Racconti (Hoffmann)/Discorso di Gualtiero Scott

Walter Scott

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E. T. A. Hoffmann - Racconti fantastici (1814)
Traduzione dal tedesco di E. B. (1835)
Del meraviglioso nel romanzo e di E. T. Hoffmann
Ai leggitori Il violino di Cremona
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DEL MERAVIGLIOSO NEL ROMANZO1

E DI E. T. HOFFMANN

DISCORSO




Di tutti i sentimenti ai quali può rivolgersi il romanziero per ispargere dell’interesse in una finzione, non ve n’ha alcuno che sembri servirlo meglio dell’amore al meraviglioso. Questo sentimento è comune a tutti gli uomini, e quegli stessi che affettano un certo scetticismo a questo riguardo, concludono sovente le loro asserzioni con un aneddoto bene avverato che è difficile od anche impossibile di spiegare naturalmente secondo i principii medesimi dei narratori. Questa [p. xvi modifica]credenza, che può esser spinta sino alla più assurda superstizione, ha la sua origine non solo nei fatti sui quali si fonda la nostra religione, ma ancora nella natura stessa dell’uomo. Tutto ci ricorda continuamente che poi non siamo che viaggiatori in questa terra di prove, da cui noi passiamo in un mondo sconosciuto, del quale, l’imperfezione dei nostri sensi non ci permette di vedere le forme e gli abitanti.

Tutte le sette cristiane credono che vi fu un tempo in cui la potenza divina si manifestava sulla terra più visibilmente che nei secoli moderni, e vi sospendeva o alterava le leggi ordinarie dell’universo; la chiesa Cattolica Romana mantiene ancora come un articolo di fede che i miracoli possono continuarsi ai nostri tempi. Senza entrare in questa controversia, basta avvertire che una ferma credenza nelle grandi verità del cristianesimo ha condotto uomini di grande ingegno, anche nei paesi protestanti, a dividere l’opinione del Dottore Iohnson, che nella materia delle apparizioni soprannaturali pretende che quelli che le negano colle labbra le attestano colla loro paura. [p. xvii modifica]

La maggior parte dei filosofi non hanno avuto per combattere le apparizioni che un’evidenza negativa; però dopo il tempo dei miracoli noi vediamo che il numero degli avvenimenti soprannaturali diminuisce sempre più, e che il numero delle persone credule segue la stessa progressione discendente; non era così nelle età primitive, e quantunque adesso la parola romanzo sia sinonimo di finzione, siccome nell’origine significava un poema od un’opera in prosa, composta in lingua romanza, è certo che i cavalieri grossolani ai quali s’indirizzavano i canti del menestrello credevano questi racconti delle imprese della cavalleria frammiste a portenti magici e ad intervenzioni soprannaturali così veri come le leggende dei monaci colle quali essi avevano una grande rassomiglianza. Con un uditorio pieno di fede, quando tutti gli ordini della società erano inviluppati nella stessa nube d’ignoranza, l’autore non aveva bisogno di scegliere i materiali e gli ornamenti della sua finzione, ma col progresso generale dei lumi l’arte della composizione diventò cosa più importante. Per cattivare l’attenzione della classe più istrutta, [p. xviii modifica]bisognò qualche cosa di meglio, che quelle favole semplici ed ingenue che oramai i soli fanciulli si degnano di ascoltare, benchè avessero un tempo allettato fra i loro antenati la gioventù, l’età matura e la vecchiaja.

Si conobbe altresì che il meraviglioso nelle finzioni voleva essere impiegato con una grande delicatezza, a misura che la critica cominciava a risvegliarsi. L’interesse che il meraviglioso eccita è per verità una molle potente, ma è più soggetta di un’altra a consumarsi per un uso troppo frequente: l’immaginazione dev’essere stimolata senza essere mai soddisfatta completamente: se una volta come Macbeth, “noi ci saziamo di orrori,” il nostro gusto diventa ottuso e il fremito di terrore che ci cagionava un semplice grido nel mezzo della notte si perde in quella specie d’indifferenza colla quale l’assassino di Duncano giunse a poter udire le più crudeli catastrofi che aveano oppressa la sua famiglia. Gli incidenti soprannaturali sono generalmente d’un carattere cupo, e indefinibile, come le fantastiche immagini che descrive l’eroina di Milton nel Como. [p. xix modifica]“Mille forme diverse cominciano ad affollarsi nella mia memoria; dei fantasmi mi chiamano e mi fanno dei segni di minaccia, io sento delle voci aeree che articolano dei nomi d’uomini ecc., ecc.”

Burke osserva che l’oscurità è necessaria per eccitare il terrore, ed a questo soggetto egli cita Milton come il poeta che ha meglio conosciuto il segreto di dipingere gli oggetti terribili. Effettivamente la sua pittura della Morte nel secondo libro del Paradiso Perduto è ammirabile. Con qual pompa tetra, con quale energica incertezza di tratti, e di colori egli ha tracciata l’immagine di questo re degli spaventi:

Quell’altra forma, se tal nome darsi
Pur puote a ciò che non ha forma alcuna
Distinta in membro od in giuntura, un cieco
Torbo fantasma che sustanza ed ombra
A un tempo stesso rassomiglia, stava
Nera qual densa notte, a par di dieci
Furie crudel, come l’Inferno orrenda,
E un fier dardo brandia: quel ch’esser fronte
In lei pareva, di regal corona
Avea sopra un’immago.2

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In questa descrizione tutto è cupo, vago, incerto, terribile e sublime al più alto grado. La sola citazione degna di essere ravvicinata a questo passo è l’apparizione sì conosciuta del libro di Giobbe: «Fra le visioni della notte, quando il sonno discende sugli uomini, la paura venne ad occuparmi con un tremore che fece scricchiolare tutte le mie ossa. Allora uno spirito passò davanti il mio volto; io sentii arricciare i peli della mia carne, lo spirito era là; ma io non poteva distinguerne la forma; un’immagine era davanti ai miei occhi; il silenzio regnava ed io intesi una voce!»

Secondo queste grandi autorità riesce evidente che le intervenzioni soprannaturali nelle finzioni devono essere rare, brevi e indeterminate. Bisogna infine introdurre con somma avvedutezza degli esseri che sono sì incomprensibili e sì differenti da noi stessi, che non possiamo congetturare da dove vengano, perchè siano venuti e quali siano i loro reali attributi. Da ciò avviene ordinariamente che l’effetto di una apparizione per sorprendente che sia stato dapprima, va sempre indebolendosi, ogni volta che si ha ricorso allo [p. xxi modifica]stesso mezzo. Nell’Amleto la seconda comparsa dell’ombra produce un’impressione meno forte della prima, ed in molti romanzi, che noi potremmo citare, il personaggio soprannaturale perde a poco a poco tutti i suoi diritti al nostro terrore ed al nostro rispetto, condiscendendo a lasciarsi vedere troppo sovente, mischiandosi troppo agli avvenimenti della storia, e principalmente diventando troppo prodigo delle sue parole, o come si dice, troppo ciarliero. Noi dubitiamo altresì che un autore operi saggiamente nel permettere al suo fantasma di parlare se lo mostra nello stesso tempo agli occhi dei mortali. Questo è un sollevare tutti i veli del mistero in una volta; e per gli spiriti come pei grandi è stato fatto il proverbio: familiarità genera disprezzo.

