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vittor hugo. 141


ardente, come palleggiati dalla sua mano. Eterne pagine si succedono in cui l’Hugo non è più lui. Egli travia, erra a tentoni nelle tenebre, e delira. Non sentiamo più la parola dell’uomo; ma l’urlo o il balbettio del forsennato. E i periodi enormi cascano sui periodi enormi, a valanghe oscuri e pesanti, o i piccoli incisi sui piccoli incisi, fitti e rabbiosi come la grandine, e s’incalzano e s’affollano confusamente le assurdità, le vacuità, le iperboli pazze e le pedanterie. Vittor Hugo pedante! Eppure sì; quando ci esprime cento volte l’idea che abbiamo afferrata alla prima, quando ci mostra lentamente e ostinatamente, una per una, le mille faccette d’una pietra ch’egli crede un tesoro e ch’è un diamante falso. E in quel frattempo, mentre sonnecchiamo o fremiamo, ci si affacciano alla mente le analisi spietate dei critici, le ire dei classicisti, gli anatemi dei pedanti, gli scherni dei suoi infiniti avversarii, e stiamo per dire: — Han ragione! — Ma che! Arrivati in fondo alla pagina, v’è un pensiero che ci fa bal-