Ricordi di Parigi/Emilio Zola
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EMILIO ZOLA
I.
Una volta, in un vagone, vidi un francese che leggeva un libro con grande attenzione, facendo di tanto in tanto un segno di stupore. Tutt’a un tratto, mentre cercavo di leggere il titolo sulla copertina, esclamò: — Ah! c’est dégooûtant! — e cacciò il libro nella valigia, con un atto di sdegno e di disprezzo. Rimase qualche minuto sopra pensiero; poi riaperse la valigia, riprese il libro e ricominciò a leggere. Poteva aver letto un paio di pagine, quando diede improvvisamente
in una grande risata, e voltandosi verso il suo vicino, disse: — Ah! caro mio, c’è qui una descrizione d’un pranzo di nozze che è una vera meraviglia! — Poi continuò la lettura, dando a vedere in mille modi che ci provava un gusto infinito. Il libro era l’Assommoir. Quello che accadde a quel francese leggendo l’Assommoir accade a quasi tutti alla prima lettura dei romanzi dello Zola. Bisogna vincere il primo senso di ripugnanza: poi, qualunque sia l’ultimo giudizio che si porta sullo scrittore, si è contenti d’averlo letto, e si conclude che si doveva leggere. Il primo effetto che produce, in specie dopo la lettura d’altri romanzi, è come quello che si prova all’uscire da un teatro caldo e profumato, ricevendo nel viso il soffio fresco dell’aria aperta, il quale dà una sensazione viva di piacere, anche quando porta un cattivo odore. Letti i romanzi suoi, pare che in tutti gli altri, anche nei più veri, ci sia un velo tra il lettore e le cose; e che ci corra la stessa differenza che fra visi
umani, gli uni ritratti in una tela e gli altri riflessi in uno specchio. Par di vedere e di toccare la Verità per la prima volta. Certo che, per quanto si abbia lo stomaco forte e le nez solide, come Gervaise all’ospedale, qualche volta bisogna fare un salto indietro, come a una fiatata improvvisa d’aria pestifera. Ma anche in quei punti, come quasi ad ogni pagina, nell’atto stesso che protestiamo furiosamente: — Questo è troppo! — c’è un diavolo dentro di noi che ride e strepita e se la gode mattamente, a nostro dispetto. Si prova lo stesso piacere che a sentir parlare un uomo infinitamente schietto, anche quando sia brutale; un uomo che esprime, come dice Otello, la sua peggiore idea colla sua peggiore parola, che descrive quello che vede, che ripete quello che ascolta, che dice quello che pensa, che racconta quello che è, senza nessun riguardo di nessunissima natura, come se parlasse a se stesso. Alla buon’ora. Fin dalle prime righe, si sa con chi s’ha da fare. I delicati si ritirino. È un affar
convenuto: egli non tacerà nulla, non abbellirà nulla, non velerà nulla, né sentimenti, né pensieri, né discorsi, né atti, né luoghi. Sarà un romanziere giudice, chirurgo, casista, fisiologo, perito fiscale, che solleverà tutti i veli, e metterà le mani in tutte le vergogne, e darà il nome proprio a tutte le cose, freddamente, non badando, anzi meravigliandosi altamente della vostra meraviglia. E così è infatti. Nell’ordine morale, egli svela dei suoi personaggi fin quei profondissimi sentimenti, che sogliono essere per tutti segreti eterni, quando non si bisbiglino tremando nel finestrino d’un confessionale; nell’ordine materiale, ci fa sentire tutti gli odori, tutti i sapori e tutti i contatti; e in fatto di lingua, ci fa grazia appena di quelle pochissime parole assolutamente impronunziabili, che i ragazzi viziosi cercano di soppiatto nei vocabolari. Su questa via nessuno è mai andato più in là, e non si sa proprio se si debba ammirare di più il suo ingegno o il suo coraggio. Fra le miriadi di personaggi di
romanzo che abbiamo nella memoria, i suoi rimangono come affollati in disparte, e sono i più grossi e i più palpabili di tutti. Non li abbiamo solamente visti passare e sentiti discorrere; ci siamo strofinati contro di loro, abbiamo sentito il loro fiato, l’odore delle loro carni e dei loro panni; abbiamo visto circolare il sangue sotto la loro pelle; sappiamo in che atteggiamento dormono, che cosa mangiano, come si vestono e come si spogliano; conosciamo il loro temperamento al pari del nostro, le predilezioni più segrete dei loro sensi, le escandescenze più turpi del loro linguaggio, il gesto, la smorfia, le macchie della camicia, le scaglie della cute e il sudiciume delle unghie. E come i personaggi, ci stampa nella mente i luoghi, poiché contempla tutte le cose collo stesso sguardo, che abbraccia tutto, e le riproduce colla stessa arte, a cui non sfugge nulla. In una stanza già disegnata e dipinta, si sposta il lume; egli interrompe il racconto per dirci dove guizza e in che cosa si frange, nella nuova
direzione, il raggio della fiammella, e come luccicano, in un angolo oscuro, le gambe d’una seggiola e i cardini d’una porta. Dalla descrizione d’una bottega ci fa capire che è sonato da poco mezzogiorno, o che manca un’ora circa al tramonto. Nota tutte le ombre, tutte le macchie di sole, tutte le sfumature di colore che si succedono d’ora in ora sulla parete, e rende ogni cosa con una così meravigliosa evidenza, che cinque anni dopo la lettura, ci ricorderemo dell’apparenza che presentava una tappezzeria, verso le cinque di sera, quando le tendine della finestra erano calate, e dell’azione che esercitava quella apparenza sull’animo d’un personaggio ch’era seduto in un angolo di quella stanza. Non dimentica nulla, e dà vita ad ogni cosa, e non c’è cosa dinanzi a cui il suo pennello onnipotente s’arresti; né i mucchi di biancheria sudicia, né i vomiti dei briachi, né la carne fradicia, né i cadaveri disfatti. Ci fa uscire col mal di capo dall’alcova profumata di Renée, e ci fa stare un’ora
in una bottega da salumaio, in compagnia della bella Lisa, dal seno saldo e immobile che pare un ventre, in mezzo alle teste di porco affondate nella gelatina, alle scatole di sardelle, che trasudano l’olio, ai prosciutti sanguinanti, al vitello lardato e ai pasticci di fegato di lepre, dipinti, o piuttosto dati a fiutare e a toccare in maniera, che, terminata la lettura, si lascia il libro, senz’avvedersene, e si cerca colle mani la catinella. E via via, il buon odore delle spalle di Nana, l’odor di pescheria delle sottane della bella normanna, il puzzo dell’alito di Boit-sans-soif, il tanfo del baule di Lantier; egli ci fa sentir tutto, inesorabilmente, aprendoci le narici a forza coll’asticciuola della penna; e descrive il parco del Paradou fiore per fiore, il mercato di Sant’Eustachio pesce per pesce, la bottega di madame Lecoeur cacio per cacio, e il pranzo di Gervaise boccone per boccone. Nella stessa maniera procede riguardo alle occupazioni dei suoi personaggi, alle quali ci fa assistere, spiegandole minutamente, di
qualunque natura esse siano, in modo che s’impara dai suoi romanzi, come da Guide pratiche d’arti e mestieri, a fare i biroldi, a lavorar da ferraio, a stirar le camicie, a trinciare i polli, a saldar le grondaie, a servire la messa, a dirigere una contraddanza. Fra tutte queste cose, in tutti questi luoghi, di cui si respira l’aria, e in cui si vede e si tocca tutto, si muove una folla svariatissima, di signore corrotte fino alla midolla, d’operai incarogniti, di bottegaie sboccate, di banchieri bindoli, di preti bricconi, di sgualdrinelle, di bellimbusti, di mascalzoni e di sudicioni d’ogni tinta e d’ogni pelo, — fra i quali apparisce qua e là, rara avis, qualche faccia di galantuomo, — e lì fanno fra tutti un po’ di tutto, dal furto all’incesto, girando fra il codice penale e l’ospedale e il monte di pietà e la taverna, a traverso a tutte le passioni e a tutti gli abbrutimenti, fitti nel fango fino al mento, in un’aria densa e grave, ravvivata appena di tempo in tempo dal soffio d’un affetto gentile, e agitata alternatamente
da alti cachinni plebei e da grida strazianti di affamati e di moribondi. E malgrado ciò, egli è uno scrittore morale. Si può affermarlo risolutamente. Emilio Zola è uno dei romanzieri più morali della Francia. E fa davvero stupore che ci sia chi lo mette in dubbio. Del vizio egli fa sentire il puzzo, non il profumo; le sue nudità son nudità di tavola anatomica, che non ispirano il menomo pensiero sensuale; non c’è nessuno dei suoi libri, neanche il più crudo, che non lasci nell’animo netta, ferma, immutabile l’avversione o il disprezzo per le basse passioni che vi sono trattate. Egli non è, come il Dumas figlio, legato da un’invincibile simpatia ai suoi mostri di donne, a cui dice: — Infami — ad alta voce e — care — a fior di labbra. Egli mette il vizio alla berlina, nudo, brutalmente, senza ipocrisia e senza pietà, e standone tanto lontano che non lo sfiora neanche coi panni. Forzato dalla sua mano, è il vizio stesso che dice: — sputate e passate. — I suoi romanzi, come dice egli stesso,
sono veramente «morale in azione.» Lo scandalo che n’esce non è che per gli occhi e per gli orecchi. E come si tien fuori, come uomo, dalla melma che rimescola colla penna, si tien fuori completamente, come scrittore, dai personaggi che crea. Non c’è forse altro romanziere moderno che si rimpiatti più abilmente di lui nelle opere proprie. Letti tutti i suoi romanzi, non si capisce chi sia e che cosa sia. È un osservatore profondo, è un pittore strapotente, è uno scrittore meraviglioso, forte, senza rispetti umani, brusco, risoluto, ardito, un po’ di malumore e poco benevolo; ma non si sa altro. Soltanto, benché non si veda mai a traverso le pagine dei suoi libri il suo viso intero, si intravvede però la sua fronte segnata da una ruga diritta e profonda, e s’indovina ch’egli deve aver visto da vicino una gran parte delle miserie e delle prostituzioni che descrive. E pare un uomo, il quale essendo stato offeso dal mondo, se ne vendichi strappandogli la maschera e mostrandolo per la