È dopo aver riconosciuto che l’effetto del meraviglioso è facilmente esaurito che gli autori moderni hanno tentato di aprirsi delle nuove strade nel paese degli incanti, e di ravvivare con tutti i mezzi possibili l’impressione dei suoi terrori. Alcuni hanno creduto pervenirvi esagerando gli incidenti soprannaturali del [p. xxii modifica]romanzo; ma quello che noi abbiamo detto spiega come si siano ingannati nelle loro descrizioni studiate e sopraccariche di epiteti. Il lusso dei superlativi rende il loro racconto fastidioso ed anche burlesco invece di colpire l’immaginazione. E qui appunto bisogna distinguere il meraviglioso dal bizzarro propriamente detto. Così i racconti orientali colla loro moltitudine di Fate, di Genii, di giganti, di mostri ec. divertono la mente più che non interessano il cuore. Si deve mettere nella stessa classe anche ciò che i Francesi chiamano contes de fées (racconti di fate) che non bisogna confondere coi racconti popolari degli altri paesi. La fée francese rassomiglia alla peri d’Oriente o alla fata degli Italiani, piuttosto che a quei folletti (fairies) che nella Scozia e nei paesi del Nord ballano intorno ad un fungo, al chiaro della luna e fanno smarrire il contadino che cammina di notte. La fata è un essere superiore, che ha la natura d’uno Spirito elementare, e la cui potenza magica molto estesa può fare a sua scelta il bene o il male. Ma di qualunque merito abbia brillato questo genere di composizione in grazia di alcune [p. xxiii modifica]penne abili, è diventato per colpa di alcune altre uno dei più insipidi e dei più assurdi. Di tutto il Gabinetto delle fate, quando noi abbiamo preso congedo dalle nostre conoscenze di nutrice, non vi sono cinque volumi sopra cinquanta che noi potessimo rileggere con piacere.

Accade sovente che quando un genere particolare di composizione letteraria diventa vecchio, qualche caricatura o imitazione satirica fa nascere un genere nuovo. Così per lo appunto la nostra Opera inglese fu creata dalla parodia che Gay volle fare dell’Opera italiana nel suo Beggar's opera (Opera del pitocco). Egualmente quando il pubblico fu inondato di racconti arabi, di racconti persiani, di racconti turchi, di racconti mogoli, ecc. ecc., Hamilton come un altro Cervantes venne coi suoi racconti satirici a rovesciare l’impero dei Genii cattivi e dei buoni, delle Peri e delle Fate della stessa origine.

Forse un po’ troppo licenziosi per un secolo più civile, i racconti di Hamilton resteranno come un piccante modello. Egli ha avuti dei numerosi imitatori, e fra gli altri il Voltaire, che ha saputo [p. xxiv modifica]saputo far servire il romanza meraviglioso alle intenzioni della sua satira filosofica.

Egli è questo che si può chiamare la parte comica del soprannaturale. L’autore dichiara senza raggiri il suo progetto di ridere egli stesso dei prodigi che racconta; egli non cerca che di eccitare delle piacevoli sensazioni, senza interessare l’immaginazione e molto meno le passioni dei lettore. A malgrado degli scritti di Wieland e di alcuni altri Tedeschi, i Francesi sono restati maestri di questa specie di romanzi e di poemi eroicomici che comprende le opere ben note del Pulci, del Berni, e forse sino ad un certo punto quelle dell’Ariosto istesso, che in alcuni passi almeno leva abbastanza la sua visiera cavalleresca per lasciarci vedere il suo beffardo sorriso.

Un’occhiata generale alla Carta di questo delizioso paese delle fate ci rivela un’altra provincia che per incolta che possa essere, e forse per ciò stesso, offre alcune scene piene d’interesse. Vi è una classe d’antiquari che mentre gli altri si occupano a raccogliere e ad ornare le antiche tradizioni del loro paese, hanno preferito di ricercare le vecchie sorgenti di [p. xxv modifica]quelle leggende popolari care altre volte ai nostri avi, trascurate dopo con disdegno, ma richiamate infine per dividere colle ballate primitive di un popolo la curiosità che ispira la loro stessa semplicità. Le Deutsche Sagen dei fratelli Grimm sono un’opera ammirabile in questo genere, unendo esse senza pretensione di stile le diverse tradizioni ch’esistono in Allemagna sulle superstizioni popolari e sugli avvenimenti attribuiti ad una intervenzione soprannaturale. Vi sono in tedesco delle altre opere della stessa categoria raccolte con un’esattezza scrupolosa

Ora volgari, ora nojose, ora puerili, le leggende raccolte da questi autori zelanti formano nondimeno un gradino nella storia della razza umana, e quando sono paragonate alle raccolte simili degli altri paesi esse sembrano provarci che una comune origine ha messo un fondo comune d’idee superstiziose a disposizione dei diversi popoli. Che dobbiamo noi pensare vedendo le nutrici del Jutland e della Finlandia raccontare ai loro figli le tradizioni stesse che si trovano nella Spagna e nell’Italia? Supporremo noi [p. xxvi modifica]che questa rassomiglianza provenga dagli angusti limiti dell’invenzione umana e che la stessa specie di finzioni si offra all’immaginazione dei differenti autori de’ paesi lontani, come le stesse specie di piante che si trovano in climi differenti, senza che vi sia nessuna probabilità che siano state trapiantate dall’uno nell’altro? O dobbiamo noi piuttosto farle derivare dalla stessa sorgente risalendo sino a quell’epoca in cui il genere umano non formava che una sola grande famiglia? Come i filologi riconoscono nei diversi dialetti gli sparsi frammenti d’una lingua generale, gli antiquari possono essi riconoscere nelle più opposte contrade del globo le traccie di quello che fu originariamente una comune tradizione? Senza arrestarci a questa discussione, noi osserveremo in un modo generale che queste raccolte sono utili documenti non solo per l’istoria d’una nazione in particolare, ma anche per quella di tutte insieme le nazioni. Si frammischiano in generale alcune verità a tutte le favole ed a tutte le esagerazioni delle leggende orali che vengono frequentemente ad affermare o a [p. xxvii modifica]confutare i racconti incompleti di qualche vecchia cronaca. Frequentemente ancora la leggenda popolare, prestando dei tratti caratteristici e un interesse di località agli incidenti che ricorda, dà la vita e l’anima alla fredda ed arida narrazione che non riporta che il fatto senza le particolarità per le quali diventa memorabile o interessante. E però sotto un altro punto di vista che noi desideriamo considerare queste raccolte di tradizioni popolari, studiando la maniera colla quale esse impiegano il meraviglioso ed il soprannaturale come composizione. Conveniamo da principio che sarebbe ben ingannato colui che leggesse una voluminosa raccolta d’istorie di morti, di fantasmi e di prodigj colla speranza di risentir quel primo raccapriccio di paura che produce Il meraviglioso. Tanto sarebbe l’appigliarsi per ridere ad una raccolta di facezie. Un lungo seguito di racconti fondati sullo stesso motivo d’interesse non può che esaurire ben presto la sensazione che risvegliano; così in una grande galleria di quadri lo splendido lusso dei colori abbaglia l’occhio al punto di renderlo meno atto a discernere il [p. xxviii modifica]merito particolare di ogni pittura. Ma a dispetto di questi svantaggi, il lettore capace di liberarsi dagli inciampi della realtà, e di supplire coll’immaginazione agli accessorj che mancano a queste grossolane leggende, vi trova un interesse di verisimiglianza e tali impressioni ingenue che il romanziero con tutto il suo ingegno deve rinunciare a far nascere.

