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vittor hugo. 169


-nuto, nella contemplazione d’un gatto che dormiva sopra una finestra del pian terreno. E l’ho da dire tal quale? Sentivo un leggierissimo tremito nelle ginocchia, come se mi fosse già passata da un pezzo l’ora della colezione. Poi non ricordo più bene. So che m’accorsi improvvisamente che salivo le scale; ma colla profonda sicurezza che, arrivato alla porta, sarei tornato giù senza sonare. Salivo lentamente; sopra uno scalino mi sentivo un coraggio da leone; sopra un altro scalino mi pigliava la tentazione di voltar le spalle e di scappar come un ladro. Mi fermai due o tre volte per asciugarmi la fronte, che stillava. Oh mai nessun alpinista, ne son sicuro, ha fatto un’ascensione più affannosa di quella! Avrei voluto tornar indietro; ma non potevo. Che so io? C’erano cinquecento De Amicis, di tutte le stature, che ingombravano la scala dietro di me, affollati e stretti come acciughe tra il muro e la ringhiera, che mi dicevano tutt’insieme a bassa voce: — Avanti! — All’improv-