prima volta com’è: in gran parte odioso e schifoso. Una persuasione profonda lo guida e lo fa forte: che si debba dire e descrivere la verità; dirla e descriverla ad ogni proposito, a qualunque costo, qualunque essa sia, tutta, sempre, senza transazioni, sfrontatamente. Ha in questo anche lui, come dice dello Shakespeare Vittor Hugo, une sorte de parti pris gigantesque. A questo «partito preso» adatta conseguentemente l’arte sua, che viene ad essere una riproduzione piuttosto che una creazione; ed è infatti un’arte tranquilla, paziente, metodica, che non manda grandi lampi, ma che rischiara ogni cosa, d’una luce eguale, da tutte le parti; ardimentosa, ma guardinga nei suoi ardimenti; sempre sicura dei fatti propri; che s’alza poco, ma non casca mai, e procede a passo lento, ma per una via direttissima, verso un termine che vede chiarissimamente. I suoi romanzi non son quasi romanzi. Non hanno scheletro, o appena la colonna vertebrale. Provate a raccontarne uno: è impossibile. Sono
composti d’una quantità enorme di particolari, che vi sfuggono in gran parte dopo la lettura, come i mille quadretti senza soggetto d’un museo olandese. Perciò si rileggono con piacere. Vi si aspetta di pagina in pagina un grosso fatto, che ci fugge davanti, e non si raggiunge mai. Non vi accade mai un urto forte di affetti, d’interessi, di persone, che tenga l’animo sospeso, e da cui tutto il romanzo dipenda. Non ci sono punti alti, da cui si domini con uno sguardo un grande spazio; è una continua pianura in cui si cammina a capo chino, deviando ogni momento e arrestandosi ad ogni passo ad osservare la pietra, l’insetto, l’orma, il filo d’erba. I suoi personaggi non agiscono quasi. La maggior parte non sono necessarii a quella qualsiasi azione che si svolge nel romanzo. Non son personaggi che recitino la commedia; son gente intesa alle proprie faccende, colta colla fotografia istantanea, senza che se n’accorga. Nel romanzo c’è qualche mese o qualche anno della vita di ciascuno. Li vedete
vivere, ciascuno per conto proprio, e ciascuno v’interessa principalmente per sé medesimo; poco o punto per quello che ha che fare cogli altri. Di qui nasce la grande efficacia dello Zola. Di quanto difetta il suo romanzo in orditura, di tanto abbonda in verità. Non ci si vede fa mano del romanziere che sceglie i fatti, che li accomoda per congegnarli, che li nasconde l’un dietro l’altro per sorprenderci, e che prepara un grande effetto con mille piccoli sacrifizi della verosimiglianza e della ragione. Il racconto va da sé, in modo che non par possibile altrimenti, e sembra una esposizione semplice del vero, non solo per i caratteri, ma anche per la natura dei fatti, e per l’ordine in cui si succedono. Si legge e par di stare alla finestra, e di assistere ai mille piccoli accidenti della vita della strada. Perciò quasi tutti i romanzieri, in confronto suo, fanno un po’ l’effetto di giocatori di bussolotti. E non avendo la preoccupazione comune degli scrittori di romanzo, d’annodare e di districare molte fila
e di tirarle da varie parti ad un punto, è libero di rivolgere tutte le sue facoltà al proprio fine, che è di ritrarre dal vero, e può così raggiungere in quest’arte un grado altissimo di potenza. Non ha, d’altra parte, delle facoltà molto varie; e lo sente; e quindi aguzza e fortifica mirabilmente quelle che possiede, per supplire al difetto delle altre. E si può mettere in dubbio se questo difetto sia a deplorarsi, che forse una più vasta immaginazione avrebbe dimezzato da un altro lato la sua potenza, distraendo una parte delle sue forze dalla descrizione e dall’analisi. Dotato invece come si ritrova, egli concepisce il romanzo in maniera, che il suo concetto e il suo scopo non inceppano menomamente la libertà del suo lavoro. Inteso ad una scena e ad un dialogo, par che dimentichi il romanzo; è tutto lì; vi si sprofonda e vi lavora con tutta l’anima sua. Il dialogo procede senza scopo, la scena si svolge senza vincoli, e perciò son sempre, l’uno e l’altra, verissimi. Intanto egli coglie a volo mille
nonnulla, il carro che passa, la nuvola che nasconde il sole, il vento che agita la tenda, il riflesso d’uno specchio, un rumore lontano, e il lettore stesso, dimenticando ogni altra cosa, vive tutto collo scrittore in quel momento e in quel luogo, e vi prova una illusione piacevolissima, che non gli lascia desiderare null’altro. Con questa facoltà di dar rilievo a ogni menoma cosa, e lavorando, come fa, ordinato e paziente, riesce insuperabile nell’arte delle gradazioni, nell’esporre, per una serie di transizioni finissime, la trasformazione lenta e completa d’un carattere o d’uno stato di cose, in modo che il lettore va innanzi con lui, senz’accorgersene, a piccolissimi passi, e prova poi un sentimento di profonda meraviglia, quando arriva alla fine, e riconosce, voltandosi indietro, che ha fatto un immenso cammino. La efficacia grande di parecchi suoi romanzi consiste quasi intera in quest’arte. I suoi romanzi son fatti a maglia: una maglia fittissima di piccoli episodi, formati di dialoghi rotti e di descrizioni a
ritornello, in cui ogni parola ha colore e sapore, e ogni inciso fa punta, e in ogni periodo c’è, per così dire, tutto lo scrittore. È raro che ci si provi una emozione fortissima e improvvisa. È forse cinica nei suoi romanzi la scena desolante e sublime del Monsieur, écoutez donc, di Gervaise, quando s’offre a chi passa, moribonda di fame, e quando si sfama, piangendo, sotto gli occhi di Goujet. Quasi sempre, leggendo, si prova un seguito di sensazioni acri di piacere, di piccole scosse e di sorprese che lasciano l’animo incerto; qui una risata, là un brivido di ribrezzo, un po’ d’impazienza, una meraviglia grande per una descrizione prodigiosamente viva, una stretta al cuore per una piaga umana spietatamente denudata, e un leggiero stupore continuo dalla prima all’ultima pagina, come allo svolgersi d’una serie di vedute d’un paese nuovo. Son romanzi che si fiutano, che si assaporano a centellini, come bicchieri di liquore, e che lasciano l’alito forte e il palato insensibile ai dolciumi. A ciò contribuisce
in gran parte il suo stile, solido, sempre stretto al pensiero, pieno d’artifizi ingegnosissimi, accortamente nascosti sotto un certo andamento uniforme, padroneggiato sempre dallo scrittore, stupendamente imitativo dei movimenti e dei suoni, risoluto ed armonico, che par accompagnato dal picchio cadenzato d’un pugno di ferro sul tavolino, e in cui si sente il respiro largo e tranquillo d’un giovane poderoso. La forza, infatti, è la dote preminente dello Zola, e chiunque voglia definirlo dice per prima cosa: — È potente. Ognuno dei suoi romanzi è un grand tour de force, un peso enorme ch’egli solleva lentamente e rimette lentamente per terra, facendo quanto è in lui per dissimulare lo sforzo. Letta l’ultima pagina, vien fatto di dire: — Hein? quelle poigne! — come quei tre beoni dell’ Assommoir, a proposito del marchese che aveva steso in terra tre facchini a colpi di testa nel ventre. Ed è strana veramente l’apparizione di questo romanziere in maniche di camicia, dal petto
irsuto e dalla voce rude, che dice tutto a tutti, in piena piazza, impudentissimamente; la sua apparizione improvvisa in mezzo a una folla di romanzieri in abito nero, ben educati e sorridenti, che dicono mille oscenità in forma decente, in romanzetti color di rosa fatti per le alcove e per le scene. Questo è il suo più alto merito. Egli ha buttato in aria con un calcio tutti i vasetti della toeletta letteraria e ha lavato con uno strofinaccio di tela greggia la faccia imbellettata della Verità. Ha fatto il primo romanzo popolare che abbia veramente «l’odore del popolo.» Ha aggredito quasi tutte le classi sociali, flagellando a sangue la grettezza maligna delle piccole città di provincia, la furfanteria dei faccendieri d’alto bordo, la corruzione ingioiellata, l’intrigo politico, l’armeggio del prete ambizioso, la freddezza crudele dell’egoismo bottegaio, l’ozio, la ghiottoneria, la lascivia, con una tale potenza, che quantunque preceduto su questa via da altri scrittori ammirabili, vi parve entrato per il primo, e i
flagellati si sentirono riaprire le ferite antiche con uno spasimo non mai provato. Compiendo quest’ufficio, si è forse spinto qualche, volta di là dall’arte; ma aperse all’arte nuovi spiragli, per cui si vedono nuovi orizzonti, e insegnò colori, colpi di scalpello, sfumature, forme, mezzi d’ogni natura, da cui potranno trarre un vantaggio immenso altri mille ingegni, benché avviati, per un’altra strada, ad una meta affatto diversa. E non c’è da temere che derivi da lui una scuola eccessiva e funesta, poiché la facoltà descrittiva, che è la sua dominante, non può arrivare più in là sulla via che egli percorre, né il culto della verità nuda avere un sacerdote più intrepido e più fedele. Gli imitatori cadranno miserabilmente sulle sue orme, sfiancati, ed egli rimarrà solo dov’è giunto sull’ultimo confine dell’arte sua, ritto a filo sopra un precipizio, nel quale chi vorrà passargli innanzi a ogni costo, cadrà a capofitto. Ma non si può pronunciare su di lui, per ora, l’ultimo giudizio. Non ha che trentasette anni, è ancora nel fiore della sua
gioventù di scrittore, ed è possibile che si trasformi crescendo di statura. È vero che la strada per cui s’è messo è così profondamente incassata e inclinata, che non si capisce come ne possa uscire. Ma è certo che ci si proverà, e se non riuscirà nel suo intento, noi assisteremo almeno a uno di quegli sforzi potenti, e avremo da lui uno di quei «capolavori sbagliati» che non destano minor meraviglia dei grandi trionfi.