Nondimeno si può dire della musa delle finzioni romanzesche.

“Mille habet ornatus.”

Il professore Musaeus e gli autori della sua scuola hanno saputo ornare abilmente queste semplici leggende, e rialzare il carattere dei loro personaggi principali senza allontanarsi troppo dall’idea primitiva del racconto o della tradizione. Per esempio, nel Figlio del prodigio la leggenda originale non s’innalza niente al di sopra di un racconto da nutrice; ma qual interesse ella presta al carattere di quel vecchio padre egoista che baratta le sue quattro figlie colle ova d’oro e i sacchi di perle!

Un altro modo di servirsi del meraviglioso e del soprannaturale ha [p. xxix modifica]risuscitato ai nostri giorni il romanzo delle prime età colle sue istorie e colla sua antichità. Il barone de la Motte Fouqué si è distinto in Allemagna con un genere di composizione che esige ad un tratto la pazienza dell’erudito e l’immaginazione del poeta. Questo romanziero ha per iscopo di tracciare l’istoria, la mitologia ed i costumi degli antichi tempi in un quadro animato. I Viaggi di Thioldolf, per esempio, iniziano il lettore a quell’immenso tesoro di superstizioni gottiche che si trovano nell’Edda e nelle Sagas delle nazioni settentrionali. Affine di rendere più sorprendente il carattere del suo bravo e generoso Scandinavo, l’autore gli ha opposto come contrasto la cavalleria del Mezzodì sulla quale pretende stabilire la sua superiorità.

In alcune delle sue opere il barone de la Motte Fouqué è stato troppo prodigo di particolarità istoriche. L’intelligenza del lettore non può sempre seguirlo quando lo conduce in mezzo alle antichità alemanne. Il romanziero non saprebbe guardarsi troppo dal soffocare l’interesse della sua finzione sotto i materiali della [p. xxx modifica]scienza: tutto quello che non è immediatamente compreso o spiegato brevemente è di troppo nei romanzi istorici. E infatti il barone è stato più felice in altri soggetti meglio scelti. La sua istoria di Sintram e de’ suoi compagni, è ammirabile: la sua Ondina o Najade è incantevole. La disgrazia dell’eroina è reale, quantunque sia la disgrazia di un essere fantastico. Ella è uno Spirito elementare che rinuncia ai suoi privilegi di libertà per isposare un giovane cavaliere e il cui amore non è pagato che d’ingratitudine. Questa istoria è il contrasto, e nello stesso tempo il riscontro del Diavolo innamorato di Cazotte, e del Trilby di Carlo Nodier, con tutta la differenza che distingue lo stile casto di Trilby e di Ondina dalla frivolità un po’ lubrica del loro spiritoso prototipo.

I numerosi romanzi pubblicali dal barone de la Motte Fouqué ci conducono attraverso le età ancora oscure dell’istoria antica sino ai limiti ugualmente oscuri delle incerte tradizioni ecc. Sotto il suo pennello fecondo nascono scene interessanti che in qualche modo ricordano quelle dell’epopea. [p. xxxi modifica]Il gusto dei Tedeschi pel misterioso ha fatto loro inventare un altro genere di imposizione, che forse non poteva esistere che nel loro paese e nella loro lingua. E il genere che si potrebbe chiamare fantastico, dove l’immaginazione si abbandona a tutta l’irregolarità dei suoi capricci e a tutte le combinazioni delle scene più bizzarre e più burlesche. Nelle altre finzioni in cui è ammesso il meraviglioso, si segue una regola qualunque; qui l’immaginazione non si arresta che quando è esaurita. Questo genere è al romanzo più regolare, serio e comico, quello che la farsa, o piuttosto le parodie e la pantomima sono alla tragedia e alla commedia. Le trasformazioni più imprevedute e più stravaganti hanno luogo coi mezzi più improbabili. Non v’ha niente che tenda a modificarne l’assurdità. Bisogna che il lettore si contenti di guardare i giochi di mano dell’autore come guarderebbe i salti perigliosi e le metaformosi di Arlecchino, senza cercarvi altro senso nè altro scopo che la sorpresa del momento. L’autore che è alla testa di letteratura romantica questo [p. xxxii modifica]ramo è Ernesto Teodoro Guglielmo Hoffmann.

L’originalità del genio, del cantiere e delle abitudini di Ernesto Teodoro Guglielmo Hoffmann lo rendevano proprio a distinguersi in un genere di lavori che esige la più bizzarra immaginazione. Era un uomo di raro talento. Egli era ad un tratto poeta, disegnatore e musico; ma disgraziatamente il suo temperamento ipocondriaco lo spinse continuamente agli estremi in tutto quello che intraprese: la sua musica non fu che una riunione di suoni strani, i suoi disegni non furono altro che caricature, i suoi racconti, come dice egli stesso, non altro che stravaganze.

Allevato pel foro egli coperse da principio in Prussia parecchie cariche inferiori nella magistratura; ma presto ridotto a vivere della sua industria, ebbe ricorso alla sua penna ed alla sua matita, oppure compose della musica pel teatro. Questo cambiamento continuo di occupazioni incerte, questa esistenza errante e precaria produssero senza dubbio il loro effetto sopra uno spirito particolarmente suscettivo di esaltazione o di scoraggiamento, e resero [p. xxxiii modifica]più variabile ancora un carattere già troppo incostante. Hoffmann infiammava ben anche l’ardore del suo genio con frequenti libazioni, e la sua pipa, compagna fedele, lo inviluppava in un atmosfera di vapori. Il suo esteriore stesso indicava la sua irritazione nervosa. Egli era piccolo di statura, e il suo sguardo fisso e selvaggio che sfuggiva attraverso ad una folta capellatura nera tradiva quella specie di disordine mentale di cui sembra aver avuta conoscenza egli stesso, quando scriveva sul suo giornale questo memorandum che non si può leggere senza un movimento di raccapriccio: “Perchè nel mio sonno come nelle mie veglie i miei pensieri si portano sì sovente e mio malgrado sul tristo soggetto della demenza! Mi sembra, lasciando libero il corso alle idee disordinate che s’innalzano nel mio spirito, ch’esse mi scappino come se il sangue spicciasse da una delle mie vene che venisse a spezzarsi.”

