inatteso. Egli non ha riguardi per noi mentre prepara; ci strapazza e ci provoca; è un lavoratore sprezzante e brutale; non bada nè alle nostre impazienze, nè alle nostre censure. I suoi difetti sono grandi come il suo genio; non néi, [p. 143 modifica] ma gobbe colossali, che ci fan torcere il viso. L’architettura della più parte dei suoi romanzi è deforme. Sono episodi spropositati, spedienti brutali, inverosimiglianze sfrontatamente accumulate, fili di racconti pazzamente spezzati e riannodati; divagazioni, o piuttosto corse furiose, di cui non si vede la meta, e che fanno presentire a ogni passo un precipizio. Ma egli vuol condurvi là, dove vuole, e vi trascina, renitenti, barcollando ed ansando, calpestando la ragione, il buon gusto, il buon senso, la verità. E a un certo punto vi svincolate gridando: — No, Hugo, non ti seguo! — e lo lasciate fuggir solo. Dov’è andato? È caduto? Ah! eccolo là, sull’altura, colla fronte dorata dal sole. Ha vinto e ha ragione. Ma egli ha tutto per combattere e per vincere: ha l’audacia, la forza e le armi; ha il genio e la pazienza; è nato poeta e s’è fatto; ha scavato dentro a sè stesso, con mano pertinace, la vena più profonda dei suoi tesori; ogni opera sua è un immenso lavoro di scavazione, a cui si [p. 144 modifica] assiste leggendo, e si sente il formidabile affanno del suo respiro. È una strana cosa veramente l’arte sua. Egli non ci presenta il lavoro fatto, il risultamento netto ed ultimo dei suoi sforzi, l’ultima idea a cui è arrivato per una successione d’idee; ma ci fa seguire tutto il processo intimo del suo pensiero, ci fa contare e toccare prima tutte le pietre con cui innalzerà l’edifizio, ci fa assistere a tutti i suoi tentativi inutili, a tutti i crollamenti successivi delle parti mal fabbricate, e vediamo poi l’edifizio compiuto, ma circondato e ingombro dei ruderi, ch’egli disdegna di spazzare. Il suo lavoro è uno strano accoppiamento di pazienza da musaicista e di furia da pittore ispirato. Egli scrive come il Goya dipingeva. Ora minia, liscia, accarezza l’opera propria, lento, quasi sonnolento, minuto, scrupoloso; si diverte a stendere elenchi accurati di nomi e di cose, a spiegare il proprio concetto con similitudini interminabili diligentemente condotte; procede colle seste, cerca le simmetrie, [p. 145 modifica] dice, corregge, aggiunge, modifica, rettifica, sfuma, cesella, brunisce. A un tratto il soffio della grande ispirazione lo investe, e allora butta via il pennello delicato, e, come il Goya faceva, dipinge a furia con quello che gli casca fra le mani, spande i colori colle spugne, getta le grandi macchie cogli strofinacci e le scope, dà i tocchi di sentimento a colpi furiosi di pollice che sfondan la tela. Il suo stile è tutto rilievi acuti, rialti di granito, punte di ferro e vene d’oro, pieno d’asprezze e d’affondamenti oscuri, rotto qua e là in grandi squarci, da cui si vedono prospetti confusi e lontani; ora semplice fino all’ingenuità scolaresca, ora architettato coll’arte sapiente d’un pensatore; a volta a volta acqua limpida e mare in burrasca, su cui errano nuvole rosee che riflettono il sole o nuvole nere da cui si sprigiona la folgore. Le immagini nuove e potenti pullulano a miriadi sotto la sua penna, e le idee gli erompono dal capo armate, impennacchiate, sfolgoranti e sonanti, qualche volta offuscate dalla ricchezza [p. 146 modifica] e schiacciate dal peso dell’armatura. Egli non spende, profonde a piene mani, sperpera i tesori inesauribili della sua potenza espressiva col furore d’un giuocatore forsennato. La lingua sua non gli basta. Egli toglie ad imprestito il gergo della plebe, la lingua furfantina delle galere, il balbettìo informe ed illogico dei bambini; tempesta la sua prosa di parole straniere di cento popoli e di traslati proprii di tutte le letterature; e si fabbrica superbamente un linguaggio suo, tutto colori e scintille, pieno d’enimmi e di licenze, di laconismi potenti e di delicatezze inimitabili; secondo il bisogno, triviale, tecnico, accademico, vaporoso, brutale, solenne; così che lette le sue opere, non par d’aver sentito parlare la lingua di un solo popolo e d’un solo secolo, ma una vasta e confusa lingua d’un tempo avvenire, per la quale non ci sia nulla d’inesprimibile e di straniero. Di questa potenza espressiva, come del coraggio del suo genio, egli abusa, e allora s’impiglia e si ravvolge nel proprio [p. 147 modifica] pensiero, e vi s’aggira come in un labirinto, senza trovarne l’uscita. Ma anche nei suoi smarrimenti è grande. Anche in quelle pagine affaticate, tormentate, astruse, in cui volendo esprimere l’inesprimibile, tenta da tutte le parti il proprio concetto, e accumula metafore su metafore, paragoni su paragoni, e ricorre inutilmente al suo misterioso linguaggio di tenebre e di luce, d’ombre e d’abissi, di inconnu e di insondable, e tutta la sua fortissima e ricchissima lingua non basta a render nemmeno una pallida idea di quel non so che di immane e di mostruoso che ha nel capo; in quelle pagine i freddi pedanti trovano con gioia una presa assai facile alla critica che distrugge e deride; ma l’anima dell’artista vi sente l’anelito del titano che lotta con una potenza sovrumana, e assiste a quegli sforzi poderosi con un sentimento di stupore e di rispetto, come a uno di quegli spettacoli in cui un uomo rischia la vita. Eppure sì, leggendo le opere sue, accade qualche volta che, arrivati [p. 148 modifica] a un certo punto, lo squilibrio delle facoltà, la continua prevalenza della fantasia sfrenata sulla ragione, la eccessiva frequenza delle aberrazioni e delle cadute, vi stanca; i lampi di genio non bastano più a compensarvi dei continui sacrifizii che deve fare il vostro buon senso; siete sazii, sdegnali, qualche volta nauseati; sentite il bisogno di riposarvi da quella tortura; ritornate con piacere ai vostri scrittori sensati, rigorosi, sempre eguali; respirate, vi ritrovate nel mondo reale, benedite la logica, riacquistate la vostra dignità d’uomini e di lettori. E lasciate in un canto l’Hugo per mesi, e qualche volta per anni, e vi pare d’esservene staccati per sempre. Ma che! Egli v’aspetta. Un giorno arriva finalmente in cui, tutt’a un tratto, un entusiasmo a cui volete un’eco, un dolore che domanda un conforto, un bisogno istintivo di strano o di terribile, vi risospinge verso quei libri. E allora tutti gli entusiasmi sopiti si ridestano tumultuosamente. Egli v’afferra di nuovo, vi [p. 149 modifica] soggioga, siete suoi, rivivete in lui per un altro periodo della vostra vita. E perché le somme linee delle opere sue sono veramente d’un genio. L’abuso ch’egli fa d’un concetto sublime, alla lettura, v’offende; ma spariti dalla memoria i particolari errati o eccessivi, il concetto vi resta incancellabile, e più s’appura col tempo, più vi pare che ingrandisca, e ingrandisce davvero. Le sue grandi idee e i suoi grandi sentimenti son grandi tanto che sovrastano ai difetti infiniti dell’arte sua, come le colonne d’un tempio antico ai rottami ammucchiati ai suoi piedi. E di qui nasce il fatto strano ch’egli ha più ammiratori ardenti delle sue creazioni che lettori fedeli dei suoi volumi, e che moltissimi ammiratori suoi non lo conoscono che nei frammenti delle sue opere, o nelle ispirazioni che v’hanno attinte le altre arti. Chi strapperà più dalla memoria umana Ernani, Triboulet, il campanaro di Nôtre Dame, l’amore di Ruy Blas, la disperazione di Fantina? E chi può scordare i brividi di terrore ch’egli ci [p. 150 modifica] ha fatto correre per le vene, e le lacrime che ci ha fatto sgorgare dagli occhi? Poiché egli può tutto, ed è grande nella tragedia e insuperabile nell’idillio. Noi tutti abbiamo sentito scricchiolare le ossa d’Esmeralda nel letto della tortura, e abbiamo visto faccia a faccia la morte, quando ce la presenta orrenda come in Claudio Frollo appeso al cornicione della cattedrale, o furiosa come sulla barricata di via Saint-Denis, o epica come sul campo di Waterloo, o infinitamente triste come nelle nevi della Russia, o solennemente lugubre, come nel naufragio dei Comprachicos. Ed è lo stess’uomo che fa vibrare sovrumanamente le corde più delicate dell’anima; l’autore del Revenant su cui milioni di madri singhiozzarono, l’autore di quel celeste Idillio di Rue Plumet, di quella santa agonia di Jean Valjean, che strazia l’anima, e di quei versi meravigliosi, in cui Triboulet spande piangendo l’immensa ed umile tenerezza del suo amore di padre. No, mai parole più dolci, preghiere più soavi, grida d’amore più appassionate, [p. 151 modifica] slanci d’affetto e di generosità più nobili e più potenti, sono usciti da un cuore di poeta. E allora Vittor Hugo è grande, buono, venerabile, augusto, e non c’è anima umana che in quelle pagine non l’abbia benedetto ed amato. In momenti solenni della vita, accanto al letto d’un moribondo, durante una grande battaglia della coscienza, i suoi versi ripassano per la mente, come lampi, e risuonano all’orecchio consigli d’un amico affettuoso e severo che ci dica: — Sii uomo! — Poichè egli ha tutto sentito, tutto compreso e tutto detto; ha le disperazioni tremende e lo rassegnazioni sublimi; non v’è dolore umano a cui non abbia detto una parola di conforto; non c’è sventura al mondo su cui non abbia fatto versare delle lagrime. Egli è il patrocinatore amoroso e terribile di tutte le miserie, dei diseredati dalla natura e degli abbandonati dal mondo, di chi non ha pane, di chi non ha patria, di chi non ha libertà, di chi non ha speranze, di chi non ha luce. Questa è la sua grandezza vera e [p. 152 modifica] incontestabile. Non c’è altro scrittore moderno che abbia esercitato con una maggior quantità d’opere e con una più intrepida ostinazione questo glorioso apostolato; che abbia maneggiato un pennello più potente per dipingere le miserie, un coltello anatomico più affilato per aprire i cuori straziati, uno scalpello più magistrale per scolpire gli eroi della sventura, un ferro più rovente per segnare la fronte di chi fa soffrire, una mano più delicata per accarezzare la fronte di chi soffre. Egli è il grande assalitore e il grande difensore; ha combattuto su tutte le arene; è salito su tutte le sommità ed è sceso in tutte le bassure. E questo è ammirabile in lui, che per quanto sia disceso, non s’è mai abbassato. La sua mano è rimasta incontaminata fra tutte le sozzure in cui sguazzò la sua penna. Egli non ha mai prostituito l’arte sua. È austero e superbo. Non s’inflette e non ride. Il suo riso non è che una maschera, dietro la quale s’intravvede sempre il suo volto pallido e accigliato. Una specie di tristezza fatale [p. 153 modifica] pesa su tutte le opere sue. Anche nella sua grande e costante aspirazione alla virtù, alla concordia, alla pace, alla redenzione degli oppressi e degli infelici, v’è qualcosa di malinconico e tetro, come se le mancasse l’alimento della speranza. Tutti i suoi libri terminano con un grido straziante. Tutte le voci che escono dalle sue opere formano, riunite, un lamento solenne, misto di preghiera e di minaccia. La sua stessa credenza in Dio, quella ch’egli chiama la suprema certezza della sua ragione, è forse piuttosto un’aspirazione potentissima del suo cuore e un pascolo immenso della sua immaginazione smisurata, che una fede ferma, in cui la sua anima si riposi: la fede è una sorgente, a lui necessaria, di torrenti di poesia, e Dio è un personaggio dei suoi romanzi e dei suoi canti. Da qualunque lato si guardi, apparisce in lui qualcosa di strano e di non chiaramente esplicabile. L’uomo non emerge netto dallo scrittore. Si stende la mano a toccarlo, e invece della carne umana, si sente una sostanza [p. 154 modifica] nuova al tatto, che fa rimanere perplessi. La sua figura, velata, s’innalza, s’abbassa, s’avvicina, s’allontana, e non presenta mai per tanto tempo i contorni fermi e precisi, da poterseli fissare immutabilmente nel pensiero. E così v’affaticate per anni intorno alle sue opere senza riuscir mai a formarvene un giudizio che non abbiate di tratto in tratto a mutare. Esse offrono mille parti scoperte alla critica d’un fanciullo, e presentano mille aspetti irresistibili all’ammirazione dell’uomo. C’è poco da obbiettare a chi le lacera senza remissione, non si sa che cosa opporre a chi n’è entusiasta appassionato. Distruggetele col ragionamento: esse si rialzano da sé, a poco a poco, nella vostra mente, più maestose e più salde. Disponetevi invece ad adorarle ciecamente, e sarete ogni momento costretti a soffocare mille voci di protesta che usciranno dal vostro cuore e dalla vostra ragione. Una sola cosa è fuor di dubbio, ed è che non si può rifiutare a quest’uomo il titolo augusto e solenne di Genio. Il più ostinato avversario suo [p. 155 modifica] sente, in fondo a sé stesso, chè la qualificazione di «ingegno», da qualunque attributo accompagnata, non basta per lui. Potete preferirgli una legione d’altri ingegni viventi; ma siete costretti a riconoscere che alle mille teste di quella legione sovrasta la sua. Potete voltargli le spalle, ma non potete fare un passo senza mettere il piede sulla sua ombra. Ma è difficile credere che la ripugnanza dell’indole, o la disparità del gusto e delle idee, o l’odio di parte possano tanto in un uomo da fargli negare la grandezza che presentano insieme le creazioni, le lotte, i trionfi, gli errori e gli ardimenti di questo vecchio formidabile. Per me, penso ai suoi cinquanta volumi, pieni d’ispirazioni e di fatiche, in cui si rivela col genio prepotente una volontà indomabile e una tempra fisica d’acciaio; penso ai torrenti di vita che uscirono dal suo petto, all’amore immenso che profuse, alle ire selvaggie e agli odii implacabili che provocò e che gli infuriarono nell’anima; ricorro la sua vita da quando [p. 156 modifica] giocava, ragazzo, sotto gli occhi di sua madre, nel giardino delle Feuillantines; lo vedo, sedicenne, quando scriveva in quindici giorni, per guadagnare una scommessa, le pagine ardenti di Bug-Jargal; penso a quando comprò il primo scialle a sua moglie coi denari dell’Han d’Islanda; me lo raffiguro, fiero e impassibile, in mezzo alle tempeste delle assemblee scatenate dalla sua parola temeraria; lo vedo servire umilmente i quaranta bambini poveri seduti alla sua mensa a Hauteville-house; me lo rappresento grave e triste, in mezzo alla folla, dinanzi ai cento sepolcri illustri su cui fece sentire la sua parola piena di maestà e di dolcezza; lo vedo per le vie di Parigi, in mezzo alla moltitudine riverente, costernato e invecchiato, seguire i feretri dei suoi figli; lo vedo in quelle sue veglie febbrili, ch’egli descrisse così potentemente, quando di lontano, nel silenzio della notte, sentiva squillare il corno di Silva ed echeggiare il grido di Gennaro; lo vedo assistere nel Teatro francese, dopo mezzo [p. 157 modifica] secolo dalla prima rappresentazione, al trionfo clamoroso dell’Hernani, salutato dai primi scrittori e dai primi artisti della Francia come il loro Principe rieletto e riconsacrato; penso al suo Oriente splendido, al suo Medio evo tremendo, alla Preghiera per tutti, all’infanta che perde la rosa mentre Filippo II perde l’Armada, alla carica dei corazzieri della guardia contro i quadrati del Wellington, alla scarpetta d’Esmeralda, all’agonia d’Eponina, a tutte le creature del mondo arcano, sfolgorante, immenso che uscì dal suo capo; al suo esilio, alle sue sventure, ai suoi settantasette anni, — e sento una mano che mi fa curvare la fronte.