II.
La sua storia letteraria è una delle più curiose di questi tempi. I suoi primi lavori furono i Contes à Ninon, scritti a ventidue anni e pubblicati molto tempo dopo. Li c’è ancora lo Zola imberbe, con una lagrima negli occhi e un sorriso sulle labbra, appena turbato da una leggera espressione di tristezza. Non tiene affatto a questi racconti, e s’arrabbia coi critici che, o sinceramente o malignamente, dicono di preferirli ai suoi romanzi. A un tale che gli espresse tempo fa questo giudizio, rispose: — Vi ringrazio; ma se venite a casa mia vi farò vedere certi miei componimenti di terza grammatica, che vi piaceranno anche di più. — I suoi primi romanzi furono quei quattro arditissimi, fra cui Thérèse Raquin, ora un po’ dimenticati, che vennero definiti da un critico «letteratura putrida.» C’era già lo Zola uomo; ma solamente dalla cintola in su. Le sue grandi facoltà, artistiche, già spiegate, ma non ancora sicure, sentivano il bisogno di reggersi sopra argomenti mostruosi, che attirassero per sé soli l’attenzione. Si vedeva però già in quei romanzi uno scrittore imperterrito, ch’era risoluto a farsi largo a colpi di gomito, e che aveva il gomito di bronzo. Uno di quei romanzi, Madeleine Férat, che s’aggira sopra un fatto osservato dall’autore, d’una ragazza la quale, abbandonata dall’uomo che ama, ne sposa un altro, ed ha parecchi anni dopo un figliuolo che somiglia al primo, gli suggerì l’idea di scrivere quella serie di romanzi fisiologici, che intitolò Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le second Empire; e fin dal primo giorno gli balenò alla mente tutto il lavoro, e tracciò l’albero genealogico che pubblicò poi nella Page d’amour. Credevo che fosse anche questa una delle tante ostentazioni di «un disegno vasto ed antico» con cui gli autori cercano d’ingrandire nel pubblico il concetto delle proprie opere; ma i manoscritti, ch’ebbi l’onore di vedere, mi disingannarono. Fin dal primo principio egli stese l’elenco dei personaggi principali della famiglia Rougon-Macquart, e destinò a ciascuno la sua carriera, proponendosi di dimostrare in tutti gli effetti dell’origine, dell’educazione, della classe sociale, dei luoghi, delle circostanze, del tempo. I primi romanzi di questo nuovo «ciclo» non ottennero molto successo. I linguisti, gli stilisti, tutti coloro che sorseggiano i libri con un palato letterario, ci sentirono della forza, ci trovarono del bello e ci presentirono del meglio; ma non sospettarono che ci fosse sotto un romanziere di primo ordine. Lo Zola se ne indispettì, e gettò allora un guanto di sfida a Parigi, pubblicando quella famosa Curée in cui è manifesta la risoluzione di levar rumore a ogni costo; quello splendido e orrendo saturnale di mascalzoni in guanti bianchi, in cui il meno turpe degli amori è l’amor d’un figliastro per la matrigna e la donna più onesta è una mezzana. Il romanzo, infatti, fece chiasso; si gridò allo scandalo, come si grida a Parigi, per educazione; ma si lesse il libro avidamente, e quel nome esotico di Zola suonò per qualche tempo da tutte le parti. Ma non fu nemmen quello un successo come egli aspettava o desiderava. E fu anche minore per i romanzi posteriori. Lo spaccio era scarso; la cerchia dei lettori, ristretta, e lo Zola, che sentiva in se l’originalità e la forza d’un romanziere popolare, se ne rodeva. Ma non si perdeva d’animo. — Non sono abituato, — scriveva, — ad aspettare una ricompensa immediata dai miei lavori. Da dieci anni pubblico dei romanzi senza tender l’orecchio al rumore che fanno cadendo nella folla. Quando ce ne sarà un mucchio, la gente che passa sarà ben forzata a fermarsi. — La sua fama, non di meno, andava allargandosi, benché lentamente. In Russia, dove si tien dietro con simpatia a tutte le novità più ardite della letteratura francese, era già notissimo, e tenuto in gran conto. Ma questo non gli bastava. Egli aveva bisogno d’un successo clamoroso e durevole, che lo sollevasse d’un balzo, e per sempre, dalla schiera degli «scrittori di talento» che si salutano confidenzialmente con un atto della mano. E ottenne finalmente il suo intento coll’Assommoir. Cominciarono a pubblicarlo in appendice nel Bien public; ma dovettero lasciarlo a mezzo, tante furono le proteste che lanciarono gli abbonati contro quell’ «orrore.» Allora fu pubblicato tutto intero in un giornale letterario, e prima che fosse finito cominciarono quelle calde polemiche, che divennero ardenti dopo la pubblicazione del volume, e che saranno ricordate sempre come una delle più furiose battaglie letterarie dei tempi presenti. Queste polemiche diedero un impulso potente al successo del romanzo. Fu un successo strepitoso, enorme, incredibile. Erano anni che non s’era più sentito, a proposito d’un libro, un fracasso di quella fatta. Per lungo tempo tutta Parigi non parlò d’altro che dell’Assommoir lo si sentiva discutere ad alta voce nei caffè, nei teatri, nei club, nei gabinetti di lettura, persino nelle botteghe; e c’erano gli ammiratori fanatici, ma erano assai di più gli avversari acerrimi. La brutalità inaudita di quel romanzo parve una provocazione, una ceffata a Parigi, una calunnia contro il popolo francese; e si chiamava il libro una «sudiceria da prendere colle molle», un «aborto mostruoso,» un’ «azione da galera.» Si scagliarono contro l’autore tutte le litanie delle ingiurie, da quella di nemico della patria a quella d’ «égoutier littéraire» e di porco pretto sputato, senza giri di frase. Le riviste teatrali della fin dell’anno lo rappresentarono nei panni d’uno spazzaturaio che andava raccattando le immondizie colla fiocina per le vie di Parigi. Ce n’était plus de la critique, com’egli disse: c’était du massacre. Gli negavano l’ingegno, l’originalità, lo stile, persino la grammatica; c’era chi non lo voleva nemmeno discutere; poco mancò che non gli si facessero delle provocazioni personali per la strada. E si spandevano intorno alla sua persona le più stravaganti e più odiose dicerie: che era un sacco di vizi, un mezzo bruto, un uomo senza cuore come Lantier, un beone come Coupeau, un sudicione come Bec-Salé, una brutta faccia come il suo pére Bezougue, il becchino. Ma intanto le edizioni succedevano alle edizioni; i buongustai spassionati dicevano a bassa voce che il romanzo era un capolavoro; il popolo parigino lo leggeva con passione, perché ci trovava il suo boulevard, la sua 'buvette, la sua bottega, la sua vita dipinta insuperabilmente con colori nuovi e tocchi di pennello, in confronto ai quali tutti gli altri gli parevano sbiaditi; e i critici più arrabbiati erano costretti a riconoscere che in quelle pagine tanto bersagliate c’era qualche cosa contro cui si sarebbero rintuzzate eternamente le punte delle loro frecce. Il grande successo dell’Assommoir fece ricercare gli altri romanzi, e si può dire che lo Zola diventò celebre allora. La sua celebrità vera non data che da tre anni. Egli stesso scrisse poco tempo fa a un suo ammiratore d’Italia: — On ne m’a pas gâté en France. Il n’y a pas longtemps qu’on m’y salue. È però una celebrità singolare la sua. Un immenso «pubblico» lo ammira, ma d’un’ammirazione in cui c’è un po’ di broncio e un po’ di diffidenza, e lo guarda di lontano, come un orso male addomesticato. Ha un grande ingegno, non c’è che fare; bisogna pure rassegnarsi a dirlo e a lasciarlo dire. Egli è ancora a Parigi il lion du jour, e non ha che un rivale, il Daudet, che non è però della sua tarchiatura; ma si trattano coi guanti, reciprocamente, per non destare sospetti. Lo Zola però non si vale, e par che non si curi della sua celebrità. Non si fa innanzi; vive raccolto, nel suo cantuccio, con sua moglie, con sua madre e coi suoi bambini. Pochi lo conoscono di vista ed è raro il trovare un suo ritratto. Non frequenta la società, se non quando ci deve andare per studiarla, e quando non ci va con questo scopo si secca: non va che dall’editore Charpentier, che ha una splendida casa, e dà delle feste splendide a cui interviene anche il Gambetta. Non appartiene a nessuna consorteria. Non sta a Parigi che l’inverno; l’estate va in campagna per lavorare tranquillo. Una volta stava all’estremità dell’Avenue Clichy, luogo opportunissimo per studiare il popolo dell’Assommoir ora sta in via di Boulogne, dove stava il Ruffini, poco lontano dalla casa del Sardou.
III.
Per mezzo del mio caro amico Parodi, ebbi l’onore di conoscere lo Zola, e di passar con lui parecchie ore in casa sua.
È un giovane ben piantato; solidement bâti, po’ somigliante, nella travatura delle membra, a Vittor Hugo; più grasso, non molto alto, ritto come una colonna, pallidissimo; e la sua pallidezza apparisce anche maggiore per effetto della barba e dei cappelli neri, che gli stanno ritti sulla fronte come peli di spazzola. È curioso che quasi tutti coloro che vedono il ritratto dello Zola dicono: — Questo viso non mi riesce nuovo. — Ha il viso rotondo, un naso audace, gli occhi scuri e vivi, che guardano con una espressione scrutatrice, fieramente — , la testa d’un pensatore e il corpo d’un atleta, — e mani ben fatte e salde, di quelle che si stringono e si ritengono strette con piacere. Mi rammentò a primo aspetto il suo Gueule-d’or, e mi parve che sarebbe stato in grado di fare le stesse prodezze sopra l’incudine. La sua corporatura gagliarda era messa meglio in evidenza dal suo vestimento. Era in babbuccie, senza colletto e senza cravatta, con una giacchetta ampia e sbottonata, che lasciava vedere un largo torace sporgente, atto a rompere l’onda degli odii e delle ire letterarie. In tutto il tempo che rimasi con lui non lo vidi mai ridere.