Alcune circostanze della vita vagabonda di Hoffmann vennero anche ad accrescere i suoi timori chimerici di essere improntato con un sigillo fatale che [p. xxxiv modifica]lo respingesse fuori dal circolo comune degli uomini. Queste circostanze non avevano però niente di così straordinario, come se lo figurava la ammalata sua immaginazione. Citiamone un esempio. Egli era alle Acque ed assisteva ad una partita di giuoco molto animata con uno dei suoi amici che non potè resistere alla tentazione di far sua una parte dell’oro che copriva il tappeto. Diviso tra la speranza del guadagno e il timore della perdita, e diffidando della sua propria stella, pose sei monete d’oro fra le mani di Hoffmann pregandolo di giuocare per lui. La fortuna fu propizia al nostro giovane visionario, ed egli guadagnò pel suo, amico una trentina di federichi d’oro.

Il giorno dopo alla sera Hoffmann si risolvette di tentare la sorte per sè stesso. Questa idea, come egli avverte, non era il frutto di una determinazione anteriore, ma gli fu subitaneamente suggerita dalla preghiera che gli fece il suo amico di giuocare per lui una seconda volta. Egli si avvicinò dunque alla tavola per suo proprio conto e pose sopra una carta i due soli federichi d’oro che possedeva. Se [p. xxxv modifica]la fortuna di Hoffmann era stata notabile il giorno antecedente, allora si avrebbe potuto credere che un potere soprannaturale avesse fatto un patto con lui per secondarlo; ogni carta gli era favorevole; ma lasciamo parlare egli stesso.

“Io perdei ogni potere sui miei sensi, ed a misura che l’oro si ammonticchiava davanti a me io credeva fare un sogno del quale non mi risvegliai che per portarmi via quel guadagno tanto considerabile quanto inaspettato. Il giuoco cessò secondo l’uso a due ore della mattina. Mentre stava per abbandonare la sala un vecchio ufficiale mi pose la mano sulla spalla e indirizzandomi uno sguardo severo: O giovane, egli mi disse, se voi, continuate in questo modo, farete saltare la banca; ma quando anche ciò fosse, voi siatene certo, non sarete per ciò una preda meno sicura pel diavolo, che il resto de’ giuocatori. Egli uscì subito senza aspettare nessuna risposta. Il giorno principiava a spuntar quando rientrai in casa mia e copersi la tavola coi miei mucchi d’oro. Immaginatevi che cosa dovesse provare un giovane che in uno stato di dipendenza assoluta e colla borsa [p. xxxvi modifica]ordinariamente molto leggiera, si trovava improvvisamente in possesso di una somma bastante per costituire una vera ricchezza, almeno pel momento! Ma mentre io contemplava il mio tesoro un’angoscia singolare venne a cambiare il corso delle mie idee; un freddo sudore scorreva dalla mia fronte. Le parole del vecchio ufficiale risonarono alle mie orecchie nella loro espressione più estesa e più terribile. Mi sembrò che l’oro che brillava sulla mia tavola fosse l’arra d’un contratto col quale il Principe delle tenebre avesse preso possesso della mia anima per l’eterna sua distruzione. Mi sembrò che un rettile velenoso succhiasse il sangue del mio cuore, ed io mi sentii immerso in un abisso di disperazione.” L’alba nascente cominciava allora a brillare attraverso alla finestra di Hoffmann e ad illuminare coi suoi raggi la campagna vicina. Egli ne provò la dolce influenza, e ritrovando forze bastanti a combattere la tentazione fece il giuramento di non toccar più carte in vita sua e lo mantenne.

“La lezione dell’ufficiale fu buona, disse egli, ed il suo effetto eccellente.” Ma con un’immaginazione come quella [p. xxxvii modifica]di Hoffmann questa impressione fu il rimedio di un empirico piuttosto che quello di un bravo medico. Egli rinunciò al giuoco, meno per la sua convinzione delle funeste conseguenze morali di questa passione, che pel timore positivo che gli inspirava lo spirito del male in persona.

Non è raro il veder succedere a questa esaltazione come a quella della pazzia, gli eccessi di una timidità eccessiva. I poeti stessi non hanno voce di essere coraggiosi tutti i giorni, da che Orazio ha confessato di aver abbandonato il suo scudo; ma non era la stessa cosa di Hoffmann. Egli era a Dresda all’epoca pericolosa, in cui questa città sul punto di esser presa dagli Alleati, fu salvata del ritorno subitaneo di Bonaparte e della sua guardia. Egli vide allora la guerra da vicino e si avventurò molte volte alla distanza di cinquanta passi dai bersaglieri francesi, che cambiavano le loro palle davanti a Dresda con quelle degli Alleati.

Nel bombardamento di questa città una bomba scoppiò davanti alla casa in cui Hoffmann col comico Keller stava colla tazza alla mano guardando da un’alta finestra i progressi dell’attacco. Lo [p. xxxviii modifica]scoppio uccise tre persone, Keller lasciò cadere la sua tazza, ma Hoffmann dopo aver vuotata la sua: “che cosa è mai la vita? gridò filosoficamente, e quanto è fragile la macchina umana che non può resistere allo scoppio di un ferro ardente!”

Nel momento in cui si ammucchiavano i cadaveri in quelle fosse immense che sono la tomba del soldato egli visitò il campo di battaglia, coperto di morti e di feriti, di armi spezzate, di schakò, di sciabole, di giberne, e di tutti gli avanzi di una battaglia sanguinosa. Egli vide anche Napoleone in mezzo al suo trionfo, e lo intese indirizzare ad un aiutante collo sguardo e colla voce del leone, questa sola parola. “Vediamo.”

E rincrescevole che Hoffmann non abbia lasciato che delle note poco numerose sugli avvenimenti dei quali fu testimonio a Dresda, e di cui egli col suo spirito osservatore e col suo talento per la descrizione avrebbe potuto tracciare un quadro sì fedele. Si può dire in generale delle relazioni di assedii e di combattimenti ch’esse figurano piuttosto dei piani che dei quadri e che se possono [p. xxxix modifica] istruire il tattico sono poco fatte per interessare l’universale dei lettori: un militare, principalmente parlando delle guerre in cui si è trovato, è sempre troppo disposto a raccontarle collo stile secco e tecnico di una Gazzetta, come se temesse l'accusa di voler esagerare i suoi propri pericoli rendendo drammatico il suo racconto.