III.

Vittor Hugo è certamente uno di quelli scrittori che ispirano un più ardente desiderio di [p. 158 modifica] vederli; perché i suoi cento aspetti di scrittore ci fanno domandare ogni momento a quale di essi corrisponda il suo aspetto d’uomo. Sarà il viso dell’Hugo che ci fa inorridire o quello dell’Hugo che ci fa piangere? E ci riesce ugualmente difficile rappresentarcelo benevolo e rappresentarcelo truce. Io mi ricordo d’aver passato molte ore, giovanetto, all’ombra d’un giardino, con un suo libro tra le mani, cercando di dipingermelo coll’immaginazione, e componendo e ricomponendo cento volte il suo viso e la sua persona, senza trovar mai una figura che m’appagasse. Il suo spettro, di forme incerte, mi stava sempre davanti. Quest’uomo era un enimma per me. Io non sapevo bene rendermi conto del sentimento che m’ispirava. Alle volte mi pareva che, vedendolo, gli sarei corso incontro coll’espansione di un figlio e mi sarei strette le sue mani sul cuore; altre volte mi pareva che, incontrandolo improvvisamente, mi sarei scansato con un sentimento di diffidenza e di timore, e avrei detto [p. 159 modifica] sommessamente ai miei vicini: — Indietro! Hugo passa. — Che so io? Era l’uomo che m’aveva spinto cento volte, col cuore gonfio di tenerezza, tra le braccia di mia madre; ma era anche l’uomo che m’aveva fatto balzar sul letto, più volte, nel cuor della notte, atterrito dall’apparizione improvvisa dei cinque cataletti di Lucrezia Borgia. Sentivo per lui un affetto pieno di trepidazione e di sospetto. Ma il desiderio di vederlo era ardente, e andò crescendo cogli anni. Quanta è la potenza del genio! Voi arrivate in una città enorme, trascorrete di divertimento in divertimento, d’emozione in emozione, in mezzo a un popolo immenso e tumultuoso, fra gente di ogni paese, fra i capolavori delle arti e delle industrie di tutta la terra, fra mille spettacoli, mille pompe e mille seduzioni. Ebbene, tutto questo non è per voi che una cosa secondaria. Fra quell’immenso spettacolo e voi si drizza il fantasma di un uomo che non avete mai visto, che non vedrete forse mai, che non sa nemmeno che siate [p. 160 modifica] al mondo; e questo fantasma occupa tutta la vostra mente e tutto il vostro cuore. In quell’oceano di teste, voi non cercate che la sua. A ogni vecchio che passi, il quale vi rammenti alla lontana la sua immagine, una voce intima vi dice: — È lui! — e il vostro sangue si rimescola. Tutta quell’enorme città non vi parla che di quell’uomo. Le torri della Cattedrale sono popolate dei fantasmi della sua mente, ad ogni svolto di strada vi si affaccia una creatura della sua immaginazioni, i frontoni dei teatri vi rammentano i suoi trionfi, gli alberi dei giardini vi bisbigliano i suoi versi e le acque della Senna vi mormorano il suo nome. E allora prendete una risoluzione eroica e rivolgete una domanda, da lungo tempo meditata, a un amico. E non si può dire l’effetto che vi fanno queste cinque semplicissime parole: — Via di Clichy, numero venti. [p. 161 modifica]

IV.