Mi ricevette cortesemente, con una certa franchezza soldatesca, senza le solite formule di complimento. Appena fummo seduti, prese in mano un tagliacarte fatto a pugnale, colla guaina, e lo ritenne finché durò la conversazione, sguainandolo e ringuainandolo continuamente con un gesto vivace.
Eravamo nel suo studio: una bella sala piena di luce, decorata di molti quadri a olio; da cui s’indovinava l’uomo che ama molto la casa e che vive molto solo. Certe descrizioni, infatti, di stanze calde e piene di comodi, che si trovano nei suoi romanzi, non possono essere fatte che da un uomo che sta volentieri nel suo nido, in mezzo a tutte le raffinatezze della buona vita casalinga. Aveva davanti un grande tavolino coperto di carte e di libri, disposti con ordine, e sparso di molti piccoli oggetti luccicanti, di forma graziosa, come il tagliacarte; che rivelavano un fino gusto artistico. Tutta la sala indicava l’agiatezza elegante dello scrittore parigino in voga. In una parete c’era un suo grande ritratto a olio, di quando aveva ventisei anni.
Parlò per prima cosa della lingua italiana. — Mi rincresce, — disse, — di non poter leggere libri italiani. Noi altri francesi, in questo, siamo proprio da compiangere. Non sappiamo nessuna lingua. Ma io l’italiano lo dovrei sapere, essendo figliuolo d’un italiano. — E ci accennò lo studio critico della nostra Emma sopra la Page d’amour, pubblicato dall’Antologia, dicendo che era costretto a farselo tradurre perché, essendosi provato a leggerlo, la metà del senso gli era sfuggita.
Si rassegnino dunque i nostri coraggiosi traduttori dell’Assommoir; lo Zola non è in grado di compensare i loro sudori con una lode sincera.
Poi diede al Parodi due risposte monosillabiche in cui si rivelò tutta la franchezza della sua natura.
Il Parodi aveva inteso dire d’una discussione sopra il Chateaubriand seguita a tavola fra il Turghenieff, lo Zola, il Flaubert e uno dei fratelli Goncourt; che questa discussione era durata sei ore, ardentissima, e che due dei commensali avevano difeso l’autore del Genio del Cristianesimo contro gli altri due, i quali negavano che fosse un grande scrittore. Gli pareva che lo Zola fosse stato uno dei difensori, e lo interrogò per accertarsene. E allora segui questo curioso dialogo:
— Vous aimez beacoup Chateaubriand? — Non.
— Vous avez beaucoup lu Chateaubriand?
— Non.
— Allora non siete voi che l’avete difeso nella vostra discussione col signor Turghenieff?
— Jamais.
I difensori del Chateaubriand erano stati il Turghenieff e il Flaubert; lo Zola e il Goncourt l’avevano ostinatamente combattuto. Tutti e quattro sogliono fare colazione insieme una volta al mese, e ogni volta nasce fra loro una discussione di quel genere, che li tiene inchiodati a tavola per mezza giornata.
Questa fu l’introduzione; dopo la quale lo Zola fu costretto a parlare esclusivamente dello Zola. Il mio buon amico gli aveva detto il giorno avanti, annunziandogli la mia visita: — Preparatevi a subire un interrogatorio in tutte le regole, — ed egli aveva risposto gentilmente: — Son bell’e preparato. — Si cominciò dunque l’interrogatorio. Ma non lo feci io; non l’avrei mai osato: lo fece il mio amico con un garbo squisito, e lo Zola cominciò a parlare di sé, senza preamboli, naturalissimamente, come se parlasse d’un altro. Non c’è da dire se stavo inteso con tutta l’anima alle sue parole. Eppure, nel punto che cominciò a parlare, fui colto da una distrazione che mi fece patir la tortura. Non so come, mi balenò alla mente quella comicissima scena della Faute de l’abbé Mouret, quando il vecchio ateo Jeanbernat dà un carico di legnate al frataccio Archangias, al lume della luna, e mi prese tutt’a un tratto così terribile bisogno di ridere, che dovetti mordermi le labbra a sangue per non scoppiare.
Parlò prima della sua famiglia. La madre di suo padre era candiota, e suo padre Francesco Zola, di Treviso. Dopo la pubblicazione dell’Assommoir egli ricevette dal Veneto parecchie lettere di parenti lontani che non conosceva. Parlo con amore di suo padre. Era ingegnere militare nell’esercito austriaco; era assai colto; sapeva lo spagnuolo, l’inglese, il francese, il tedesco; pubblicò vari scritti scientifici, che lo Zola conserva, e ce ne mostrò uno con alterezza. Non ricordo in che anno, ma ancora assai giovane lasciò il servizio militare e si mise a far l’ingegnere civile. Andò in Germania, dove lavorò alla costruzione d’una delle prime strade ferrate; poi in Inghilterra, poi a Marsiglia, donde fece varie escursioni in Algeria, sempre lavorando. Da Marsiglia fu chiamato a Parigi per le fortificazioni. Qui si ammogliò e qui nacque Emilio Zola, che rimase a Parigi fino all’età di tre anni. Poi la famiglia andò a stabilirsi a Aix, dove Francesco Zola lavorò alla costruzione d’un gran canale, che fu battezzato col suo nome e lo serba ancora. Il padre Zola possedeva una gran parte delle «azioni» di questo canale; circa centocinquantamila lire. Morto lui, la società fallì, e alla stretta dei conti, pagati i creditori, non rimase alla vedova che un piccolissimo capitale. Il figliuolo Emilio provò perciò la strettezza fin da ragazzo, ed ebbe una giovinezza poco lieta. A diciott’anni venne a Parigi a cercar fortuna, e qui cominciò per lui una serie di prove durissime. Fu per qualche tempo impiegato nella casa Hachette, prima a cento lire il mese, poi a cento cinquanta, poi a duecento. Poi fu collaboratore del Figaro. Dopo poco tempo, perdette quel posto, e rimase sul lastrico. Arrivato a questo punto lo Zola tagliò corto, ma capii da certi lampi de’ suoi occhi e da certi suoi stringimenti di labbra, che quello dev’esser stato un periodo tremendo della sua vita. S’ingegnò di campare scribacchiando qua e là; ma ne cavava appena tanto da reggersi, e non tutti i giorni. Fu quello il tempo in cui fece quegli studi tristi e profondi sul popolo parigino, che appariscono particolarmente nell’Assommoir e nel Ventre de Paris. Visse in mezzo alla povera gente, abitò in parecchie di quelle case operaie che descrisse poi maestrevolmente nell’Assommoir — in una, fra le altre, dove stavano trecento operai dei più miserabili; — studiò il vizio e la fame, conobbe delle Nana, faticò, digiunò, pianse, si perdette d’animo, lottò con coraggio; ma infine il suo carattere si fortificò in quella vita, e ne uscì armato e preparato alle battaglie che lo aspettavano nella grande arena dell’arte. All’età della leva, però, non era ancora né francese né italiano, e poteva scegliere fra le due nazionalità. — Ma ero nato qui, — disse — avevo qui molti ricordi e molti legami; cominciavo ad aprirmi una strada; amavo il luogo dove avevo sofferto; scelsi per patria la Francia.
Questa è la sua prima vita d’uomo. La sua prima vita letteraria non è meno singolare, ed egli la espose colla medesima franchezza, continuando a giocare col pugnaletto.
Cominciò tardi le sue scuole perché aveva poca salute. — Studiai poco, — disse; — prendevo dei premi; ma ero un cattivo scolaro. — Sentì il primo impulso a scrivere verso i quattordici anni. Era in Umanità. Scrisse fra le altre cose un romanzo sulle Crociate, che conserva ancora, e mise in versi dei lunghi squarci di prosa del Chateaubriand; cosa che deve sconcertare alquanto i critici che vogliono ad ogni costo veder gl’indizii dell’indole d’un grande scrittore anche nelle prime manifestazioni dell’ingegno adolescente. Le sue prime letture furono Walter Scott e Vittor Hugo. — Lessi i due autori insieme — disse — ma senza sentir gran fatto la differenza, perchè non capivo ancora nè lo stile nè la lingua di Vittor Hugo. — Poi cominciò a leggere il Balzac. E anche questa è strana. Il Balzac l’annoiò; gli pareva lungo, pesante, poco «interessante»; non lo capì e non lo fece suo che lungo tempo dopo. Fin qui nessuna lettura gli aveva lasciata una profonda impressione. Più tardi, quando cominciò a leggere pensando, i suoi tre scrittori prediletti furono il Musset, il Flaubert e il Taine. Nel Musset non si vede chiaramente che cosa abbia attinto, se non è il sentimento di certe finezze voluttuose della vita signorile, ch’egli esprime però senza compiacenza, da artista profondo, ma freddo. Del Flaubert non occorre dire: è l’arte medesima, spinta più in là, più minuziosa, più cruda, più vistosamente colorita, e anche più faticosa. Del Taine ritrae specialmente nell’analisi. Il suo metodo è quello seguito dal Taine nello studio sopra il Balzac; procede come lui ordinato, serrato, cadenzato, a passi eguali e pesanti; dal che deriva, a giudizio di alcuni, un certo difetto di sveltezza al suo stile, che è in ispecial modo apparente nei suoi ultimi libri. Egli ha un po’, come si dice in Francia, le pas de l’éléphant. L’azione poi che esercitò su di lui il Balzac è immensa e visibilissima in tutte le sue opere. Egli l’adora, è suo figlio, e se ne gloria. All’apparire dei suoi primi romanzi, tutti pronunziarono il nome del Balzac. Il Charpentier lo presentava agli amici dicendo: — Ecco un nuovo Balzac. — Perciò toccò appena di volo di questo suo padre letterario, come se la cosa dovesse essere sottintesa. Dei suoi studii non disse altro. Non deve avere coltura classica, poiché confessò egli stesso d’essersi trovato imbarazzato a leggere certi libri in latino volgare; e in questo è alla pari con molti dei più illustri scrittori francesi di questi tempi. Ma fece la sua educazione da sè stesso; studiò combattendo, come i generali della rivoluzione; studia man mano che ha da scrivere un romanzo, per quel romanzo, tutte le quistioni che v’hanno attinenza, come faceva George Sand; legge continuamente, forzato dalle esigenze imperiose della polemica; ha sulla punta delle dita tutto il romanzo di questo secolo, conosce profondamente Parigi, padroneggia insuperabilmente la lingua — e pensa.