La relazione della battaglia di Lispia come l'ha pubblicata un testimonio oculare, il signor Shoberl, è un esempio di quello che si avrebbe potuto aspettarsi dall’ingegno di Hoffmann se la sua penna ci avesse reso conto delle grandi circostanze che erano avvenute sotto i suoi occhi. Noi avremmo volontieri rinunciato ad alcune delle sue opere di diavolerie, se invece ci avesse dato una fedele descrizione dell’attacco di Dresda e della ritirata dell'esercito alleato nel mese di agosto 1813. Hoffmann era inoltre un vero, e onesto tedesco in tutta la forza del termine, ed egli avrebbe trovata una musa nel suo ardente patriotismo.

Non gli fu dato però di provarsi a nessun’opera, per piccola che fosse, nel genere istorico; la ritirata dell'esercito francese [p. xl modifica]francese lo rese ben presto alle sue abitudini di letterali lavori e di sociali godimenti. Si può tuttavia supporre che l’immaginazione sempre attiva di Hoffmann ricevesse un nuovo impulso da tante scene di pericolo e di terrore. Una calamità domestica contribuì anche ad aumentare la sua sensibilità nervosa, una vettura pubblica nella quale egli viaggiava si rovesciò sulla strada, e sua moglie ricevè nella testa una ferita molto grave che la fece soffrire per lungo tempo. Tutte queste circostanze congiunte all’irritabilità naturale del suo carattere gettarono Hoffmann in una situazione di spirito più favorevole forse per ottenere dei successi nel suo genere particolare di composizione che compatibile con quella calma felice, nella quale i filosofi si accordano a mettere la felicità sulla terra.

Egli è ad un’organizzazione come quella di Hoffmann che si applica quel passo dall’ode ammirabile all’Indifferenza3: “Il cuore non può più conoscere la pace nè la gioia quando simile alla [p. xli modifica]bussola egli gira, ma trema girando secondo il soffio della fortuna o dell’avversità.„

Ben presto Hoffmann fu sottomesso alla più crudel prova che si possa immaginare. Nel 1807 un violente accesso di febbre nervosa aveva molto aumentata la funesta sensibilità alla quale doveva tante pene. Si era fatto egli stesso per determinare lo stato della sua immaginazione una scala graduata, una specie di termometro che indicava l’esaltazione dei suoi sentimenti, e che s’innalzava qualche volta sino ad un grado poco distante da una vera alienazione mentale. Non è facile forse di tradurre con espressioni equivalenti i termini dei quali si serve Hoffmann per classificare le sue sensazioni; noi tenteremo però di dire che le sue note sul suo umore giornaliero descrivono alternamente una disposizione alle idee mistiche o religiose, il sentimento di un’allegria esagerata, quello di un’allegria ironica, il gusto di una musica romorosa e pazza, un umor romanzesco rivolto verso le idee aspre e terribili: una inclinazione eccessiva per la satira amara tendente a ciò che vi ha di più bizzarro, di più capriccioso, di più [p. xlii modifica]straordinario; una specie di quietismo favorevole alle impressioni più caste e più dolci d’un immaginazione poetica; finalmente un’esaltazione non d’altro suscettibile che delle idee più nere, più orribili, più disordinate e più opprimenti.

In certi tempi, al contrario, i sentimenti che esprime il giornale di quest’uomo disgraziato non accusano più che un abbattimento profondo, un disgusto che gli faceva respingere le emozioni che accoglieva il giorno prima colla maggior premura. Questa specie di paralisia morale è a nostro avviso una malattia che affetta più o meno tutte le classi, dall’operajo che si avvede per servirsi della sua espressione, che non ha più la mano solita e non può più adempire i suoi obblighi giornalieri colla sua prontezza ordinaria, sino al poeta cui la sua mente abbandona quando più gliene abbisognano le ispirazioni. In simili casi l’uomo saggio ha ricorso al moto o ad un cambiamento di studi; gl’ignoranti e gl’imprudenti cercano mezzi più grossolani per iscacciare il parosismo. Ma quello che per una persona di spirito sano non è che la sensazione disaggradevole di un [p. xliii modifica]giorno o di un’ora diventa una vera malattia per gli spiriti come quello di Hoffmann sempre disposti a tirare dal presente funesti presagi per l’avvenire.

Hoffmann aveva la disgrazia di essere particolarmente sottomesso a una singolar paura dell’indomani e di opporre quasi immediatamente ad ogni sensazione aggradevole che s’innalzava nel suo cuore, l’idea d’una conseguenza trista, o pericolosa. La sua biografia ci ha dato un particolare esempio di questa cattiva disposizione che lo portava non solamente a temere il peggio quando ne aveva qualche motivo reale, ma anche a turbare con questo timore ridicolo e sragionevole le circostanze più naturali della vita.

“Il diavolo, aveva egli il costume di dire, si mette in tutti i miei affari anche quando offrono da principio la piega più favorevole„. Un esempio senza importanza, ma bizzarro, farà meglio conoscere questa fatale inclinazione al pessimismo. Hoffmann osservatore minuto vide un giorno una piccola fanciulla indirizzarsi ad una donna sul mercato per comperare alcuni frutti che avevano colpito [p. xliv modifica]il suo sguardo ed eccitato i suoi desiderj. La prudente fruttajuola volle dapprima sapere che cosa ella aveva da spendere per questa compera; e quando la povera fanciulla che era di una bellezza singolare le ebbe mostrato con una gioja mista ad orgoglio una piccolissima moneta, la venditrice le fece intendere che non aveva nulla nella sua bottega che fosse d’un prezzo abbastanza modico per la borsa di lei. La povera fanciulla umiliata si ritirava colle lagrime agli occhi, quando Hoffmann la richiamò ed avendo fatto egli stesso il suo contratto le riempi il grembiale dei più bei frutti; ma egli aveva appena avuto il tempo di godere dell’espressione di felicità che aveva subitaneamente rianimata quella figura infantile, che fu tormentato dall’idea di poter essere la causa della di lei morte, poichè i frutti che le aveva dato poteano proccacciarle una indigestione o qualche altra malattia. Questo presentimento lo inseguì finchè fu arrivato alla casa d’un amico. Così il timore incerto di un male immaginario avvelenava continuamente quello che avrebbe dovuto addolcire per lui il [p. xlv modifica]presente o abbellir l’avvenire. Noi non possiamo qui trattenerci dall’opporre al carattere di Hoffmann quello del nostro poeta Wordsworth, sì notabile per la sua fertile immaginazione. La maggior parte dei piccoli poemi di Wordsworth sono l’espressione di una sensibilità estrema eccitata dai minimi accidenti eguali a quello che abbiamo or ora narrato; ma con questa differenza che una disposizione più felice e più nobile fa fare a Wordsworth delle riflessioni aggradevoli, dolci e consolanti in quelle stesse circostanze che ispiravano ad Hoffmann dei pensieri affatto diversi. Questi incidenti passano senza arrestare l’attenzione degli spiriti ordinarj, ma gli osservatori dotati di un immaginazione poetica come Wordsworth e Hoffmann, sono, per così dire, altrettanti abili chimici, che da queste materie in apparenza insignificanti sanno distillare dei cordiali o dei veleni.