V’è una considerazione però, che rende titubanti molti ammiratori che desiderano di visitare Vittor Hugo; ed è l’accusa che gli si fa d’avere un immenso orgoglio. Certo è che egli sente altissimamente di sè, e non lo nasconde. Tutti sanno quello che disse, ancor giovane, all’attrice Mars, che si permetteva, alle prove dell’Hernani, di criticare i suoi versi. — Signorina, voi dimenticate con chi avete da fare. Voi avete un grande ingegno; non lo nego; ma ho un grande ingegno anch’io, e merito qualche riguardo. — Io lascio ad altri il risolvere questa quistione: se, in qualche caso, uno smisurato sentimento di sè non sia un elemento del genio: quello che dà l’impulso ai grandi ardimenti; e se, ammessa la [p. 162 modifica] indole artistica di Vittor Hugo, sia possibile concepire un Vittor Hugo modesto. Mi ristringo a considerare il fatto. Sì, Vittor Hugo dev’essere sovranamente orgoglioso. Si riconosce da mille segni. Egli, per esempio, — è cosa notissima, — non ammette la critica. Il genio, dice, è blocco. Bisogna accettarlo intero o respingerlo intero. L’opera del genio è un tempio in cui si deve entrare col capo scoperto, e in silenzio. On ne chicane pas le genie. Ammirate, ringraziate e tacete. Il genio non ha difetti. I suoi difetti sono il rovescio delle sue qualità. Ecco tutto. Egli lo ha detto a chiare note nel suo libro sullo Shakespeare, nel quale s’è servito del tragico inglese per dire al mondo quello che pensa di sè stesso. Il ritratto ch’egli traccia dello Shakespeare è il ritratto suo; quella deificazione che egli fa del genio, la quale per un uomo che creda in Dio è quasi sacrilega, è, insomma, la sua apoteosi; in quell’oceano a cui paragona i grandi poeti, si vede riflessa, prima d’ogni altra, la sua grandezza; quella [p. 163 modifica] montagna che ha tutti i climi e tutte le vegetazioni, è Vittor Hugo. In quegli elenchi, ch’egli fa ad ogni pagina, dei genii di tutti i tempi e di tutti i paesi, da Giobbe al Voltaire, si capisce, si giurerebbe che, arrivato all’ultimo nome, è stato sul punto d’aggiungervi il suo, e che, non lo fece, non per modestia, ma per salvare, come suol dirsi, le convenienze. Egli tratta tutti quei grandi da pari a pari. Tutti i genii, d’altra parte — è una sua idea, — sono uguali. La regione dei genii è la regione dell’eguaglianza. Egli parla di Dante come d’un fratello. Ma oltre a queste ci sono mille altre manifestazioni della coscienza ch’egli ha della sua grandezza: l’ardimento superbo con cui mette le mani nella scienza e con cui affronta, passando, i più alti problemi della filosofia; la baldanza con cui ostenta le sue licenze letterarie, come se fosse certo che, coniate da lui, saranno moneta corrente e ricchezza comune; l’intonazione solenne delle sue prefazioni, che annunziano l’opera come un [p. 164 modifica] avvenimento sociale; la cura scrupolosa con cui raccoglie o fa raccogliere tutte le sue minime parole e gli atti più insignificanti della sua vita. Quando vuol fare il modesto riesce all’effetto opposto, tanto inesperto è in quell’arte, e tanto è abituato a passar la misura in ogni cosa. Come quando comincia una lettera: «Un oscuro lavoratore.» E così, sotto la forcata pacatezza con cui risponde alle osservazioni di Lamartine sui Miserabili, si sente il ruggito soffocato del leone ferito. La sua stessa prodigalità nella lode tradisce l’uomo che crede di gettarla tanto dall’alto, da non aver da temere l’orgoglio che ne potrà nascere, se anche crescesse smisurato. E poi egli rivela l’animo suo candidamente. In un’occasione in cui non volle lasciar rappresentare un suo dramma perchè un altro aveva trattato Io stesso soggetto, disse: — Non voglio esser paragonato. — A un editore che gli proponeva di pubblicare una scelta delle sue poesie, rispose: — Voi mi avete l’aria d’un uomo che, mostrando in una [p. 165 modifica] mano dei sassi raccolti sul Monte Bianco, creda di poter dire alla gente: Ecco il Monte Bianco. — Egli si considera al di sopra d’ogni confronto possibile con qualunque scrittore contemporaneo. Non piglia, infatti, alcuna parte in quella guerra continua che si movono gli scrittori di Francia a motti arguti e maligni, che scorticano senza far stridere, e fanno il giro di Parigi. Se ne sta in disparte, muto. E non sarebbe atto, d’altra parte, a questa specie di guerra. Dicono: perchè non ha «spirito.» Egli ha risposto acerbamente a questa critica. — Dire che un uomo di genio non ha spirito, è una gran consolazione per i moltissimi uomini di spirito che non hanno genio. — Ma la critica è giusta forse, benché si trovino nei suoi discorsi parlamentari dei mirabili esempi di risposte improvvise a botte inaspettate. Il suo scherzo ha spesso il conio del grande ingegno; ma non provoca il riso salato e pepato della vera arguzia francese. Lo stiletto sottile dell’ironia sfugge dalle sue mani di [p. 166 modifica] colosso; egli non è atto che a dare i grandi colpi di mazza che sfracellano il casco e la testa. E poi oramai si ritiene quasi al di sopra della letteratura. Si riguarda quasi come un sacerdote di tutte le genti, sopravvissuto, per decreto della Provvidenza, a mille prove e a mille sventure, per vegliare sull’umanità. Questo apparisce lucidamente dalle sue apostrofi ai popoli, dalle sue intimazioni ai monarchi, dal tono di profezia che dà ai suoi presentimenti, dalla forma di responso che dà alle sue sentenze, dal carattere di minaccia che dà ai suoi rimproveri, da tutto il suo linguaggio spezzato in affermazioni altiere e in giudizii assoluti, come se ogni sua proposizione fosse un decreto, da incidersi sul bronzo o nel marmo per le generazioni avvenire. Tutte queste cose, o sapute prima o intese dire, fanno lungamente esitar lo straniero che vuol andare a battere alla sua porta. Certo che, dopo la prima esitanza, si fanno delle riflessioni incoraggianti. Si pensa, per esempio, che il sentimento che ci [p. 167 modifica] trattiene dal presentarci a un uomo orgoglioso che ammiriamo, non è, in fondo, che un sentimento d’orgoglio. Poi si pensa a quanti scrittori miserabili di mente e di cuore, a quanti pedanti fradici e impotenti, a quanti imbrattacarte sconosciuti di villaggio non si sentono da meno di Vittor Hugo. E infine ci si dice che è una pazza presunzione la nostra, di credere che a noi, messi in luogo suo, non darebbe punto al capo la gloria di primo poeta d’Europa. E allora si ripiglia coraggio. Ma pure è una cosa che spaventa quel presentarsi là sconosciuti, senz’altra scusa che l’impulso del cuore, davanti a un uomo famoso nel mondo, nella grande città che lo festeggia, in casa sua, in mezzo a una folla di ammiratori, per dirgli.... che cosa? Voglio vedervi! [p. 168 modifica]

V.

