Osservazioni di Giovanni Lovrich/Vita di Soçivizca
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VITA
DI
. . . . . reperies qui ob similitudinem morum alienæ
malefacta sibi objectare putent. Tac. an. 4.
Nacque Stanislao 1 Soçivizca, uno de’ più strepitosi Aiduzci 2 de’ giorni nostri in Erzcegovina a Simiovo, nella Villa di Vragnska, distante sedici miglia da Trebigne nello Stato Ottomano verso l’anno MDCCXV. Ebbe per Padre Vuk 3 Uomo d’infelicissima fortuna, e tre fratelli unitamente a quali si occupava del lavoro della terra di certi richissimi Turchi detti Umetalçichi. L’infelice famiglia di Socivizca era maltrattata da’ suoi Padroni con modi aspri, violenti, ingiuriosi, e tiranni. Socivizca di naturale feroce, ed i suoi fratelli pure non potevano a meno di non risentirsi di un così barbaro procedere, ma il Padre loro pacifico voleva, ch’eglino sopportassero con pazienza il tutto, e così fu fatto per lunga pezza. Volle il caso, che i mentovati Padroni, ch’erano i tre fratelli, dopo aver scosso l’Araç, o sia contribuzione dai sudditi de’ varj Villaggi loro, aveano cumulata la summa di dieciotto mila Zecchini, ed andorno ad alloggiare in casa del Socivizca. Esso allora disse a suoi fratelli, che che il Padre loro non ne fosse persuaso, „ ora è tempo di vendicarsi. “ La necessità, in cui si attrovavano, la certezza del bottino, la Tirrannia de’ Padroni, il ricordo delle passate ingiurie erano tutte cause, che persuasero i fratelli a concorrere nella opinione di Socivizca, e massacrarono i loro Padroni, ed Ospiti, facendo loro servir di sepoltura una profondissima fossa scavata vicino alla casa. Era in quel tempo Passà di Trebigne un Turco, detto Suleiman, e Firdus, o Capitanio uno, nomato Passich. Furono per ordine di questi trucidati, e fatti schiavi cinquanta Cristiani all’incirca, perchè non voleano confessar di essere rei, quando non lo erano. Sulla famiglia di Socivizca non era mai caduto il sospetto, ch’ella potesse essere delinquente. È legge fra’ Turchi, che di quel Villaggio, in cui manca qualunque summa di denaro, debbano tassarsi i Villici, e pagarla, se non la si trova. Così fu fatto in questo incontro. Ma il lussurioso vestito, l’orgoglio insolito, la temerità, e l’audacia, che s’impossessarono dell’animo di Socivizca, non seppero farli mascherar l’assassinio più di un anno. Appena però, che cominciossi mormorare un pocolino, Socivizca più che di fretta consigliò i fratelli di mettersi in fuga con tutto il soldo, che possiedevano. Da di là partiti col vecchio Padre, che morì per istrada, arrivarono a Imoschi. Correva allora l’anno MDCCXLV. Ivi comprarono possessioni, fabbricarono una casa, e vi piantarono due Botteghe piene di ricchissime merci. Credette Socivizca, che le bagattelluccie, che si guadagnano nelle Botteghe non meritassero la sua attenzione, e perciò risolse di tornarsene a Monte-nero in compagnia di alcuni parenti, ed amici, che formavano il numero di dieci Persone, e nel periodo di una State massacrarono quaranta de’ Turchi. Era mancato lo schioppo ad un compagno di Socivizca, ed esso andossene in traccia di uno per prenderlo a viva forza a chi primo se gli presentasse. Ma ecco, che all’improvviso e’ s’incontra in una Caravana Turca. I due primi Turchi, che lo videro, lo presero per Aiduco, come infatti lo era: esso però negava. Ma sopraggiunti altri sei, cominciarono a fargli lo stesso complimento, e senz’altre cerimonie gli fecero cerchio all’intorno. Quando e’ si vide in sì brutto rischio, ricorse ad uno stratagemma per liberarsene, e con uno sparo di pistola, e ad altavoce cominciò a chiamar in ajuto i suoi compagni, ch’erano rimasti in poca distanza. I Turchi, che già già se li credevano addosso, si rivolsero per osservar da qual parte eglino venivano, ed intanto Soçivizca ebbe l’agio di fuggire fra mezzo a loro. Ma come liberarsi dalle schioppettate de’ Turchi? Soçivizca, che ben conosceva il loro naturale di sprovvedersi delle cariche tutti in una volta, stramazzò boccone per terra. Così i Turchi, che spararono gli archibugi con somma prestezza, che secondo la loro mira dovean colpir Soçivizca a mezza vita, o nel capo, non ebbero alcun intento. Esso allora levatosi in piedi, ammazzò un Turco, ed un altro, che gli aveva assaltata la vita colla scimitara in mano tramortì con un colpo di schioppo, non ricordandosi di aver carica la pistola, con cui poscia l’ammazzò. Frattanto giunsero i suoi compagni, ed ucciso un altro Turco, gli