Noi non vogliamo dire che l’immaginazione di Hoffmann fosse viziosa o corrotta, ma solo ch’ella era sregolata ed aveva una disgraziata inclinazione verso le immagini orribili e strazianti. Così egli era inseguito principalmente nelle sue ore [p. xlvi modifica]di solitudine e di lavoro dal timore di qualche pericolo indefinito dal quale si credeva minacciato, ed il suo riposo era turbato dagli spettri e dalle apparizioni, la cui descrizione aveva riempiti i suoi libri, e che la sua sola immaginazione aveva creati, come se avessero una esistenza reale ed un poter vero sopra di lui. L’effetto di queste visioni era spesso tale che durante la notte che consacrava alcune volte allo studio era solito di far alzare sua moglie e di farla sedere vicino a lui per proteggerlo colla sua presenza dai fantasmi che aveva scongiurati egli stesso nel suo entusiasmo.

Così l’inventore o almeno il primo autore celebre che abbia introdotto nella sua composizione il fantastico o il grottesco soprannaturale, era sì vicino ad un vero stato di pazzia, che tremava davanti ai fantasmi delle sue opere. Non è sorprendente che uno spirito che accordava sì poco alla ragione e tanto all’immaginazione abbia pubblicati degli scritti sì numerosi dove domina la seconda escludendo la prima. E in effetto il grottesco nelle opere di Hoffmann rassomiglia in parte a quelle pitture [p. xlvii modifica]arabesche che offrono ai nostri sguardi i più strani e i più complicati mostri, centauri, griffoni, sfingi, chimere; infine tutte le creazioni di un’immaginazione romanzesca. Simili composizioni possono abbagliare per una fecondità prodigiosa di idee, pel brillante contrasto delle forme e dei colori, ma non presentano nulla che possa illuminare lo spirito o soddisfare il giudizio. Hoffmann passò la sua vita, e certamente non poteva essere una vita felice, a tracciare senza regola e senza misura delle immagini bizzarre e stravaganti, che in fine non gli procacciarono che una riputazione molto inferiore a quella che avrebbe potuto acquistare col suo ingegno, se lo avesse sottomesso alla direzione di un gusto più sicuro o di un giudizio più solido. Vi è luogo di credere che la sua vita fu abbreviata non solo dalla sua malattia mentale, ma ancora dagli eccessi ai quali ebbe ricorso per preservarsi dalla melanconia, e che agivano direttamente sul suo spirito. Noi dobbiamo compiangerlo tanto più che a malgrado di tanta divagazione, Hoffmann non era un uomo ordinario; e se il turbamento delle sue idee [p. xlviii modifica]non gli avesse fatto confondere il soprannaturale coll’assurdo, egli si sarebbe distinto come un eccellente pittore della natura umana, ch’egli sapeva osservare ed ammirare nella sua realtà.

Hoffmann riusciva a tracciare principalmente i caratteri propri del suo paese. L’Allemagna fra i suoi autori numerosi non può citarne alcuno che abbia saputo personificare più fedelmente di lui quella schiettezza e quell’integrità che si trova in tutte le classi fra i discendenti degli antichi Teutoni. Vi è principalmente nel racconto intitolato il Maggiorasco un carattere che è forse particolare all’Allemagna, e che forma un vivo contrasto cogli individui della stessa classe come vengono rappresentati nei romanzi e come forse esistono in realtà negli altri paesi. Il giustiziere B... occupa nella famiglia del barone Roderigo di R..., nobile proprietario di vasti dominj in Curlandia, appresso a poco la stessa carica che il famoso Bailli Macwhecble esercitava sulle terre del barone di Bradwardino (se mi fosse permesso di citare Waverley). Il giustiziere per esempio era il rappresentante del signore nelle sue [p. xlix modifica]corti di giustizia feudale, egli aveva la sorveglianza delle sue rendite, dirigeva e controllava la sua casa, e per la conoscenza che aveva degli affari della famiglia si era acquistato il diritto di offrire il suo consiglio e la sua assistenza nei casi di difficoltà pecuniarie. L’autore scozzese si è presa la libertà di mischiare a questo carattere una tinta di quella furfanteria della quale si fa quasi l’attributo obbligato della classe inferiore delle persone di legge. Il Bailli è basso avaro astuto e vile; egli non isfugge al nostro disgusto e al nostro disprezzo che per la parte burlesca del suo carattere; gli si perdona una parte dei suoi vizj in favore di quell’attaccamento pel suo padrone e per la sua famiglia che è in lui una specie d’istinto, e che sembra vincerla anche sul suo egoismo naturale. Il giustiziere di R... è precisamente l’opposto di questo carattere; egli è bensì anch’esso un originale: ha le manie della vecchiaja e un poco del suo cattivo umore satirico; ma le sue qualità morali ne fanno, come dice giustamente La Motte Fouqué, un eroe degli antichi tempi che ha presa la veste da camera e le pantofole di un [p. l modifica]vecchio procuratore dei nostri giorni. Il suo merito naturale, la sua independenza, il suo coraggio sono piuttosto illustrate che offuscate dalla sua educazione e dalla sua professione, che suppone una conoscenza esatta del genere umano e che se non è subordinata all’onore ed alla probità è la maschera più vile e più pericolosa della quale un uomo possa coprirsi per ingannare gli altri. Ma il giustiziere d’Hoffmann per la sua situazione nella famiglia dei suoi padroni dei quali ha conosciute due generazioni, pel possesso di tutti i loro secreti e più ancora per la lealtà e per la nobiltà del suo carattere esercita sul suo signore istesso per altiero che sia un vero ascendente.

Il racconto che noi abbiamo ora citato mostra l’immaginazione sregolata di Hoffmann, ma prova anche che possedeva un talento che avrebbe dovuto contenerla e modificarla. Disgraziatamente il suo gusto e il suo temperamento lo strascinavano troppo fortemente al grottesco ed al fantastico per permettergli di ritornare sovente nelle sue composizioni al genere più ragionevole nel quale avrebbe [p. li modifica]facilmente riuscito. Il romanzo popolare ha senza dubbio un vasto cerchio da percorrere e lungi da noi il pensiero di chiamare i rigori della critica contro quelli dei quali l’unico scopo è di far passare al lettore un’ora aggradevole. Si può ripetere con verità che in questa letteratura leggeva.

«Tous le genres sont bons, hors le genre ennuyeux.»