E non ostante, una mattina, mi trovai senza avvedermene nel cortile della casa N.° 20 di via Clichy, in faccia al finestrino del portinaio, e sentii con un certo stupore, come se parlasse un altro, la mia voce che diceva: — Sta qui Vittor Hugo? — Ero ben certo che stava là; eppure restai un po’ meravigliato nel sentirmi rispondere: — Sì signore, al secondo piano — coll’accento della più fredda indifferenza. Mi parve molto strano che a quel portinaio paresse tanto naturale che là ci stesse Vittor Hugo. Poi, tutt’a un tratto, mi parve un’assurdissima cosa l’andarmi a presentare a quell’uomo in quella maniera. E dissi forte a me stesso: — Ma tu sei matto! — e rimasi profondamente assorto, per qualche [p. 169 modifica] minuto, nella contemplazione d’un gatto che dormiva sopra una finestra del pian terreno. E l’ho da dire tal quale? Sentivo un leggierissimo tremito nelle ginocchia, come se mi fosse già passata da un pezzo l’ora della colezione. Poi non ricordo più bene. So che m’accorsi improvvisamente che salivo le scale; ma colla profonda sicurezza che, arrivato alla porta, sarei tornato giù senza sonare. Salivo lentamente; sopra uno scalino mi sentivo un coraggio da leone; sopra un altro scalino mi pigliava la tentazione di voltar le spalle e di scappar come un ladro. Mi fermai due o tre volte per asciugarmi la fronte, che stillava. Oh mai nessun alpinista, ne son sicuro, ha fatto un’ascensione più affannosa di quella! Avrei voluto tornar indietro; ma non potevo. Che so io? C’erano cinquecento De Amicis, di tutte le stature, che ingombravano la scala dietro di me, affollati e stretti come acciughe tra il muro e la ringhiera, che mi dicevano tutt’insieme a bassa voce: — Avanti! — All’ [p. 170 modifica] improvviso, come se fino allora avessi pensato a tutt’altro, mi trovai ai piedi dell’ultima branca di scala, in faccia alla porta. Allora non so come, bruscamente, tutte le paure sparirono. Sentii un impulso potente che mi diedero insieme mille ricordi dell’adolescenza e della giovinezza, il sangue mi diede un tuffo violento, Cosetta mi mormorò: — Coraggio!— Ernani mi disse: — Sali! — Gennaro mi gridò: — Suona! — E suonai. — Dio eterno! Mi parve di sentir sonare a distesa, per un quarto d’ora filato, la gran campana di Nôtre Dame, e stetti là trepidante come se quel suono dovesse aver messo sottosopra mezza Parigi. Finalmente nello stesso punto sentii l’impressione d’un pugno nel petto e vidi spalancarsi la porta. Mi trovai dinanzi una governante, una bella donna, vestita con garbo. In un angolo dell’anticamera due servitori lucidavano dei candelieri d’argento. Per una porta aperta si vedeva in un’altra stanza una tavola mezzo sparecchiata, con un giornale nel mezzo. Cose insignificanti e indimenticabili. [p. 171 modifica] Domandai alla governante con una voce da tenore sgolato se stava là Vittor Hugo. Mi rispose di sì, con un’indifferenza, anche lei, che mi fece gran meraviglia. Domandai se avrebbe potuto ricevermi. Mi rispose che era ancora a letto. Io rimasi là, senza parola, scombussolato. L’idea di aver da fare un’altra volta l’ascensione di quella montagna, mi sgomentava. Ma la governante doveva esser abituata a veder dei giovani presentarsi così, col viso un po’ alterato, alla porta del suo padrone, e a indovinare dal viso il sentimento che li moveva; perchè mi diede un’occhiata tra sorridente e pietosa, come se volesse dire: — Ho capito! Sei uno dei tanti — e soggiunse con un accento benevolo: — Credo però che sia svegliato....posso domandargli quando la potrà ricevere — e senza darmi tempo di rispondere, disparve. A me pareva di sognare o di essere briaco. Mi sfuggiva il sentimento della realtà. Mi domandavo se il Vittor Hugo ch’era nella stanza accanto fosse proprio quel Vittor Hugo che io [p. 172 modifica] cercavo, e non mi pareva possibile. E avrei voluto, infatti, che non fosse possibile. Mi pareva d’aver commesso un atto insensato. — Ma cosa ho fatto! — mi dicevo. — Bisogna che mi abbia dato volta il cervello. E cosa seguirà adesso? — E pensando ch’era possibile ch’egli non mi volesse ricevere, mi sentivo salire delle ondate di sangue alla testa. Improvvisamente la governante ricomparve e disse gentilmente: — Il signor Vittor Hugo la riceverà con piacere questa sera alle nove e mezzo. — Ah, governante adorata! Bisogna ch’io risalga a vent’anni fa, quando dopo aver aspettato per tre ore, immobile davanti a una porta, una parola che doveva darmi tre mesi di libertà e di piaceri o tre mesi di schiavitù e di umiliazione, usciva finalmente il segretario della Commissione a dirmi solennemente: — Promosso! — ; bisogna ch’io risalga a uno di quei giorni, per poter dire d’aver sentito altre volte un allargamento di polmoni così delizioso, una soddisfazione così piena, una così matta voglia di scender le scale a [p. 173 modifica] cinque gradini per volta, come quella che m’hai fatto provar tu, con quelle quattordici benedette parole, o governante dell’anima mia.

VI.

E dalle nove e mezzo della mattina alle nove e mezzo della sera fui re di Francia. Ah, Vittor Hugo superbo, Vittor Hugo comunardo, Vittor Hugo energumeno, Vittor Hugo matto; che baie! Tutti questi Vittor Hugo della critica o della calunnia, col berretto frigio o colle corna dell’orgoglio satanico, erano spariti dalla mia mente. Per me non c’era più che un solo Hugo, il grande poeta amoroso e sdegnoso, pieno di consigli fortissimi e di sante consolazioni; l’uomo che m’aveva fatto delirare d’amore da giovanetto; che m’aveva fatto pensare e lottare da uomo; il [p. 174 modifica] poeta di cui le strofe fulminee m’eran sonate nel cuore sul campo di battaglia come grida eccitatrici d’un generale lontano; lo scrittore che aveva mille volte schiacciato il mio misero orgoglio d’impiastrafogli, facendomi provare non so che voluttà acre e salutare nell’umiliazione, che mi acquietava l’anima; l’autore di cui parlando m’era sgorgata mille volte dal cuore commosso la parola facile e calda che m’aveva cattivato delle simpatie; l’artista che mi aveva aiutato a esprimere mille sentimenti e a render l’immagine di mille cose che senza di lui mi sarebbero forse rimaste sepolte per sempre nell’anima; lo scrittore di cui in Spagna, in Grecia, sul Reno, sul Bosforo, sul mare, mi ricorreva ogni momento alla memoria un pensiero o una immagine, che rischiarava, formulava e commentava la mia emozione; il poeta dei fanciulli, il consolatore delle madri sventurate, il cantore delle morti gloriose, il grande pittore dei cieli e degli oceani; oggetto di vent’anni di studio, di curiosità [p. 175 modifica] e di discussioni; mille volte abbandonato, mille volte ripreso, mille volte difeso; Galeotto d’amori gentili, auspice d’amicizie ardenti, compagno di veglie febbrili e provocatore, di scoppi di pianto disperati; l’uomo, insomma, in cui avevo vissuto una gran parte della parte più bella della mia vita; che m’aveva trasfuso nelle vene il suo sangue, e delle cui opere mi ero fatto ossa, nervi e cervello. Questo era il Vittor Hugo che mi vedevo davanti, e ad ogni ora che passava, mi pareva che la sua figura si innalzasse di un palmo e che il mio cuore ringiovanisse d’un anno.

VII.

Eppure, ecco un problema per gli scrutatori del cuore umano. Verso sera, un’ora prima d’andare, tutt’a un tratto mi si fece dentro come un [p. 176 modifica] silenzio mortale. Mi sentii improvvisamente vuoto, asciutto e freddo. Mi parve che, comparendo davati a Vittor Hugo, non avrei sentito la menoma scossa, nè trovato una parola da dire. E ne rimasi atterrito. Poiché, insomma, non c’è che una commozione profonda e visibile che giustifichi l’audacia di quelle visite: quando la commozione manca, par che si vada là per curiosità, e la pura curiosità, in quei casi, è sfrontatezza. Che cosa sono questi ammutolimenti improvvisi del cuore? Forse che il cuore s’addormenta, stanco della commozione, per ripigliar nuove forze? Io non so. So che avevo un bell’eccitarmi, e richiamare alla mente tutti i pensieri e tutti i sentimenti della mattina; ogni sforzo era inutile; per quanto mi soffiassi dentro, non riuscivo a sollevare una scintilla; e salii le scale con una indifferenza che mi costernava. — Sono istupidito, — mi domandavo, — o son malato? Ed ora che cosa dirò? — La stizza mi divorava; mi sarei morso le mani e dato dei pugni nella testa. E mi ricordo ch’ero [p. 177 modifica] ancora in questo stato quando la porta s’aperse e mi trovai nell’anticamera illuminata da una lampada appesa al soffitto. Ma fu quello, grazie al cielo, l’ultimo momento. La governante mi domandò il nome per andare ad annunziarmi. Il suono del mio nome pronunziato da e ripetuto da lei, in quella stanza, mi svegliò, come se qualcuno m’avesse chiamato; la mia mente si rischiarò e un torrente di vita mi affluì al cuore. La donna aperse una porta e disparve. Per la porta semiaperta uscì un suono confuso di voci allegre e forti, da cui capii che si stava terminando di cenare. In mezzo a quel vocìo afferrai due parole: — La philosophie indienne.... — Ebbi appena il tempo di pensare: Oh numi! Che cosa dirò se mi attaccano sulla filosofia indiana? La porta si richiuse. Mi parve che seguisse un silenzio profondo. La governante faceva l’imbasciata. I minuti secondi mi sembravano quarti d’ora. Quel silenzio mi pareva tremendo. Finalmente la donna ricomparve, mi accennò di seguirla, [p. 178 modifica] guardandomi curiosamente, come se il mio viso avesse qualche cosa di strano; mi fece passare per un corridoio, spinse leggermente il battente d’una porta e mi disse sottovoce: — Entrate, signore. Il signor Vittor Hugo è là. —

Stetti un momento immobile. Mi sentivo.... poco bene. Se la governante m’avesse guardato in viso, m’avrebbe offerto un bicchiere d’acqua.