altri cinque misero in fuga. La Caravana, che veniva in seguito era troppo numerosa, nè volle arrischiarsi Soçivizca di darle ulterior impaccio, e se avesse avuto più compagni seco, allora si poteva fare una grossissima preda. Dopo questo fatto tornò ad Imoschi ove visse tranquillamente per nove anni in circa dedito alla mercatura, eccettochè si dilettava di quando in quando ammazzar qualche Turco per diporto. Ma uno de’ suoi fratelli si compiaceva di girsene co’ più feroci Aiduzci ad insultar i Turchi, e tra gli altri vi era il famoso Pezcirep, che si prendea gioco d’impalar vivi i Turchi stessi, ed arrostirli. A questo però fu resa la pariglia, allora quando i Turchi lo presero, e conficatogli un palo per di dietro, si dice, che sia vissuto tre giorni sullo stesso, ma sempre ugualmente fiero, e per mostrar, quanto sprezzava la morte sul patibolo fumava del tabacco. Il fratello di Soçivizca erasi fatto Pobratime con un Morlacco Greco, suddito Ottomano. Questo perfido Greco seppe fingerli amicizia così grande, che lo persuase di andarsene seco a casa propria, poco lontana dai confini d’Imoschi, e trattatolo con tutta la ospitalità Nazionale, ed ubbriacatolo bene, lo consigliò di colcarsi per riposare un poco. Intanto esso corse ad avvisare i Turchi, e per l’avarizia di bruscar la mancia, consegnò l’amico nelle loro mani, che lo condussero al PassàFonte/commento: Pagina:Osservazioni di Giovanni Lovrich.djvu/269 di Travnik. Il fratello di Socivizca, come puossi ognuno immaginare, fu tormentato da’ Turchi per otto giorni continui ne’ modi i più barbari, ed i più atroci. Arrivato agli orecchi di Soçivizca il caso tragico del fratello, e non essendogli noto precisamente il caso, andò a prender le informazioni dal finto suo Probatime, di cui il Padre con imponente gravità senile mascherò il racconto in modo, che Socivizca restò persuaso, che nessun gli avesse usato tradimento. Il Pobratime finse allora di andarsene a prender un castrato dalla mandria, ch’era lontana, per far buona accoglienza al Soçivizca, ed era andato veramente a chiamar i Turchi di Duvno, dodici buone miglia lontani dalla sua casa. Passate parecchie ore della notte, nè vedendosi mai comparire il castrato, Soçivizca, e tutti della famiglia del Pobratime si misero a dormire. Ma non potendo mai addormentarsi Soçivizca, come chi prevede qualche malorcia, si levò in piedi, e volle accendere un lumicino, ma non trovò del foco, perchè il Capo di casa, che sapeva quello dovea succedere in quella notte lo avea ammorzato, ed ascose anche tutte le armi. Soçivizca si mise in sospetto, che colà gli si ordisseFonte/commento: Pagina:Osservazioni di Giovanni Lovrich.djvu/269 qualche tradimento, e con furia cominciò a rintracciar le sue armi per la casa, ma in vano. Chiedeva ad alta voce, se alcuno sapeva additargli, dov’elleno sieno, e nessuno rispondeva; finchè una vecchia con maniera brusca, ed intollerante gli disse „ Taci balordo, e dormi: non risvegliar la mia famiglia“. Soçivizca avea altra voglia che dormire. Teneva per buona sorte sempre seco tutto l’occorrente per accender un lumicino, e quando si accorse, lo accese. Interrogò di poi il Capo di casa, dove fossero poste le sue armi. Questo finse d’ignorare; ma la finta ignoranza gli cagionò la morte che a lui diede Soçivizca con un’accetta colà trovata. Allora una vecchia gli recò con somma celerità tutte le sue armi, ricuperate le quali se ne uscì di casa, ed in poca distanza si era appostato ad osservare dove andava a terminare il tradimento del suo Ospite, quando sentì tutto in una volta il calpestio de’ cavalli, su cui v’erano i Turchi, che venivano a prenderlo. Tornarono indietro però con sommo dolore di non averlo trovato. Socivizca tornò ad Imoschi. Si ricordava il doppio tradimento del Pobratime, e non pensava ad altro, che alla vendetta. Dopo parecchi giorni unì sette compagni, con cui se ne andò in tempo di notte ad abbrucciargli la casa ch’era di paglia, ove si abbrucciarono diecisette persone di quella famiglia, rifugiatesi in quella sera per somma loro disgrazia a dormir tutte in casa. Una povera Donna con un pargoletto in braccio era arrivata fino alla soglia della porta, per evitar l’incendio, ma fu nel tempo stesso da varie archibugiate insieme col pargoletto ferita, e uccisa. Turchi non erano certi chi fosse l’autore di questo incendio, ma il sospetto non potea cader, che sopra Socivizca. Irritati dunque da una vendetta così atroce, fecero contro di