Senza dubbio non bisogna condannare un fallo di gusto colla stessa severità che se fosse una falsa massima di morale, una ipotesi erronea della scienza o un’eresia in religione. Il genio, noi lo sappiamo, è capriccioso e vuole aver libero il volo anche fuori delle regioni ordinarie, se non fosse altro per arrischiare un nuovo tentativo. Qualche volta finalmente si possono arrestare gli sguardi con piacere sopra una pittura arabesca eseguita da un artista dotato di una vasta immaginazione; ma è penoso di vedere il genio esaurirsi sopra oggetti che il gusto riprova. Noi non vorremmo permettergli una escursione in quelle regioni [p. lii modifica]fantastiche che a patto che ne riportasse delle idee dolci ed aggradevoli. Noi non sapremmo avere la stessa tolleranza per quei capricci che non solo ci sorprendono colla loro stravaganza ma ci ributtano col loro orrore. Hoffmann deve aver avuti nella sua vita dei momenti di esaltazione dolce, come pure di esaltazione penosa: e il vino di Champagne che sprizzava nel suo bicchiere avrebbe perduto per lui la sua benefica influenza se non avesse risvegliato qualche volta nella sua mente delle idee aggradevoli non meno che dei pensieri bizzarri. Ma è una proprietà di tutti i sentimenti esagerati di tendere sempre verso le emozioni penose. Come gli accessi di pazzia hanno ben più frequentemente un carattere tristo che aggradevole, così il grottesco ha un’unione intima coll’orribile, perchè quello che è fuor della natura può difficilmente aver qualche rapporto con ciò che è bello. Niente per esempio può essere più dispiacevole all’occhio che il palazzo di quel principe italiano, infermo di mente, che era decorato da tutte le sculture mostruose che un’immaginazione depravata poteva suggerire allo scarpello dell’artista. [p. liii modifica]Le opere di Callot, che ha fatto prova di una fecondità di ingegno meravigliosa, procurano egualmente maggior sorpresa che piacere. Se noi paragoniamo la fecondità di Callot a quella di Hogarth noi li troveremo eguali l’uno all’altro; ma se confrontiamo il grado di soddisfazione che procura un esame attento delle loro composizioni rispettive, l’artista inglese avrà un immenso vantaggio. Ogni nuovo colpo di pennello che l’osservatore scopre fra i ricchi e quasi superflui particolari di Hogarth vale un capitolo nella storia dei costumi umani, se non del cuore dell’uomo; esaminando al contrario da vicino le produzioni di Callot, si scopre solamente in ciascuna delle sue diavolerie un nuovo esempio di uno ingegno inutilmente occupato o di una immaginazione che si travia nelle regioni dell’assurdo. Le opere dell’uno rassomigliano ad un giardino accuratamente coltivato che ci offre ad ogni passo qualche cosa di aggradevole o di utile; quelle dell’altro ricordano un giardino negletto il cui suolo egualmente fertile non produce che piante selvaggie e passite. [p. liv modifica]Hoffmann sì è in qualche modo identificato all’ingegnoso artista di cui abbiam ora fatta la critica, col suo titolo, Quadri di notte alla maniera di Callot, e a scrivere per esempio un racconto come l’uomo della sabbia bisogna che egli sia stato iniziato nei secreti di questo pittotore originale, con cui può reclamare certamente una vera analogia di talento. Noi abbiamo citato un racconto, il Maggiorasco, dove il maraviglioso ci sembra felicemente impiegato perchè si mischia ad interessi e a sentimenti reali, e perchè mostra con molta forza a qual grado le circostanze possano innalzar l’energia e la dignità dell’anima. Ma quest’altra novella è di un genere ben diverso:

«Metà orribile, metà bizzarro, simile ad un demonio che esprime la sua gioja con mille contorcimenti.»

Natanaele, l’eroe di questo racconto, è un giovane d’un temperamento fantastico ed ipocondriaco, d’uno spirito poetico e metafisico all’eccesso con quella organizzazione nervosa ch’è più particolarmente sottomessa all’influenza dell’immaginazione. Egli ci narra gli avvenimenti della sua infanzia in una lettera indirizzata a [p. lv modifica]Lotario suo amico, fratello di Chiara sua fidanzata.

Suo padre, onesto orologiajo, aveva l'abitudine di mandare a letto i suoi figli in certi giorni più presto che al solito e la madre aggiungeva alcune volte a quest’ordine; «Andate a letto, ecco che viene l’uomo dalla sabbia. Natanaele osservò effettivamente che dopo che essi si erano ritirati, si sentiva battere alla porta; un passo grave e strisciante rimbombava sulla scala, qualcuno entrava da suo padre e qualche volta un vapore disaggradevole e soffocante si spargeva nella casa. Era dunque l’uomo dalla sabbia; ma che cosa voleva e che veniva egli a fare? Alle dimande di Natanaele l’aja rispondeva, con un racconto da nutrice, che quello della sabbia era un uomo cattivo che gettava della sabbia negli occhi dei piccoli fanciulli che non volevano andare a letto. Questa risposta raddoppiò il suo spavento, ma risvegliò nello stesso tempo la sua curiosità. Egli risolvette finalmente di nascondersi nella camera di suo padre e di aspettarvi l’arrivo del notturno visitatore; eseguì questo progetto, e riconobbe nell’uomo della [p. lvi modifica]sabbia il causidico Copelius che aveva veduto sovente con suo padre. La di lui massa informe si appoggiava sopra due gambe corte; egli era mancino, aveva il naso grosso, le orecchie enormi, tutti i lineamenti smisurati, e il suo selvaggio aspetto che lo faceva somigliare ad un orso, aveva spaventato sovente i fanciulli quando ignoravano ancora che questo legista, già odioso per la sua ributtante bruttezza, era il temuto uomo della sabbia. Hoffmann ha tracciato uno schizzo di questa figura mostruosa, che senza dubbio ha voluto rendere altrettanto deforme pei suoi lettori di quello che poteva essere orribile pei fanciulli. Copelius fu ricevuto dal padre di Natanaele colle dimostrazioni di un umile rispetto; essi scoprirono un fornello secreto, lo accesero e cominciarono ben presto delle operazioni chimiche di una natura strana e misteriosa che spiegavano quel vapore del quale alcune volte era stata riempita la casa. I gesti degli operatori diventarono frenetici; i loro tratti presero un’espressione di smarrimento e di furore a misura che avanzavano nei loro lavori; Natanaele cedendo al terrore gettò un [p. lvii modifica]grido e uscì dal suo nascondiglio. L’alchimista (chè Copelius era tale) ebbe appena scoperta la piccola spia che minacciò di strappargli gli occhi, e non fu senza difficoltà che il padre interponendosi, pervenne a impedirlo di gettare delle ceneri ardenti negli occhi del fanciullo. L’immaginazione di Natanaele fu talmente colpita da questa scena che venne attaccato da una febbre nervosa, durante la quale, l’orribile figura del discepolo di Paracelso era continuamente davanti al suo sguardo come uno spettro minaccioso.