Si venne poi al più importante degli argomenti. Il Parodi gli domandò ex-abrupto come faceva a fare il romanzo. Era proprio un toccarlo sul vivo. Sguainò quasi tutto il suo pugnaletto, lo ricacciò con forza nel fodero, e cominciò a parlare speditamente, animandosi a grado a grado.
Ecco, — disse, — come faccio il romanzo. Non lo faccio affatto. Lascio che si faccia da sé. Io non so inventare dei fatti; mi manca assolutamente questo genere d’immaginazione. Se mi metto a tavolino per cercare un intreccio, una tela qualsiasi di romanzo, sto anche lì tre giorni a stillarmi il cervello, colla testa fra le mani, ci perdo la bussola e non riesco a nulla. Perciò ho preso la risoluzione di non occuparmi mai del soggetto. Comincio a lavorare al mio romanzo, senza sapere né che avvenimenti vi si svolgeranno, né che personaggi vi avranno parte, né quale sarà il principio e la fine. Conosco soltanto il mio protagonista, il mio Rougon o Macquart, uomo o donna; che è una conoscenza antica. Mi occupo anzi tutto di lui, medito sul suo temperamento, sulla famiglia da cui è nato, sulle prime impressioni che può aver ricevute, e sulla classe sociale in cui ho stabilito che debba vivere. Questa è la mia occupazione più importante: studiare la gente con cui questo personaggio avrà che fare, i luoghi in cui dovrà trovarsi, l’aria che dovrà respirare, la sua professione, le sue abitudini, fin le più insignificanti occupazioni a cui dedicherà i ritagli della sua giornata. Mettendomi a studiare queste cose, mi balena subito alla mente una serie di descrizioni che possono trovar luogo nel romanzo, e che saranno come le pietre miliari della strada che debbo percorrere. Ora, per esempio, sto scrivendo Nana: una cocotte. Non so ancora affatto che cosa seguirà di lei. Ma so già tutte le descrizioni che ci saranno nel mio romanzo. Mi son domandato prima di ogni cosa: — Dove va una cocotte? — Va ai teatri, alle prime rappresentazioni. Sta bene. Ecco cominciato il romanzo. Il primo capitolo sarà la descrizione d’una prima rappresentazione in uno dei nostri teatri eleganti. Per far questo bisogna che studi. Vado a parecchie prime rappresentazioni. Domani sera vado alla Gaité. Studio la platea, i palchi, il palcoscenico; osservo tutti i più minuti particolari della vita delle scene; assisto alla toeletta d’un’attrice, e tornato a casa, abbozzo la mia descrizione. Una cocotte va alle corse, a un grand prix. Ecco un’altra descrizione che metterò nel romanzo, a una conveniente distanza dalla prima. Vado a studiare un grand prix. Una cocotte frequenta i gran restaurants. Mi metto a studiare i gran restaurants. Frequento quei luoghi per qualche tempo. Osservo, interrogo, noto, indovino. E così avanti fin che non abbia studiato tutti gli aspetti di quella parte di mondo in cui suole agitarsi la vita d’una donna di quella fatta. Dopo due o tre mesi di questo studio, mi sono impadronito di quella maniera di vita: la vedo, la sento, la vivo nella mia testa, per modo che son sicuro di dare al mio romanzo il colore e il profumo proprio di quel mondo. Oltreché, vivendo per qualche tempo, come ho fatto, in quella cerchia sociale, ho conosciute delle persone che vi appartengono, ho inteso raccontare dei fatti veri, so quello che vi suole accadere, ho imparato il linguaggio che vi si parla, ho in capo una quantità di tipi, di scene, di frammenti di dialogo, di episodi d’avvenimenti, che formano come un romanzo confuso di mille pezzi staccati ed informi. Allora mi riman da fare quello che per me è più difficile: legare con un solo filo, alla meglio, tutte quelle reminiscenze e tutte quelle impressioni sparse. È un lavoro quasi sempre lungo. Ma io mi ci metto flemmaticamente, e invece d’adoperarci l’immaginazione, ci adopero la logica. Ragiono tra me, e scrivo i miei soliloqui, parola per parola, tali e quali mi vengono, in modo che, letti da un altro, parrebbero una stranissima cosa. Il tale fa questo. Che cosa nasce solitamente da un fiuto di questa natura? Quest’altro fatto. Quest’altro fatto è tale che possa interessare quell’altra persona? Certamente. È dunque logico che quest’altra persona reagisca in quest’altra maniera. E allora può intervenire un nuovo personaggio; quel tale, per esempio, che ho conosciuto in quel tal luogo, quella tal sera. Cerco di ogni più piccolo avvenimento lo conseguenze immediate; quello che deriva logicamente, naturalmente, inevitabilmente dal carattere e dalla situazione dei miei personaggi. Faccio il lavoro d’un commissario di polizia che da qualche indizio voglia riuscire a scoprire gli autori d’un delitto misterioso. Incontro nondimeno, assai sovente, molte difficoltà. Alle volte non ci sono più che due sottilissimi fili da annodare, una conseguenza semplicissima da dedurre, e non ci riesco, e mi affatico e m’inquieto inutilmente. Allora smetto di pensarci, perché so che è tempo perduto. Passano due, tre, quattro giorni. Una bella mattina, finalmente, mentre fo colazione e pensò ad altro, tutto a un tratto i due fili si riannodano, la conseguenza è trovata, tutte le difficoltà sono sciolte. Allora un torrente di luce scorre su tutto il romanzo. Un flot de lumière coule sur tout le roman. Vedo tutto e tutto è fatto. Riacquisto la mia serenità, son sicuro del fatto mio, non mi resta più a fare che la parte tutta piacevole del mio lavoro. E mi ci metto tranquillamente, metodicamente, coll’orario alla mano, come un muratore. Scrivo ogni giorno quel tanto; tre pagine di stampa; non una riga di più, e la mattina solamente. Scrivo quasi senza correggere perché son mesi che rumino tutto, e appena scritto, metto le pagine da parte, e non le rivedo più che stampate. E posso calcolare infallibilmente il giorno che finirò. Ho impiegato sei mesi a scrivere Une page d’Amour; un anno a scriver l’Assommoir.
— L’Assommoir, — soggiunse poi, dando un colpo della mano aperta sul manico del pugnale, — è stato la mia tortura. È quello che m’ha fatto penare di più per mettere insieme i pochissimi fatti su cui si regge. Avevo in mente di fare un romanzo sull’alcoolismo. Non sapevo altro. Avevo preso un monte di note sugli effetti dell’abuso dei liquori. Avevo fissato di far morire un beone della morte di cui muore Coupeau. Non sapevo però chi sarebbe stato la vittima, e anche prima di cercarla, andai all’ospedale di Sant’Anna a studiare la malattia e la morte, come un medico. Poi assegnai a Gervaise il mestiere di lavandaia, e pensai subito a quella descrizione del lavatoio che misi nel romanzo; che è la descrizione d’un lavatoio vero, in cui passai molte ore. Poi, senza saper nulla del Goujet, che immaginai in seguito, pensai di valermi dei ricordi d’un’officina di fabbro ferraio, dove avevo passato delle mezze giornate da ragazzo, e che è accennata nei Contes à Ninon. Così, prima d’aver fatto la tela del romanzo, avevo già concepita la descrizione di un pranzo nella bottega di Gervaise, e quella della visita al museo del Louvre. Avevo già studiate le mie bettole, l’Assommoir di père Colombe, le botteghe, l’Hôtel Boncœur, ogni cosa. Quando tutto il rimanente fu predisposto, cominciai a occuparmi di quello che doveva accadere; e feci questo ragionamento, scrivendolo. Gervaise viene a Parigi con Lantier, suo amante. Che cosa seguirà? Lantier è un pessimo soggetto: la pianta. E poi? Lo credereste che mi sono intoppato qui, e che non andai più avanti per vari giorni? Dopo vari giorni feci un altro passo. Gervaise è giovane; è naturale che si rimariti; si rimarita, sposa un operaio, Coupeau. Ecco quello che morirà a Sant’Anna. Ma qui rimasi in asso da capo. Per mettere a posto i personaggi e le scene che avevo in mente, per dare un’ossatura qualunque al romanzo, mi occorreva ancora un fatto, uno solo, che facesse nodo coi due precedenti. Questi tre soli fatti mi bastavano; il rimanente era tutto trovato, preparato, e come già scritto per disteso nella mia mente. Ma questo terzo fatto non riuscivo a raccappezzarlo. Passai varii giorni agitato e scontento. Una mattina, improvvisamene, mi balena un’idea. Lantier ritrova Gervaise, — fa amicizia con Coupeau, — s’installa in casa sua.... et alors il s’établit un menage à troìs, comme j’en ai vu piusieurs; e ne segue la rovina. Respirai. Il romanzo era fatto.
Detto questo, aperse un cassetto, prese un fascio di manoscritti e me li mise sotto gli occhi. Erano i primi studi dell’Assommoir, in tanti foglietti volanti.