Animo! — dissi poi a me stesso; sollevai una tenda, feci un passo innanzi e mi trovai in faccia a Vittor Hugo.

Era in piedi, solo, immobile.

Che cosa gli dissi? A diciott’anni, in quelle occasioni, si versano delle lagrime. Il pianto è la grande e dolce eloquenza della prima giovinezza. Ma a trent’anni non si piange più. A trent’anni si domina la commozione senza soffocarla, e si parla. L’entusiasmo trabocca, altero di sè stesso, in parole ardite e virili; la fronte si alza, l’occhio divampa, la voce vibra, l’anima grandeggia. Che cos’abbia detto, non so. Qualcuno mi [p. 179 modifica] suggeriva nell’orecchio, rapidamente, delle parole ardenti, che io ripetevo colla voce tremante e sonora, provando una immensa dolcezza nel cuore, e vedendo davanti a me, in confuso, una testa bianca che mi pareva enorme, e due pupille fisse nelle mie che pigliavano a grado a grado una espressione di curiosità e di benevolenza. Tutt’a un tratto tacqui, come se una mano mi avesse afferrato alla gola e restai col respiro sospeso.

Allora la mia affettuosa ammirazione di venti anni, la costanza del mio ardente desiderio, le mie trepidazioni di quel giorno, le mie inquietudini dei giorni innanzi, i miei terrori di fanciullo, le mie veglie di giovanetto, le mie febbri di uomo, le mie umiliazioni di scrittore ebbero un grande compenso.

La mano che scrisse Nôtre Dame e la Lègende des siécles strinse la mia.

E subito dopo provai un secondo sentimento, forse più dolce del primo.

La mano sinistra del grande poeta raggiunse [p. 180 modifica] la destra, e la mia mano calda e tremante rimase per qualche momento tra le sue.

Seguì un breve silenzio, durante il quale sentii il suono del mio respiro, come se avessi fatto una corsa.

Poi sentii la sua voce; una voce grave, ma dolce, in cui mi parve di sentire mille voci, e che mi stupì, come se, udendola, vedessi comparire Vittor Hugo per la seconda volta.

— Siete il benvenuto in casa mia, signore — disse. — Voi avete cuore. Siete un amico. Avete fatto bene a presentarvi così. Vi ringrazio con tutta l’anima. Non volete mica lasciarmi subito, non è vero? Voi resterete con me tutta la sera.

Poi mi domandò:

— Di che paese siete?

Inteso ch’ero italiano, mi guardò fisso. Poi mi prese di nuovo la mano, mi fece sedere e sedette.

Che cosa dirgli, Dio buono! A un uomo così, quando gli avete espresso con tutta l’anima quello [p. 181 modifica] che sentite per lui, lì su due piedi, nel primo impeto dell’entusiasmo, gli avete detto tutto. Non rimane che rivolgergli delle domande. Ma che cosa fargli dire ch’egli non abbia scritto? Conoscete da tanti anni tutti i suoi più intimi pensieri, ogni domanda par che sia oziosa, e poi quando si ha appena tanto animo da rispondere, non si può averne abbastanza da interrogare. Perciò rimasi li, senza parola. E d’altra parte, che cosa poteva dire a me, lui? Nondimeno, per levarmi d’imbarazzo, mi fece parecchie domande intorno alle mie impressioni di Parigi, all’Esposizione, all’Italia; domande che, invece di togliermi d’imbarazzo, mi ci avrebbero messo fino agli occhi, se non mi fossi accorto che, da osservatore fine degli uomini, egli badava assai più alla viva commozione che trapelava dalla mia voce incerta, dalle mie risposte monosillabiche e dal mio sguardo fisso che Io divorava, che non al senso di quello che io dicevo. E mi guardava con una cert’aria affettuosa, corrugando le sopracciglia e [p. 182 modifica] socchiudendo gli occhi per aguzzare lo sguardo, e sorridendo leggerissimamente, come se si compiacesse dell’effetto che mi produceva, e mi dicesse in cuor suo: — Guardami, via; levatene un po’ la voglia, povero giovane, perchè te la leggo proprio sul viso, e m’hai l’aria d’un buon diavolo sincero.

E l’osservai infatti, in quei pochi minuti, attentissimamente; ma non potei vederlo bene che più tardi perchè il lume non gli batteva sul viso. È di statura media, leggermente curvo, tarchiato. Ha la testa grossa, ma ben fatta; fronte vasta, collo di toro, spalle larghe, mani corte e grosse, e una carnagione rossigna da cui traspira la salute e la forza. Tutta la sua persona ha qualcosa di poderoso e d’atletico, come il suo genio. Ha i capelli irti e fitti, la barba intera e corta, bianchissima; gli occhi lunghi e stretti, un po’ obliqui, come i fauni; il che dà al suo viso un aspetto un po’ strano. Se siano neri o azzurri, non ricordo. Sono occhi vivissimi e mobilissimi, che [p. 183 modifica] paiono socchiusi, e appariscono soltanto come due punti scintillanti, che quando fissano, penetrano in fondo all’anima. Aveva una giacchetta d’orleans nero e il suo solito panciotto oscuro, abbottonato fin sotto il mento. La prima impressione che mi fece fu d’un uomo abitualmente triste.

— Ora staremo un po’ insieme, — mi disse, dopo avermi fatto qualche altra domanda, — e poi verrete di là con me, nel salotto, dove conoscerete alcuni degli uomini più notevoli della Francia. In che città abitate, in Italia?

Diedi la mia risposta in fretta, e nello stesso punto mi prese una grande paura. — Se mi domandasse qual è la mia professione! — dissi tra me. E mi sentii diventar rosso fino alla radice dei capelli.

Fortunatamente per me, mentre apriva la bocca per interrogare, entrò gente.

Allora assistetti a una scena, o piuttosto a una serie di scene tra amene e commoventi, che mi [p. 184 modifica] diedero un’idea di cosa dev’essere la giornata di Vittor Hugo, e mi compensarono di non aver potuto continuare la conversazione a quattr’occhi.

Un signore venne innanzi, e dopo di lui, a intervalli di pochi minuti, vari altri, di età diversa, i quali vedevano tutti Vittor Hugo per la prima volta, e avevan chiesto per lettera quel giorno stesso, da quanto m’accorsi, d’essere ricevuti. Uno veniva per domandare il permesso d’una ristampa di non so che poesia; un altro a chiedere una spiegazione intorno alla variante della scena di un dramma; un terzo a chiedere la licenza di dedicare un’opera; un quarto, un bel giovane belga, con una lunga cicatrice sul viso, si trovava nei miei stessissimi panni: veniva, mosso dalla ammirazione, non per altro che per veder Vittor Hugo. D’altri non mi ricordo. Ebbene, ebbi la consolazione di vedere che giovani e vecchi, francesi e stranieri, si presentavano presso a poco nel medesimo stato in cui mi trovava io al [p. 185 modifica] momento di passare la soglia. Le loro faccie esprimevano tutte una viva emozione, e tutti più o meno, spiccicavano le parole con molta fatica. E ammirai la dolcezza di modi di Vittor Hugo. A ognuno andava incontro e gli stendeva la mano con un atto cordiale e semplice. Ma non si ricordava, naturalmente, del nome di nessuno. Fingeva però di ricordarsene. — Mi ricordo benissimo — diceva — ; senza dubbio. Voi siete molto amabile con me, signore. — Faceva seder tutti e stava a sentire, l’un dopo l’altro, i loro discorsi balbettati e imbrogliati, assentendo di tratto in tratto col capo. Non lo vidi mai sorridere. Pareva stanco. — Ma sicuro, diceva infine, con voce dolce, — avrete quello che desiderate. Posso esservi utile in qualche cos’altro? — Parlando con quello della variante, mi fece strabiliare. Si trattava, se non sbaglio, d’una scena del Roi s’amuse. Egli se la ricordava verso per verso, e ne recitò speditamente una decina per rammentarsene uno che nel primo [p. 186 modifica] momento non gli era venuto alla mente. La sua memoria prodigiosa, del resto, si rivela nella immensa ricchezza della sua lingua e nelle citazioni infinite delle sue opere. Per ultimo si fece innanzi il giovane belga, timidamente, tormentando con tutt’e due le mani l’ala del suo cappello cilindrico, e disse con voce commossa, fissando in viso a Vittor Hugo due occhi azzurri e umidi: — Signore! Io son venuto a Parigi per vedervi. Sono di Bruges. Non avevo il coraggio di presentarmi. Mio padre mi scrisse: — Va, Vittor Hugo è grande e buono; non rifiuterà di riceverti. — E allora vi scrissi. Vi ringrazio. Mi sarei contentato di vedervi passare per la strada. Io vi debbo uno dei più bei giorni della mia vita, signore! — Disse queste poche parole con una semplicità e una grazia, da farsi baciare sulla fronte. Vittor Hugo gli rispose non so che cosa, affettuosamente, mettendogli una mano sulla spalla. Il suo viso sfolgorò. Tutti gli altri, in disparte, tacevano. Poi Vittor Hugo ci guardò tutti, [p. 187 modifica] l’un dopo l’altro, benevolmente; tutti gli tenevan gli occhi addosso, nessuno fiatava, egli parve un po’ imbarazzato e sorrise; e fu per qualche momento una scena muta, ma piena di vita e di poesia, di cui serberò il ricordo e sentirò la gentilezza per sempre.