Dopo un lungo intervallo e quando Natanaele fa ristabilito, le visite notturne di Copelius al suo allievo ricominciarono: questi promise un giorno a sua moglie che non lo riceverebbe più che un’ultima volta. La sua promessa fa avverata, ma senza dubbio non come lo intendeva il vecchio orologiajo. Egli perì il giorno stesso per lo scoppio del suo laboratorio, senza che si potesse trovare nessuna traccia del suo maestro nell’arte funesta che gli aveva costata la vita. Un avvenimento simile era ben fatto per produrre una profonda impressione [p. lviii modifica]sopraun’immaginazione ardente: Natanaele fu inseguito finché visse dalla memoria di questo terribile personaggio, e Copelius s’identificò nel suo spirito col principio del male. L’autore continua in seguito egli stesso il suo racconto, e ci presenta il suo eroe agli studj dell’università dove è sorpreso dalla subitanea apparizione del suo instancabile persecutore.

Quest’ultimo rappresenta ora la parte di un merciajuolo italiano o del Tirolo che vende istrumenti di ottica; ma sotto la maschera della sua nuova professione e sotto il nome italianizzato di Giuseppe Coppola è sempre il nemico accanito di Natanaele. Questi è vivamente tormentato per non poter far dividere al suo amico ed alla sua amante i timori che gli ispira il falso mercante di barometri, in cui crede riconoscere il terribile legista. Egli è anche malcontento di Chiara, che guidata dal suo buon senso e da un sano giudizio, non solo respinge i suoi spaventi metafisici; ma biasima anche il suo stile poetico pieno d’ampollosità e di affettazione. Il suo cuore si allontana a gradi dalla compagna della sua infanzia, che [p. lix modifica]non sa essere che franca, sensibile ed affezionata, ed egli trasporta colla stessa gradazione il suo amore nella figlia di un professore nominato Spallanzani, la casa del quale è posta dirimpetto alle sue finestre. Questa vicinanza gli procura l’occasione frequente di contemplare Olimpia seduta nella sua camera: ella vi resta delle ore intiere senza leggere, senza lavorare ed anche senza muoversi; ma a dispetto di questa insipidità e di questa inerzia egli non può resistere all’incanto della sua estrema bellezza. Questa funesta passione prende un accrescimento ben più rapido ancora, quando egli si è lasciato persuadere di comperare un occhialetto dal perfido Italiano a malgrado della sorprendente di lui somiglianza coll’antico oggetto del suo terrore e dell’odio suo. La secreta influenza di questo vetro ingannatore nasconde agli occhi di Natanaele ciocchè colpiva tutti quelli che avvicinavano Olimpia. Non vede in lei una certa durezza di maniere che rende la sua andatura simile ai movimenti di una macchina, una sterilità d’idee che riduce la sua conversazione ad un piccolo numero di frasi asciutte e brevi che ripete [p. lx modifica]continuamente, non vede nulla infine di tutto quello che tradiva la sua origine meccanica. Non era effettivamente che una bella bambola o un automa creata dalla mano abile di Spallanzani, e dotato di una apparenza di vita dai diabolici artificj dell'alchimista avvocato e merciajuolo Copelius o Coppola.

L'innamorato Natanaele arriva a conoscere questa fatale verità trovandosi testimonio di una lite terribile che insorge tra i due imitatori di Prometeo, a riguardo dei rispettivi interessi in questo prodotto del loro potere creatore. Essi proferiscono le più infami imprecazioni, mettono in pezzi la loro bella macchina, e prendono le sue membra sparse colle quali si battono a colpi raddoppiati. Natanaele già pazzo per metà cade in una frenesia completa alla vista di quest’orribile spettacolo... Ma saremmo pazzi noi stessi se continuassimo ad analizzare questi sogni di un cervello in delirio. Allo scioglimento il nostro studente in un accesso di furore vuol uccidere Chiara precipitandola dalla sommità di una torre: ma il di lei fratello la salva da questo pericolo, e il frenetico, restato [p. lxi modifica]solo sulla piattaforma gesticola con violenza e va spacciando dall’alto il gergo magico che ha imparato da Copelius e da Spallanzani. Gli spettatori che questa scena aveva radunati in folla al piede della torre cercavano i modi d’impadronirsi di questo furioso, quando Copelius appare subitaneamente fra loro e gli assicura che Natanaele discenderà subito da sè stesso. Egli avvera la sua profezia fissando sul disgraziato giovane uno sguardo di fascinazione che lo fa tosto precipitare da sè stesso colla testa all’ingiù. L’orribile assurdità di questo racconto è debolmente compensata da alcuni tratti nel carattere di Chiara, la cui fermezza, il semplice buon senso e la franca affezione formano un aggradevole contrasto coll’immaginazione disordinata, le apprensioni, i timori chimerici e la sregolata passione del suo stravagante ammiratore.

È impossibile di sottomettere simili racconti alla critica. Non sono le visioni di uno spirito poetico; esse non hanno neppure quella connessione apparente che i traviamenti della demenza lasciano alcune volte alle idee di un pazzo; sono [p. lxii modifica]i sogni di una testa debole in preda alla febbre, che possono un momento eccitare la nostra curiosità per la loro bizzarrìa, o la nostra sorpresa per la loro originalità, ma non mai più che un attenzione molto passeggera; e in verità le inspirazioni di Hoffmann rassomigliano sì spesso alle idee prodotte dall’uso smoderato dell’oppio, che noi crediamo ch’egli avesse più bisogno del soccorso della medicina che degli avvisi della critica.

La morte di quest’uomo straordinario avvenne nel 1822. Egli fu colpito da una crudele tabe dorsale che lo privò a poco a poco dell’uso delle sue membra. Anche in questa dolorosa estremità egli dettò molte opere che indicano ancora la forza della sua immaginazione, fra le quali noi citeremo un frammento intitolato la Convalescenza pieno di allusioni commoventi ai suoi propri sentimenti in quell’epoca, e una novella intitolata l’Avversario, alla quale consacrò quasi i suoi ultimi momenti. Nulla fu capace di smuovere la forza del suo coraggio; egli seppe soffrire con costanza le angoscie del suo corpo, quantunque fosse incapace di sopportare i terrori immaginarj del suo spirito [p. lxiii modifica]spirito. I medici credettero dover venire alla crudele prova del cauterio attuale coll’applicazione di un ferro ardente all’osso della midolla spinale per tentare di rianimare l’attività del sistema nervoso. Egli fu sì lontano dal lasciarsi abbattere dalle torture di questo martirio medico che chiese ad uno dei suoi amici, che entrò nella stanza al momento in cui si era appena terminata questa terribile operazione “se non sentiva l’odore di carne arrostita”. “Io acconsentirei volontieri, diceva egli collo stesso coraggio eroico, a perder l’uso delle mie membra se potessi solamente conservar la forza di lavorare coll’ajuto di un segretario”. Hoffmann morì a Berlino il 25 Giugno 1822 lasciando la riputazione di un uomo singolare, che solo il suo temperamento e la sua salute avevano impedito di giungere alla più alta fama, e le opere del quale, come esistono presentemente, devono esser considerate meno come un modello da imitare che come un salutare avvertimento del pericolo che corre un autore che si abbandona agli impeti di una pazza immaginazione.



Note

  1. On the super natural in fictitious composition. (F.Q.R.)
  2. Traduzione del Papi.
  3. Del poeta Collins.