Sui primi fogli c’era uno schizzo dei personaggi: appunti sulla persona, sul temperamento, sull’indole. Ci trovai lo «specchio caratteristico» di Gervaise, di Coupeau, di maman Coupeau, dei Lorilleux, dei Boche, di Goujet, di madame Lérat: c’eran tutti. Parevano note d’un registro di questura, scritte in linguaggio laconico, e liberissimo, come quello del romanzo, e interpolate di brevi ragionamenti, come: — Nato così, educato così; si porterà in questo modo. — In un luogo c’era scritto: — E che può far altro una canaglia di questa specie? — M’è rimasto impresso, fra gli altri, lo schizzo di Lantier, che era un filza d’aggettivi, che formavano una gradazione crescente d’ingiurie: — grossier, sensuel, brutal, egoiste, polisson. — In alcuni punti c’era detto: — servirsi del tale — una persona conosciuta dall’autore. Tutto scritto in caratteri grossi e chiari, e con ordine.
Poi mi caddero sotto gli occhi gli schizzi dei luoghi, fatti a penna, accuratamente, come un disegno d’ingegnere. Ce n’era un mucchio: tutto l’Assommoir disegnato: le strade del quartiere in cui si svolge il romanzo, colle cantonate, e coll’indicazione delle botteghe; i zig-zag che faceva Gervaise per scansare i creditori; le scappate domenicali di Nana; le pellegrinazioni della comitiva dei briaconi di bastringue in bastringue e dibousingot in bousingot; l’ospedale e il macello, fra cui andava e veniva, in quella terribile sera, la povera stiratrice straziata dalla fame. La gran casa del Marescot era tracciata minutissimamente; tutto l’ultimo piano; i pianerottoli, le finestre, lo stambugio del becchino, la buca di père Bru, tutti quei corridori lugubri, in cui si sentiva un souffle de crevaison, quei muri che risonavano come pancie vuote, quelle porte da cui usciva una perpetua musica di legnate e di strilli di mioches morti di fame. C’era pure la pianta della bottega di Gervaise, stanza per stanza, coll’indicazione dei letti e delle tavole, in alcuni punti cancellata e corretta. Si vedeva che lo Zola ci s’era divertito per ore e per ore, dimenticando forse anche il romanzo, tutto immerso nella sua finzione, come in un proprio ricordo.
Su altri fogli c’erano appunti di vario genere. Ne notai due principalmente: — venti pagine di descrizione della tal cosa, — dodici pagine di descrizione della tal scena, da dividersi in tre parti. — Si capisce che aveva la descrizione in capo, formulata prima d’essere fatta, e che se la sentiva sonar dentro cadenzata e misurata, come un’arietta a cui dovesse ancora trovare le parole. Son meno rare di quello che si pensi, queste maniere di lavorare, anche in cose d’immaginazione, col compasso. Lo Zola è un grande meccanico. Si vede come le sue descrizioni procedono simmetricamente, a riprese, separate qualche volta da una specie d’intercalare, messo là perchè il lettore ripigli rifiato, e divise in parti quasi uguali; come quella dei fiori del parco nella Fante de l’abbé Mouret, quella del temporale nella Page d’amour, quella della morte del Coupeau nell’Assommoir. Si direbbe che la sua mente, per lavorar poi tranquilla e libera intorno alle minuzie, ha bisogno di tracciarsi prima i confini netti del suo lavoro, di sapere esattamente in quali punti potrà riposare, e quasi che estensione e che forma presenterà nella stampa il lavoro proprio. Quando la materia gli cresce, la recide per farla rientrare in quella forma, e quando gli manca, fa un sforzo per tirarla a quel segno. È un invincibile amore delle proporzioni armoniche, che qualche volta può generare prolissità; ma che spesso, costringendo il pensiero ad insistere sul suo soggetto, renda l’opera più profonda e più completa.
C’erano, oltre a queste, delle note estratte dalla Réforme, sociale en France del Le Play, dall’Hérédité naturelle del dottor Lucas, e da altre opere di cui si valse per scrivere il suo romanzo; Le sublime, fra le altre, che dopo la pubblicazione dell’Assommoir fu ristampato e riletto poiché è un privilegio dei capolavori quello di mettere in onore anche le opere mediocri di cui si sono giovati.
Lo interrogammo intorno ai suoi studi di lingua.
Ne parlò con molta compiacenza. Si crede generalmente che abbia studiato l’argot nel popolo; sì, in parte; ma più nei dizionarii speciali, che son parecchi, e buonissimi; come imparò in special modo dai dizionari d’arti e mestieri quella ricchissima terminologia d’officina e di bottega, che è nei suoi romanzi popolari. Ma per scrivere l’argot non bastava consultare il dizionario; bisognava saperlo, ossia rifarselo. Si fece perciò un dizionario diviso a soggetti, e vi andò man mano registrando le parole e le frasi che trovava nei libri e che raccattava per la strada. Scrivendo l’Assommoir, prima di trattare un soggetto, scorreva la parte corrispondente del dizionario; poi scriveva tenendolo sotto gli occhi, e cancellava con un lapis rosso ogni frase, via via che la metteva nel libro, per evitar di ripeterla.
— Io son un uomo paziente, vedete, — disse poi; — lavoro colla placidità d’un vecchio compilatore; provo piacere anche nelle occupazioni più materiali; prendo amore alle mie note e ai miei scartafacci; mi cullo nel mio lavoro, e mi ci trovo bene, come un pigro nella sua poltrona.
Lo strano è che diceva tutte queste cose senza sorridere; ma nemmeno con un barlume di sorriso. Il suo viso pallidissimo non ebbe mai una di quelle mille espressioni convenzionali di amabilità o di gaiezza, che si usano dalle persone più fredde per dar colore alla conversazione. In verità non ricordo d’aver mai visto al mondo un viso più «indipendente.» Faceva un solo movimento di tratto in tratto: dilatava le narici e stringeva i denti, facendo risaltar le mascelle; il che gli dava un’espressione più vigorosa di risoluzione e di fierezza.
Parlò del successo dell’Assommoir. Disse che, mentre scriveva quel romanzo, era le mille miglia lontano dal prevedere il chiasso che fece. Era stato costretto a interromperlo per una malattia della sua signora; ci s’era poi rimesso di mala voglia; il cuore non gliene diceva bene. Di più, un amico di cui egli faceva gran conto, letto il manoscritto, gli aveva presagito un mezzo fiasco. A lui stesso pareva che il soggetto non fosse «interessante.» Lasciò indovinare, insomma, che nemmeno dopo il suo grande successo, non era quello il romanzo a cui teneva di più.
— Qual è dunque? — gli domandai.
La sua risposta mi diede una grande soddisfazione.
— Le venire de Paris, — rispose.
E infatti la storia di quel grasso e iniquo pettegolezzo plebeo, che finisce per perdere un povero galantuomo, e che si svolge dalla prima all’ultima pagina in quel singolarissimo teatro delle Halles, pieno di colori, di sapori e d’odori, fra quelle pescivendole dalle rotondità enormi e impudenti, fra quegli amori annidati nei legumi e nelle penne di pollo, in mezzo a quello strano intreccio di rivalità bottegaie e di congiure repubblicane, m’è sempre parsa una delle più originali e delle più felici invenzioni dell’ingegno francese.
Venne a parlare delle critiche che si fecero all’Assommoir. Anche parlando, egli sceglie sempre la frase più dura e più recisa per esprimere il proprio pensiero. Accennando a una scuola che non gli va a genio, disse: — Vedrete che famoso colpo di scopa ci daremo dentro! — In ogni sua parola si sente il suo carattere fortemente temprato, non solo alle resistenze ostinate, ma agli assalti temerarii. Nelle sue critiche, infatti, dà addosso a tutti. Ne raccolse parecchie in un volume e le intitolò: — I miei odii. — Si capisce. Deve tutto a se stesso, è passato per tutte le prove, è coperto di cicatrici: la battaglia è la sua vita; vuole la gloria, ma strappata a forza, e accompagnata dal fragore della tempesta. Le critiche più spietate non fanno che irritare il suo coraggio. Gli gridarono la croce per le crudità della Curée, egli andò del doppio più in là nell’Assommoir. Prova una feroce voluttà nel provocare il pubblico. «Gli insuccessi» non gli passano nemmeno la prima pelle. Avanti! — disse dopo una delle sue più grandi cadute — ; io sono a terra; ma l’arte è in piedi. Forse che la battaglia è perduta perché il soldato è ferito? Al lavoro, e ricominciamo! — E dice il fatto suo alla critica, alla sua maniera. — La critica francese manca d’intelligenza — ; nientemeno, — Non ci sono in tutta la Francia che tre o quattro uomini capaci di giudicare un libro. — Gli altri o giudicano con tutti i pregiudizii letterarii degli sciocchi, o sono pretti impostori. — Ha questo gran difetto, — come gli diceva un amico: — che quando parla con un imbecille, gli fa capire immediatamente che è un imbecille; — difetto, — dice, — che gli chiuderà sempre tutte le porte. Ma a lui non importa d’essere amato. Egli considera il pubblico come il suo nemico naturale. Che serve accarezzarlo? È una mala bestia che risponde alle carezze coi morsi. Tanto vale mostrargli i denti e fargli vedere che non sono meno forti dei suoi. Latri a sua posta, purché ci segua. Eppure s’ingannano quelli che argomentano da questa sua asprezza di carattere ch’egli non abbia cuore. Tutti i suoi amici intimi lo affermano. In casa, colla sua famiglia, è un altro Zola; ha pochi amici, ma li ama fortemente; non è espansivo, ma servizievole. E scrive delle lettere piene di sentimento. Ha un cuore affettuoso, sotto una corazza d’acciaio.
Spiegò poi meglio il concetto che ha del pubblico, parlando della vendita dei libri a Parigi.