Poi alcuni si congedarono e Vittor Hugo fece entrar gli altri nel salotto accanto, stringendo la mano a tutti, mentre gli passavano davanti.

Questo secondo salotto era pieno di gente, la maggior parte amici di casa. Era un salotto di grandezza media, piuttosto basso, tappezzato di rosso, mobiliato signorilmente, senza pompa. Da una parte c’eran quattro sofà disposti a semicircolo, un po’ discosti l’un dall’altro, intorno a un camminetto di marmo; sul camminetto, un antico specchio; sulle pareti, nessun quadro. La casa, tutto considerato, non mi parve una casa da poeta milionario. C’era però nella decorazione una predominanza di rosso cupo e di rosso sanguigno, che armonizzava col genio del padrone. La gente [p. 188 modifica] sparsa per la sala formava un quadro assai curioso. Il primo che mi diede nell’occhio, per la macchia stranissima che formava in quel quadro, — come certe parole bizzarre in una bella pagina dell’Hugo, — fu un mulatto di forme colossali, in giubba e cravatta bianca, che sfogliava un album. E gli domando scusa, ma voglio dir la verità, ed è che al primo vederlo pensai a quell’ Homére-Hogu, nègre, che fa uno spicco così pittoresco nell’elenco nominativo della banda di Patron-Minette, noi Miserabili. Mi fu detto poi ch’era un collaboratore della Petite Presse, pieno d’ingegno, e molto stimato. In un angolo c’era un gruppo di giovani che discorrevano fitto, ridendo elegantemente: belle fronti, occhi vivi, capigliature poetiche, atteggiamenti d’attori corretti; da cui argomentai che fossero dei così detti Parnassiens, poeti dell’arte per l’arte, o meglio del verso pel verso, che hanno per capo il De Lisle, e formano un drappello di paggi nella corte di Vittor Hugo. Mi fu poi indicato, infatti, in mezzo [p. 189 modifica] a loro, un poeta di quella famiglia, Catullus Mendes, del quale avevo già osservato il viso espressivo e simpatico, e i lunghi capelli alla nazzarena. Da un’altra parte c’era un crocchio di uomini maturi, quasi tutti d’alta statura, fra cui alcune belle teste grigie, dai profili arditi, nelle quali mi parve di riconoscere quell’ impronta particolare d’austerità e di tristezza, che lasciano le traversie della vita politica, e che rammenta un po’ la fierezza pensierosa dei vecchi capitani di bastimento. Cerano due sole signore, sedute vicino al camminetto; una che m’è sfuggita affatto alla memoria, e un’altra che m’è rimasta impressa profondamente: una signora di forti membra, di capelli bianchissimi, di viso grande e aperto, illuminato da due occhi profondi, — taciturna; una dama del Velasquez, senza gorgiera. Era quella mademoiselle Drouet, attrice potente, che rappresentò per la prima volta Lucrezia Borgia, nel 1833, al teatro della Porte Saint-Martin, dove, come tutti sanno, quel terribile dramma [p. 190 modifica] scritto in sei settimane riportò un trionfo meraviglioso. V’erano altri personaggi, che mi parvero stranieri, e che avevan l’aria un po’ impacciata di chi si trova in una casa illustre per la prima volta.

Quasi tutti parlavano. Quando entrò Vittor Hugo tutti tacquero.

Egli sedette vicino al camminetto, sopra un sofà, e gli altri gli formarono intorno un grande semicerchio.

Allora potei vederlo e sentirlo bene.

Non so come, la conversazione cadde sul Congresso letterario. Vittor Hugo, interrogato, espose qualcuna delle idee che avrebbe svolte nel suo discorso inaugurale. Ebbene, riconobbi ch’era vero, con mia sorpresa, quello che m’era stato detto del suo modo di parlare in privato. Io m’aspettavo di sentire le antitesi, i grandi traslati, la forma concettosa e paradossale, e l’intonazione imperativa che è nei suoi scritti, specialmente degli ultimi anni. Nulla di tutto questo. [p. 191 modifica] È difficile immaginare un linguaggio più semplice, un tuono più modesto, un modo di porgere più naturale di quello ch’egli usava in quella conversazione. Per non aver l’aria di parlare in cattedra, discorreva guardando in viso uno solo, e a bassa voce. — Ecco quello che io direi — diceva — quello che credo di poter dire; ditemi voi se vi pare che sia a proposito.— Non gestiva affatto; teneva tutt’e due le mani sulle ginocchia. Solo di tratto in tratto si grattava la fronte con un dito: movimento che gli è abituale. E dicono che anche discutendo di letteratura, in crocchio ristrettissimo, e toccando le quistioni più ardenti, parla colla medesima semplicità. Di che bisogna concludere proprio che, scrivendo, nell’esaltazione della fantasia, egli cangi quasi di natura, o che parli di freddo proposito quell’ altro linguaggio perchè lo creda più alto e più efficace. Mentre parlava, tutti stavano intenti. Mi fece senso il tuono più che rispettoso, quasi timido, con cui gli rivolgevano la parola anche coloro che parevano [p. 192 modifica] suoi famigliari. Nessuno l’interrogava senza dire: Mon maîtreMon cher maître. — Uno disse: — grand maître. — Non vidi mai uno scrittore celebre circondato da uno stuolo d’ammiratori, che somigliasse, come quello, al corteo d’un monarca. È mio dovere d’aggiungere, però, che non vidi mai sul suo viso nemmeno un lampo, che esprimesse compiacenza vanitosa dell’ammirazione che lo circondava. È vero, d’altra parte, che c’è abituato da cinquantanni.

Un grande lume rischiarava in pieno il suo viso, e io non potevo saziarmi di guardarlo, tanto mi pareva singolare.

Il viso di Victor Hugo, infatti, per me, è ancora un problema. È un viso che ha due fisonomie. Quando è serio, è serissimo, quasi cupo; pare un viso che non abbia mai riso, non solo, ma che non possa ridere; e i suoi occhi guardano la gente con un’espressione che mette inquietudine. Gli si direbbe: — Hugo, fatemi la grazia di guardare da un’altra parte. — Sono gli [p. 193 modifica] occhi d’un giudice glaciale o d’un duellante più forte di voi, che voglia affascinarvi collo sguardo. In quei momenti mettetegli, col pensiero, un turbante bianco sul capo: è un vecchio sceicco; mettetegli un casco: è un vecchio soldato; mettetegli una corona: è un vecchio re vendicativo e inesorabile. Ha non so che dell’austerità d’un sacerdote e della tetraggine d’un mago. Ha una faccia leonina. Quando apre la bocca, par che ne debba uscire un ruggito, e quando alza il pugno robusto, par che non debba abbassarlo che per stritolar qualche cosa. In quei momenti sul suo viso si legge la storia di tutte le sue lotte e di tutti i suoi dolori, la tenacia ferrea della sua natura, le simpatie tetre della sua immaginazione, i suoi forzati, i suoi feretri, i suoi spettri, le sue ire, i suoi odii; tutta l’ ombre, come egli direbbe, tutto il côté noir delle opere sue. Ma a un tratto, come m’accadde di vedete quella sera, mentre un tale gli raccontava un aneddoto comico d’un fiaccheraio di Parigi, egli dà in una risata così fresca [p. 194 modifica] e così allegra, mostrando tutti i suoi denti uniti, piccoli e bianchi; e in quel riso i suoi occhi e la sua bocca pigliano un’espressione così giovanile e così ingenua, che non si riconosce più l’uomo di prima, e si riman là stupiti, come se gli fosse caduta dal viso una maschera, e si vedesse per la prima volta il vero Hugo. E in quei momenti vedete, come per uno spiraglio, dietro di lui, Deruchette, Guillormand, Mademoiselle Lise, Don Cesare di Bazan, Gavroche, i suoi angeli, il suo ciel bleu, e tutto il suo mondo luminoso e soave. Ma non sono che lampi, rari sul suo viso come nei suoi libri; dopo di che egli riprende il suo aspetto pensieroso e tetro, come se meditasse la catastrofe d’uno dei suoi drammi sanguinosi. E più si guarda, meno si può credere che sia quello stesso Hugo di mezzo secolo fa, magro, biondo, gentile, al quale gli editori e i direttori di teatro che andavano a cercare a casa l’autore dell’Ernani, dicevano: — Fateci il favore di chiamar vostro padre. [p. 195 modifica] Mentre Vittor Hugo parlava a bassa voce con un suo vicino, io attaccai discorso con un signore accanto a me, un uomo sulla cinquantina, d’una bella fisonomia d’artista; il quale, dopo poche parole, mi disse ch’era amico di Vittor Hugo, e che qualche volta scriveva delle lettere in nome suo.