— Qui non si fa nulla, — disse, smettendo per la prima volta il pugnale, ma riafferrandolo subito, — nulla, se non si fa chiasso. Bisogna essere discussi, maltrattati, levati in alto dal bollore delle ire nemiche. Il parigino non compra quasi mai il libro spontaneamente, per un sentimento proprio di curiosità; non lo compra che quando gliene hanno intronate le orecchie; quando è diventato come un avvenimento da cronaca, del quale bisogna saper dir qualche cosa in conversazione. Pur che se ne parli, comunque se ne parli, è una fortuna. La critica vivifica tutto; non c’è che il silenzio che uccida. Parigi e un oceano; ma un oceano in cui la calma perde, e la burrasca salva. Come si può scuotere altrimenti l’in- differenza di questa enorme città tutta intenta ai suoi affari e ai suoi piaceri, ad ammassar quattrini e a profonderli? Essa non sente che i ruggiti e le cannonate. E guai a chi non ha coraggio!
È quello che mi diceva il Parodi: — Qui non si stima chi mostra di non stimare se stesso. Per prima cosa bisogna affermare risolutamente il proprio diritto alla gloria. Chi si fa piccino, è perduto. Guai al modesto!
E lo Zola non è né modesto, né orgoglioso: è schietto. Colla stessa schiettezza con cui riconosce i lati deboli del suo ingegno, come si è visto, ne dice i lati forti. Parlando dei suoi studi dal vero dice: — Non ho però bisogno di veder tutto; un aspetto mi basta, gli altri li indovino; qui sta l’ingegno. — Quando scriveva la Page d’amour, diceva: — Farò piangere tutta Parigi. — Difendendo una sua commedia caduta dice: — Perché è caduta? Perché il pubblico s’aspettava dall’autore dei Rougon-Macquart una commedia straordinaria, di primissimo ordine; qualcosa di miracoloso. — Ma dice questo con una sicurezza e con una semplicità, che non vien nemmeno in capo di accusarlo di presunzione. E in ciò si rivela appunto la sua natura italiana, meno inverniciata della francese, come si rivela nelle sue critiche, in cui dice le più dure cose senza giri di frase e senza epiteti lenitivi, e paccia le pillole amare senza dorarle; cosa che ripugna all’indole della critica parigina. Ed è italiano anche in questo, che ha la vostra causticità genuina, consistente più nella cosa che nella parola, e non il vero spirito francese. E lo riconosce e se ne vanta. — Je n’ai pas cet entortillement d’esprit. — Je ne sais parler le papotage à la mode. — Io detesto i bons mots e il pubblico li adora. Questa è la grande ragione per cui non ci possiamo intendere.
Accennò pure, di volo, alla gran quistione del realismo e dell’ idealismo. Su questo argomento rispetto profondamente le opinioni di uno scrittore come lo Zola. Ma a queste professioni di fede irremovibile e a queste bandiere sventolate con tanto furore, ci credo poco. Uno scrittore si trova a scrivere in una data maniera perché la sua indole, la sua educazione, le condizioni della sua vita lo spinsero da quella parte. Quando ha fatto per quella via un lungo cammino, quando ha speso in quella forma d’arte un gran tesoro di forze, e v’ha riportato dei trionfi, e s’è persuaso che non andrà mai innanzi altrettanto in una direzione diversa, allora alza la sua insegna e dice: — In hoc signo vinces. — Ma che diverrebbe l’arte se tutti lo seguissero? Mi vien sempre in mente quella sentenza del Rénan: — Il mondo è uno spettacolo che Dio dà a se stesso. Per carità, non facciamolo tutto d’un colore, se non vogliamo annoiarci anche noi. — C’è posto per tutti — come diceva Silvio Pellico — e nessuno se ne vuol persuadere. — Non capisco come ci sia della gente d’ingegno che picchia sulla testa a una parte dell’umanità unicamente perché non sente e non esprime la vita come essi la sentono e la esprimono. È come se i magri volessero mettere al bando dell’umanità i grassi; e i linfatici, i nervosi. In fondo, chi non vede chiaramente che è una guerra che certe facoltà dello spirito fanno ad altre facoltà? Emilio Zola, non men degli altri, non fa che tirar l’acqua al suo mulino. Egli dirà, per esempio, che la tragedia greca è realistica, e che non si deve descrivere che quello che si vede o che s’è visto, e che quando si mette un albero sulla scena, dev’essere un albero vero; e forse; in cuor suo, sorriderà di queste affermazioni. E quando qualcuno lo coglierà in contraddizione, risponderà ingenuamente: — Que voulez-vous? Il faut bien avoir un drapeau. — Siamo d’accordo; ma è quasi sempre la bandiera, non della propria fede, ma del proprio ingegno. E lo stesso Zola è sempre realista, anche quando dà cuore e mente agli alberi e ai fiori? A un uomo come lui si può ben dire quello che si pensa.
Parlò pure del teatro. Disse che era falsa la notizia data dai giornali, che egli avesse incaricato due commediografi, di cui non ricordo il nome, di fare un dramma dell’Assommoir. S’era parlato pure, a questo proposito, della Curée, per la cui protagonista, Renée, la celebre attrice Sarah Bernard aveva manifestato una gran simpatia. Ma dei suoi romanzi uno solo, finora, Thérèse Raquin, fu convertito da lui stesso in un dramma, nel quale è riuscita una fortissima scena la descrizione di quella tremenda notte nuziale di Teresa e di Laurent, fra cui s’interpone il fantasma schifoso del marito annegato. Il Teatro però esercita anche sullo Zola un’attrazione irresistibile e inebriante, come su tutti gli scrittori moderni, ai quali nessuna gloria letteraria pare bastevole, se non è coronata da un trionfo sulle scene. Poiché a Parigi, la città più teatrale del mondo, una vittoria drammatica dà d’un solo tratto la fama e la fortuna che non dà il buon successo di dieci libri. A questo scopo egli converge perciò tutti i suoi sforzi. La sua grande ambizione è di fare un Assommoir teatrale. Finora non lavorò, si può dire, che per prepararsi a questa gran prova. Non ebbe successi notevoli; cadde più d’una volta; ma persiste tenacemente. E s’affatica a sgombrarsi il passo colla critica, battendo in breccia la commedia alla moda, la comédie d’intrigue, ce joujou donné au public, ce jeu de patience, che egli vorrebbe ricondurre alla forma antica, alla comicità di buona lega, la quale consiste tutta nei tipi e nelle situazioni, e non in quello spirito fouetté en neige, rélevé d’une pointe de muse, che piace per la novità, e che non saprà più di nulla fra cinque anni; ai caratteri largamente sviluppati in un’azione semplice e logica, alle analisi libere e profonde, e ai dialoghi sciolti da ogni convenzione; a una forma insomma, in cui possano spiegarsi e prevalere le sue forti facoltà di romanziere. E propugnando queste teorie, difende ostinatamente i suoi lavori drammatici. Un amico andò a visitarlo dopo la caduta del suo Bouton de rose al Palais Royal, e lo trovò a tavolino con davanti un mucchio di fogli scritti. — Che cosa fate? — gli domandò. — Vous comprenez — rispose — je ne veux pas lâcher ma pièce. — Stava facendo una difesa del Bouton de Rose, curiosissima, nella quale si rivela il suo carattere meglio che in un epistolario di cinque volumi. Cominciò coll’esporre il soggetto della commedia, ricavata in parte dai Contes drólatiques del Balzac, e come si svolse nella sua mente, e le ragioni d’ogni personaggio e d’ogni scena. E poi: — Sta bene — disse — il dramma è caduto. — Riferisco presso a poco le sue parole. — Io accetto altamente tutte le responsabilità. Questo dramma m’è diventato caro per la brutalità odiosa con cui fu trattato. Lo scatenamento feroce della folla l’ha rialzato e ingrandito ai miei occhi. Più tardi ci sarà appello: i processi letterari sono suscettibili di cassazione. Il pubblico non ha voluto capire il mio lavoro, perché non vi ha trovato quella specie di vis comica che vi cercava, che è un fiore tutto parigino, sbocciato sui marciapiedi deiboulevards. Ha trovato il mio spirito grossolano! Diavolo! Come si fa a sopportare la franchezza d’un uomo che viene avanti con un stile diretto e che chiama le cose col loro nome? Già, il sapore dell’antico racconto francese non si sente più; non si capiscono più quei tipi: io avrei dovuto mettere un avviso a stampa sulla schiena dei miei personaggi. E poi una buona metà del teatro faceva voti ardenti perché il mio Bouton de rose capitombolasse. Erano andati là come si va nella baracca d’un domatore di fiere, col segreto desiderio di vedermi divorare. Io mi son fatti molti nemici colle mie critiche teatrali, in cui la sincerità è la mia sola forza. Chi giudica i lavori degli altri, s’espone alle rappresaglie. I vaudevillisti vessati e i drammaturghi esasperati si son detti: — Finalmente! Lo andremo a giudicare una volta, questo terribile uomo! Nell’orchestra c’erano dei signori che si mostravano reciprocamente le chiavi. C’era poi un’altra ragione. Io sono romanziere. Questo basta. Riuscendo nel teatro, avrei occupato troppo posto. Bisognava impedire. E d’altra parte era giusto che io espiassi le quarantadue edizioni dell’Assommoir e le diciasette edizioni della Page d’amour. — Schiacciamolo, si son detti. E l’han fatto. Si ascoltò il primo atto, si fischiò il secondo e non si volle sentire il terzo. Il fracasso era tale che i critici non potevano neppur sentire il nome dei personaggi; alcune innocentissime parole di argot scoppiarono nel teatro come bombe; i muri minacciavano di crollare; non si capiva più nulla. E così sono stato ammazzato. Ora non ho più né rancore né tristezza. Ma il giorno dopo non riuscii a soffocare un sentimento di giusta indignazione. Credevo che la seconda sera la commedia non sarebbe arrivata di là dal secondo atto. Mi pareva che il pubblico pagante dovesse completare il disastro. Andai al teatro, a ora tarda, e salendo le scale, interrogai un artista: — Ebbene, vanno in collera, di sopra? — L’artista mi rispose sorridendo: — Ma no, signore! Tutti i frizzi sono gustati. La salle est superbe, e si smascella dalle risa. — Ed era vero; non si sentiva una disapprovazione; il successo era enorme. Io rimasi là per tutto un atto, ad ascoltare quelle risa, e soffocavo, mi sentivo venir le lagrime agli occhi. Pensavo al teatro della sera prima, e mi domandavo il perché di quella inesplicabile brutalità, dal momento che il vero pubblico faceva al mio lavoro una accoglienza tanto diversa. Questi sono i fatti. Mi diano una spiegazione i critici sinceri. Il Bouton de rose ebbe quattro rappresentazioni; l’incasso maggiore fu quello della seconda. Per che ragione, se è lecito? Perché la stampa non aveva ancora parlato e il pubblico veniva e rideva con confidenza. Il terzo giorno la critica comincia il suo lavoro di strangolamento; una prima scarica di articoli furibondi ferisce la commedia al cuore; e allora la gente esita e s’allontana da un’opera che non una voce difende e che i più tolleranti gettano nel fango. I pochi curiosi che si arrischiano, si divertono sinceramente; l’effetto cresce ad ogni rappresentazione; gli artisti, rinfrancati, recitano con un accordo maraviglioso. Che importa? Lo strangolamento è riuscito; il pubblico della prima sera ha stretto la corda e la critica ha dato l’ultimo strappo. Eppure! Eppure il Bouton de rose resiste solidamente sulle scene pur che ci sia chi si degni di sentirlo. Io credo che sia ben fatto, che certe situazioni siano comiche e originali, e che il tempo gli darà ragione. Un tale, la prima sera, nei corridoi del teatro diceva ad alta voce: — Ebbene, farà ancora il critico teatrale Emilio Zola? — Perdìo se lo farò ancora! E più ardentemente di prima, potete andarne sicuri.
La conversazione cadde ancora una volta sui romanzi, e lo Zola soddisfece parecchie mie vivissime curiosità. I suoi personaggi son quasi tutti ricordi, conoscenze sue d’altri tempi; alcuni già abbozzati nei Contes à Ninon. Il Lantier, per esempio, lo conobbe in carne ed ossa, ed è infatti uno dei caratteri più stupendamente veri dell’Assommoir. L’idea del frate Archangias della Faute de l’abbé Mouret, di quel comicissimo villanaccio incappucciato, che predica la religione con un linguaggio da facchino ubbriaco, gli venne dall’aver letto in un giornale di provincia, d’un certo frate, maestro di scuola, stato condannato dai tribunali per abuso.... di forza. Certe rispostaccie date dall’accusato ai giudici gli avevano presentato il carattere bell’e fatto. Poiché si parlava di quel romanzo, non potei trattenermi dall’esprimergli la mia viva ammirazione per quelle splendide pagine, in cui descrisse i rapimenti religiosi del giovane prete dinanzi all’immagine della Vergine; pagine degne davvero d’un grande poeta.
— Voi non potete immaginare, — mi rispose, — la fatica che mi costò quel benedetto abate Mouret. Per poterlo descrivere all’altare, andai parecchie volte a sentire tre o quattro messe di seguito a Notre Dame. Per la sua educazione religiosa consultai molti preti. Nessuno però mi volle o mi seppe dare tutte le spiegazioni di cui avevo bisogno. Misi sottosopra delle botteghe di librai cattolici; mi digerii dei grossi volumi di Cerimoniali religiosi e di Manuali da curati di campagna. Ma non mi pareva ancora di possedere abbastanza la materia. Un prete spretato, finalmente, completò le mie cognizioni. Gli domandai se aveva fatto pure degli studi così accurati e così pratici per descrivere la vita delle halles, le botteghe di formaggi, il lavoro delle stiratrici, le discussioni del Parlamento, le ribotte degli operai.
— Necessariamente, — rispose.
— E per descrivere il temporale della Page d’amour?
— Per descrivere il temporale, mi asciugai parecchie volte tutta l’acqua che Dio ha mandata, osservando Parigi dalle torri di Notre Dame.
Gli domandai se era mai stato presente a una battaglia. Disse di no, e questo mi fece gran meraviglia, perché nella descrizione del combattimento fra gl’insorti e le truppe imperiali, nella Fortune des Rougons, si sente il fischio delle palle e si vede il disordine e la morte, come nessun scrittore li ha mai resi.
Da ultimo venne a parlare dei suoi romanzi futuri, e in questo discorso si animò più che non avesse fatto fino allora; il suo viso si colorò d’un leggero rossore, la sua voce si rinvigorì, e non dico come lavorasse il pugnaletto.
Egli farà un romanzo in cui descriverà la vita militare francese, com’è. Questo solleverà una tempesta; gli daranno del nemico della Francia; sta bene. Il suo romanzo sarà intitolato Le soldat, e conterrà una grande descrizione della battaglia di Sédan. Egli andrà apposta a Sédan, ci starà quindici giorni, studierà il terreno con una guida palmo per palmo, e forse....ne uscirà qualche cosa. In un altro romanzo metterà la descrizione d’una morte per combustione spontanea, d’un bevitore. Altri l’han fatta; egli la farà a modo suo. L’uomo avrà l’abitudine di passare la sera accanto al camino, colla pipa in bocca, e piglierà fuoco accendendo la pipa. Egli descriverà tutto — e dicendo questo corrugò le sopracciglia e gli lampeggiarono gli occhi, come se vedesse in quel punto lo spettacolo orrendo. — La gente di casa entrerà la mattina nella stanza e non troverà più che la pipa e une poignée de quelque chose. Poi scriverà un romanzo che avrà per soggetto il commercio, i «grandi magazzini» come il Louvre e il Bon Marché, la lotta del grande commercio col piccolo, dei milioni coi cento mila franchi: un soggetto vasto e originale, pieno di nuovi colori, di nuovi tipi e di nuove scene, col quale tratterà a ferro rovente una nuova piaga di Parigi. Poi un altro romanzo: le lotte dell’ingegno per aprirsi una strada nel mondo, un drappello di giovani che vanno a cercar fortuna a Parigi, la vita giornalistica, la vita letteraria, l’arte, la critica, la miseria in abito decente, le febbri, le disperazioni e i trionfi del giovane di genio, divorato dall’ambizione e dalla fame: una storia in cui riverserà tutto il sangue che uscì dalle ferite del suo cuore di vent’anni. E infine un romanzo più originale di tutti, che si svolgerà sopra una rete di strade ferrate: una grande stazione in cui s’incrocieranno dieci strade, e per ogni «binario» correrà un episodio, e si riannoderanno tutti alla stazione principale, e tutto il romanzo avrà il colore dei luoghi, e vi si sentirà, come un accompagnamento musicale, lo strepito di quella vita precipitosa, e vi sarà l’amore nel vagone, l’accidente nella galleria, il lavoro della locomotiva, l’incontro, l’urto, il disastro, la fuga; tutto quel mondo nero, fumoso e rumoroso, nel quale egli vive col pensiero da lungo tempo. E saran tutti romanzi del « ciclo» Rougon Macquart. Egli ne ha già nella mente, come una visione, mille scene: abbozzi confusi, pagine lucidissime, catastrofi tremende e avventure comiche e descrizioni sfolgoranti, che gli ribollono dentro senza posa, e sono l’alimento vitale dell’anima sua. Ha ancora otto romanzi da scrivere. Quando la storia dei Rougon Macquart sarà finita, egli spera che, giudicando l’opera intera, la critica gli renderà giustizia. Intanto lavora tranquillamente, e va diritto alla sua meta, senza guardar né indietro né ai lati. Il suo studio è la sua cittadella, nella quale egli si sente sicuro, e scorda il mondo, tutto assorto nelle graves jouissances de la recherche du vrai.
— Vedete, — disse in fine, — io sono un uomo tutto di casa. Non son buono a nulla se non ho la mia penna, il mio calamaio, quel quadro là davanti agli occhi, questo panchettino qui sotto i piedi. Portato fuor del mio nido, son finito. Ecco perché non ho passione per viaggiare. Quando arrivo in una nuova città, mi segue sempre la medesima cosa. Mi chiudo nella mia camera d’albergo, tiro fuori i miei libri e leggo per tre giorni filati senza mettere il naso fuor dell’uscio. Il quarto giorno m’affaccio alla finestra e conto le persone che passano. Il quinto giorno riparto.
— C’è un viaggio però — soggiunse — che farò sicurissimamente: un viaggio in Italia.
— Quando? — gli domandai ansiosamente.
— Quando avrò finito Nana, — rispose. — Probabilmente la ventura primavera. È un mio antico desiderio. E domandò infatti quali erano i mesi propizii per fare un viaggio in Italia colla famiglia. È inutile che io dica se lo scongiurai di non cambiar proposito, e con che piacere intravvidi lontano una mensa splendida, coronata di realisti e d’idealisti italiani d’ogni età e d’ogni colore, affratellati almeno una sera per onorare un grande ingegno e un carattere forte e sincero.
E intanto egli continuava a discorrere, in piedi, vicino alla porta, colla sua amabile e virile franchezza, coi suoi gesti risoluti, col suo bel viso pallido e fiero, e veduto così sul fondo del suo studio elegante, pieno di libri e di carte, e dorato da un raggio di sole, dava l’immagine d’un bellissimo quadro, che rappresentasse l’ingegno, la fortuna e la forza; e il gridìo dei due piccoli Zola che giocavano nella stanza accanto, vi aggiungeva una nota di gentilezza, che lo rendeva più nobile e più caro.
E mi suonano sempre all’orecchio le ultime parole che mi disse sulla soglia, stringendomi la destra con una mano e tenendo su coll’altra la tenda della porta:
— Je suis toujours très-sensible aux poignées de main amicales qui me viennent des étrangers; mais ce n’est pas d’un étranger que me vient la vôtre; c’est de l’Italie, de ma première patrie, où est né mon père. Adieu!