Fra le altre cose gli parlai dell’emozione che avevo provata la mattina salendo le scale.

— Perchè mai? — mi domandò gentilmente.

— Vittor Hugo è così dolce, così affabile con tutti! Egli ha il cuore d’una fanciulla e i modi d’un bambino. Tutto quello che v’è di aspro e di terribile nei suoi libri è uscito dalla sua grande immaginazione, non dal suo cuore. Non vedete che gli trapela la dolcezza dal viso? Guardatelo.

Lo guardai. In quel momento appunto era così accigliato e così fosco, che non avrei osato sostenere il suo sguardo.

— È vero — risposi. [p. 196 modifica] Poi mi parlò delle sue abitudini.

— Egli ha le abitudini più semplici di questo mondo — disse.— Non lo avete mai incontrato sull’imperiale dell’omnibus di via Clichy? Di tanto in tanto va a far un giro per Parigi nell’ omnibus che passa per la sua strada, in specie quando ha bisogno di scrivere. Ritrovarsi così in mezzo al popolo, rivedere tanti luoghi pieni di memorie per lui, contemplare Parigi di volo, dall’alto, all’aria fresca della mattina, lo ispira.

In quel momento colsi a volo una frase di Vittor Hugo che mi rimase impressa. — L’Académie — diceva — qui est pleine de bonté pour moi. — E mi ricordai di quello che avevo inteso dire: che in non so quale occasione, comparendo lui all’Accademia, tutti gli accademici, caso rarissimo, si alzarono in piedi.

E il mio vicino continuò:

— Egli lavora ogni giorno, lavora sempre. Dalla mattina quando si leva fino alle quattro dopo mezzogiorno, è a tavolino. Il suo cervello [p. 197 modifica] è sempre in attività. La creazione, per lui, è un bisogno. E anche quando non si sente ispirato, lavora, com’egli dice, pour se faire la main. La giornata non gli basta per mettere sulla carta tutto quello che gli ribolle nella testa e nel cuore. Ma il buon Dio gli darà lunga vita ed egli ci darà ancora venti volumi.

Udendo queste parole, non potevo trattenermi dal guardare quel vecchio meraviglioso, come una creatura d’un altro mondo, e al pensare ch’egli lavorava ancora, a quell’età, con un vigore che io non avevo mai avuto, e che lavorava già in quella maniera venticinque anni prima ch’io fossi nato, mi sentii annichilito.

Intanto Vittor Hugo parlava di molte piccole occupazioni che sovente gli portavan via la giornata senza che quasi se n’accorgesse, e diceva con voce stanca, ma bonariamente:

Je n’ai pas une minute à moi, vous le voyez bien.

E tutti risposero a una voce: — È vero. [p. 198 modifica]

Poi un po’ l’uno e un po’ l’altro ricominciarono a raccontare delle barzellette, col proposito espresso, credo, di rallegrarlo; ma ci riuscivano di rado. Di tratto in tratto egli girava lo sguardo intorno, e lo fissava su di me o sul giovane belga, come se s’accorgesse soltanto in quel momento che noi eravamo là, e per toglierci questo sospetto, ci salutava con un sorriso benevolo e rapido, che voleva dire: — Non vi scordo. — Poi gli ridiscendeva sul viso, come una visiera, la sua tristezza.

E intanto io spiavo l’occasione di potergli dir qualche cosa in un cantuccio, che nessun altro sentisse. Ah! non mi mancavano mica, allora, le cose da dirgli. Il coraggio m’era venuto, mille domande mi s’affollavano. Avrei dato un anno della mia vita per poter esser solo un’ora con lui, e afferrarlo per le mani, e dirgli sfrontatamente, guardandolo fisso: — Ma insomma, Hugo! Io voglio leggerti dentro! Che cosa ti senti nel sangue quando scrivi? Che cosa vedi intorno [p. 199 modifica] a te, per aria; che voce senti, che ti parla nell’orecchio quando crei? Che cosa fai nella tua stanza, quando ti splende alla mente una di quelle grandi idee che fanno il giro della terra, e quando ti sgorga dalla penna uno di quei versi che vanno al cuore come un colpo di pugnale o come il grido d’un angelo? Dove l’hai conosciuta la tua Rose della vieille du Printemps che mi ha fatto sospirare per un anno? Di dove t’è uscito quello spaventoso Mazzeppa, di cui vedo perpetuamente la fuga? Come l’hai sognata la Fidanzata del Timballiere? Di dove l’hai cavato Quasimodo? Rivelami dunque uno dei tuoi mille segreti. Parlami di Fantina, parlami del Petit roi de Galice, dimmi qualche cosa del marchese di Lantenac, spiegami come t’è apparso lo spettro che t’ispirò quella spietata pioggia di sangue sulla testa del parricida Kanut, e quell’orribile occhio di fuoco che insegue Caino; dimmi in che parte dell’inferno hai scovato l’amore del prete Claudio e in che parte del cielo hai visto il viso [p. 200 modifica] bianco di Dea! Parlami della tua infanzia, delle prime rivelazioni del tuo genio, di quando il Chateaubriand ti chiamò fanciullo sublime; raccontami delle tue veglie tempestose; dimmi se gridi quando ti balenano le immagini che sgomentano, dimmi se piangi quando scrivi le parole che strappano i singhiozzi, descrivimi le tue torture, le tue ebbrezze e le tue furie, dimmi che cosa pensi e che cosa sei, vecchio misterioso e tremendo!

E pensando queste cose andavo cercando una frase molto significante con cui cominciare il discorso, nel caso che il destro si presentasse.

La fortuna m’assistè. Vittor Hugo uscì per un momento, poi tornò vicino al camminetto e mi sedette accanto. La conversazione s’era rotta in molte conversazioni. Il momento non poteva essere più opportuno. Cento interrogazioni mi corsero in un punto alle labbra, e cominciai arditamente: — Signore!

Vittor Hugo si voltò cortesemente, mi mise [p. 201 modifica] una mano sopra un ginocchio e mi guardò in atto d’aspettazione.

Che cosa volete! Sono disgrazie che possono capitare a tutti. Vi ricordate del sarto letterato dei Promessi sposi, che dopo aver studiate mille belle cose da dire al Cardinal Federigo per farsi onore, arrivato il momento, non sa dir altro che un: — Si figuri! — di cui rimane avvilito per tutta la vita? Ebbene, mi duole il dirlo, e lo dico per castigarmi: io feci la stessissima figura di quel sarto; anzi una figura cento volte più trista. Lo sguardo fisso di Vittor Hugo mi turbò, tutte le mie belle idee scapparono, e non dissi altro che questo....

Insomma, bisogna ch’io lo dica.

Io gli domandai se era stato a vedere l’ Esposizione!

E rimasi là fulminato dalla mia domanda.

Non ricordo più che cosa Vittor Hugo m’abbia risposto. Ricordo soltanto che, qualche momento dopo, parlando dell’Esposizione, disse: — Cest un beau joujou. [p. 202 modifica]

Mais c’est immense, savez-vous, mon maître, — gli osservò un tale.

Ed egli rispose sorridendo: c’est un immense joujou.

Queste parole, presso a poco, mi parve di sentire dal cupo fondo della mia umiliazione. E non osai più aprir bocca. Vittor Hugo, poco dopo, cambiò di posto, le conversazioni parziali tornarono a confondersi in una sola: l’occasione era perduta. Ma mi consolai presto. Vittor Hugo ricominciò a parlare, ed io socchiudendo gli occhi e guardando in alto, per essere un po’ solo con me stesso, cominciai a riandare tutte le belle emozioni di cui ero debitore a quell’uomo, accompagnando il mio pensiero al suono dolce e grave della sua voce; e pensavo alle letture di Notre Dame fatte di nascosto dietro i banchi della scuola, alle tante volte che avevo baciato i volumi delle Contemplazioni sotto un capanno di gelsomini, nel giardino della mia casa paterna; ai versi suoi che solevo declamare sotto la tenda, [p. 203 modifica] di notte, in mezzo al silenzio degli accampamenti; al batticuore che avevo provato la prima volta che m’era caduto sotto gli occhi, un suo informe ritratto in litografia; all’immensa distanza che sentivo tra lui e il mio desiderio di conoscerlo, nella piccola città di provincia dove avevo letto il suo primo libro; a un giorno che, ancora ragazzo, avevo fatto ridere mio padre domandandogli: — E se comparisse tutt’a un tratto Vittor Hugo, mentre noi siamo a tavola, che cosa faresti? — ; e tutti questi ricordi lontani, evocati là, vicino a lui, mi commovevano, e ripetevo tra me: — Ed ora l’ho conosciuto, lo conosco, sono nella sua casa; questa voce che sento è la sua; — egli è qui, — a un passo da me. Ma è proprio vero? — E aprivo gli occhi e dicevo: — Eccolo lì, il mio caro e terribile Hugo; non è mica un sogno, per Dio!

Mentre m’abbandonavo a questi pensieri, sentii tutt’a un tratto che tutti s’alzavano e salutavano. M’avvicinai anchi’io a Vittor Hugo, gli [p. 204 modifica] presi la destra con tutt’e due le mani.... e non potei dire una parola.

Ma egli mi guardò e mi comprese, e disse, stringendomi la mano, e fissandomi con uno sguardo sorridente e un po’ triste:

— Addio, caro signore.

Poi soggiunse: — No, addio. A rivederci, non è vero?

Non so.... mi par d’aver fatto la bestialità di rispondere: A rivederci.

E uscii di là commosso, felice, con un po’ di melanconia, e molto confuso, dando una fiancata in un seggiolone.

VIII.

Questa è l'impressione che mi fece Vittor Hugo in casa sua. Ma non l’avrei visto intero, [p. 205 modifica] se non l’avessi visto in pubblico, in una di quelle solennità, nelle quali, qualunque siano, la sua presenza è lo spettacolo più curiosamente desiderato. Lo vidi nel teatro dello Châtelet quando pronunziò il suo discorso di presidente per l’inaugurazione del Congresso letterario. Un’ora prima che comparisse, quel vasto teatro era già affollato. La platea era piena di scrittori e d’artisti d’ogni paese, fra cui s’incrociavano gli sguardi curiosi, i cenni e le interrogazioni, conoscendo ciascuno, in quella folla, moltissimi nomi e pochissimi visi, ed essendo desiderio di tutti di completare in quella bella occasione le proprie conoscenze. Si vedeva un gran movimento di teste canute e di teste giovanili, di begli occhi pieni di pensiero, di visi che s’avvicinavano e si sorridevano, di chiome nere che si chinavano dinanzi alle chiome bianche, di mani che si cercavano e si stringevano; e si sentiva parlare tutte le lingue, e correre in ogni parte un fremito di vita, che rallegrava. Sul vasto palco scenico illuminato, v’erano [p. 206 modifica] i delegati di tutte le nazioni, dalla Svezia all’Italia, e dalla repubblica di San Salvador alla Russia: un grande stato maggiore di poeti, di romanzieri, di dotti, d’uomini di Stato, di pubblicisti e d’editori, fra cui spiccava il viso fine e sorridente del Turghenief, la bella testa ardita di Edmondo About e la figura simpatica di Jules Simon, bersagliati da mille sguardi. Ma la grande curiosità era di vedere Vittor Hugo. C’erano centinaia di stranieri che non l’avevano mai visto; il suo nome suonava su tutte le labbra; quasi tutti gli sguardi eran rivolti dalla parte del palco dove doveva apparire. Ad ogni movimento che si facesse tra le scene, seguiva un rimescolio profondo in tutto il teatro. Era bello e consolante vedere una curiosità così ardente in quella gran folla così varia di sangue, e pensare che chi la provocava era un vecchio poeta. Improvvisamente tutti i delegati s’alzarono, fra tutte quelle teste grigie e bianche si vide apparire una testa più bianca di tutte, e uno scoppio formidabile [p. 207 modifica] applausi, — uno di quegli applausi che debbono destare nell’anima di chi li riceve un senso quasi di sgomento, e che ripercuotendosi nell’anima di chi applaudisce, v’ingigantiscono il sentimento che li ha fatti prorompere; — un solo immenso applauso, tempestoso, ostinato, interminabile, fece tremare il teatro. Sul viso di Vittor Hugo passò un lampo — un lampo solo — ma che rivelò tutta l’anima sua. Subito dopo riprese il suo aspetto abituale di gravità. S’avvicinò alla ribalta a passi un po’ incerti, circondato dal suo illustre corteo, si mise accanto a un tavolino, e cominciò a leggere il suo discorso, scritto a caratteri enormi sopra grandissimi fogli. Non fu uno dei suoi discorsi più felici; ma non è qui il luogo di giudicarlo. Lesse lentamente, ad alta voce, spiccando con arte perfetta ogni frase, ogni parola, ogni sillaba. La sua voce è ancora gagliarda e sonora, benché nei lunghi periodi s’affievolisca un poco, egli sfugga qualche volta in note acute e stridenti. Ebbe dei momenti stupendi. Quando disse: [p. 208 modifica] — Voi siete gli ambasciatori dello spirito umano in questa grande Parigi; siate i benvenuti; la Francia vi saluta, — disse le ultime parole con un accento pieno di nobiltà e con un gesto largo e vigoroso, che scosse tutto il teatro. Quando disse: — Hommes du passé, prenez-en votre parti, nous ne vous craignons pas, — e così dicendo, scrollò e levò in alto, come un leone, la sua testa possente, e fissò gli occhi fulminei in fondo alla sala, in aria di sfida e di minaccia, e restò qualche momento immobile in quell’atto, col viso infocato, in mezzo a un silenzio profondo; fu veramente bello e terribile come un canto dei suoi Châtiments, e un brivido corse per la platea. Poi il suo discorso pieno fino a quel punto di collere sorde, si raddolcì sull’argomento dell’amnistia, e allora la sua voce mutò suono, e parve quella d’un altro, e quelle nobili parole: — Tutte le feste son fraterne; una festa non è festa se non perdona a qualcuno, — le disse con un accento [p. 209 modifica] inesprimibilmente soave di pietà e di preghiera, che suscitò nella folla un violento fremito di consenso, cento volte più eloquente dell’applauso. E infine dicendo quella frase: — V’è una cosa più grande di qualunque trionfo, ed è lo spettacolo della patria che apre le braccia e del proscritto che appare all’orizzonte, — colorì il suo pensiero con un atto solenne della mano e con uno sguardo dolcissimo e triste, che provocò un uragano d’applausi e di grida. Dopo di lui, parlarono molti altri, terminando tutti i loro discorsi con un saluto riverente al grande maestro; ma egli non diede segno alcuno di commozione. Solo di tratto in tratto la sua fronte si rischiarava; ma tornava subito a corrugarsi, come se il pensiero ostinato e implacabile, che l’aveva lasciato libero un momento, si fosse daccapo impadronito di lui. Finito l’ultimo discorso, si alzò e s’avviò per uscire. E allora tuonò un ultimo applauso, più caldo, più fragoroso e più persistente del primo, accompagnato da uno [p. 210 modifica] scoppio di grida d’entusiasmo, che lo costrinsero a soffermarsi. Non era un applauso al discorso; era un applauso alle Orientali e alta Leggenda, era un tributo di gratitudine al poeta dei grandi affetti, un saluto all’antico lottatore, un buon augurio al settuagenario, un addio all’uomo che molti non avrebbero mai più riveduto. — Egli rispose con un lungo sguardo e disparve.

IX.

Ecco Vittor Hugo come io lo vidi, nel colmo delle sua gloria. Le generazioni avvenire lo vedranno alla stessa altezza? I più ne dubitano. Ma il tempo non potrà far di più che spolparlo: la sua ossatura colossale rimarrà diritta, come un enorme albero sfrondato, sull’orizzonte della storia [p. 211 modifica] letteraria del secolo, e legioni d’ingegni voleranno colle penne cadute dalle sue ali. Egli è uno di quegli scrittori poderosi, che si presentano alla posterità insanguinati, scapigliati ed ansanti, portando sul proprio stemma i titoli delle loro opere come nomi di battaglie vinte o di disastri gloriosi o di sublimi follie, e la posterità li saluta con riverenza, come grandi atleti feriti. Egli sarà certo ammirato almeno come uno dei più strani fenomeni letterari del suo tempo, e uno degli esempi più meravigliosi della forza e dell’ardimento dell’ingegno umano. Il est bon, come disse egli stesso, que l’on trouve sur les sommets ces grands exemples d’audace. Egli ha mostrato le altezze a cui il genio può salire e ha rischiarato i precipizii in cui il genio rovina. Ha fatto pensare e palpitare per mezzo secolo milioni di creature umane. Quando non rimanesse altro di lui, rimarrebbe come un fatto storico la sua popolarità immensa fra tutte le genti, come un esempio consolante dell’eco che può trovare nell’umanità la parola d’un uomo [p. 212 modifica] che non ha altra forza che la parola. Ma egli rimarrà saldo e superbo sopra una sommità solitaria, e quanto più la letteratura, nel suo paese e in tutta Europa, s’affonderà nello scetticismo, nella sensualità e nella putredine, e più parrà alta e nobile la sua figura lontana. E la giornata del grande lavoratore non è per anco finita. Ora par che attraversi un triste periodo. Dio voglia che ne esca, e che noi sentiamo ancora per molti anni la sua voce potente, che commosse già la giovinezza dei nostri padri. Essa ci dirà fino all’ultimo momento qualche cosa di grande e di vero. L’abbiamo intesa da fanciulli; vorremmo intenderla ancora «quando l’albero comincerà a rendere alla terra le sue foglie morte.» Noi gli facciamo quest’augurio. Noi speriamo che il grande poeta, sorto coll’alba dell’ottoccento, accompagni il secolo fino al tramonto; che il suo genio risplenda fin che batterà il suo cuore, e che l’Europa raccolga insieme l’ultimo soffio della sua vita secolare e l’ultimo canto della sua epopea immortale.