esso amarissime doglianze all’Eccellentissimo General della Dalmazia, e fu sapientissimamente ordinato, che gli si dovesse spianar la casa, punir i suoi complici, ed una taglia di venti Zecchini a chi lo ammazzasse, e quaranta a chi lo prendesse vivo. Cessata in Socivizca la fiducia di poter più vivere con la solita libertà a Imoschi, pensò di disseccar tutti i capitali del suo negozio, prima ancora di sapere il decreto contro lui emanato. Era in continua agitazione per non poter essere certo del suo destino, ed usava tutte le precauzioni possibili per non lasciarsi cogliere all’improvviso. Ai quindici di Agosto l’anno MDCCLIV, in cui fece il suddetto misfatto, si attrovava esso alla Fiera di Sign, da dove vedendo partir una compagnia de’ Crovati a cavallo, s’immaginò, ch’ella potesse andar di lui in traccia, laonde da lunge andava osservando verso che parte era diretta. E perchè si supponeva, che Socivizca avesse i suoi esploratori, si pensò di far prender a’ Soldati un altro giro di strada, diversa dalla comune. Ma egli pel timore, trattandosi della propria vita, non si fidava, che di se stesso, e congetturò, che la compagnia de’ Crovati andasse certamente verso Imoschi, che che per indiretto cammino. Allora senza altro indugio e’ si pose a camminar alla disperata, ed ora trammezzando le spinose Valli, ora i dirupati Monti precedè l’arrivo de’ Soldati a Imoschi a tempo di avvisar la famiglia, che raccogliesse tutto ciò, che v’era di meglio in casa, e si dasse ad una veloce fuga. In tal modo nella sua casa, che allora fu distrutta, non fu trovata robba di gran prezzo. Ma prevedendo Socivizca, che la sua dimora nelle Tenute Venete potea recargli un fine funesto, giudicò consiglio ben conceputo cangiar tosto Dominio, e si trasferì con la famiglia nello stato Austriaco a Carlovatz verso il fiume Zermagna. Era poco addatato quel luogo per seguitar a viver colla massima di massacrar i Maomettani. Socivizca si era anche cangiato di molto. Visse colà per tre anni non interi con la sua famiglia, che componeva il numero di altre cinque Persone (cioè due fratelli, la moglie, un figlio, ed una figlia) senza molestar alcuno, e avrebbevi forse continuato così insino alla morte, se qualcuno, che poteva, per l’avidità dell’oro non lo avesse consegnato in mano de’ Turchi, unitamente a’ due Fratelli. Si dice, che pagò il fio chi fu capace di una tal arbitraria consegnazione. Cento de’ Turchi ricevettero Socivizca co’ suoi fratelli a Cuc, passata Udbina, ch’è verso le parti del triplice confine, e li condussero al Passà di Travnik, che avea fatto alquanti anni prima massacrar un suo fratello, a motivo di cui Socivizca come vedemmo, si addossò la indignazione de’ Turchi. Dopo essere stati posti in prigione, ben custoditi Socivizca, ed i fratelli, furono loro proposte due condizioni, o farsi Turchi, o lasciarsi impalare. Essi, cui non ben piaceva questa ultima gentilezza, si lasciaro più tosto circoncidere, e Socivizca prese il nome d’Ibraim. I due fratelli col tempo furono cavati dalla prigione, ed uno di essi era fatto Agà, titolo di qualche onore presso i Turchi. Ma l’Agà stimò meglio di rinunciar un tal onore, e di fuggirsene: lo stesso fece l’altro fratello. Allora il Passà fece raddoppiar i ceppi a Soçivizca con più gelosia, onde non gli rimanesse speranza immaginabile di liberarsene. Fingeva Socivizca di essere diventato un buon Turco, ma ciò non bastava. Egli che nella prigione istessa orgogliosamente parlava per lo avanti co’ Turchi, erasi reso docile; ma neppur ciò era bastante per la sua liberazione. Un giorno facendo i suoi soliti dialoghi co’ custodi della prigione, disse. „ Non mi piace già di essere condannato in prigione: Ò commesso de’ delitti, e me la ò meritata. Ma la quantità del soldo sotterrato ne’ Monti, e dato ad imprestito a’ miei Nazionali mi stà solamente a cuore. Se il Passà volesse potrebbe ricuperarlo. È certo, che senza di me non lo potrà riscuotere, poichè, può negar ciascuno di averlo avuto„. Le guardie con somma premura riferirono questo discorso al Passà. Esso avaro per natura (come lo sono comunemente i Turchi) comandò, che Socivizca si conducesse scortato da dieci Turchi da per tutto, ove additasse il denaro sotterrato. Passò Socivizca per molti luoghi, ove diceva di aver posto sotterra il soldo, e non si trovava mai quello, in cui sepolto fosse. Adombratisi i Turchi, ch’esso non volesse in simil modo liberarsi dalle loro mani, fissarono di andar seco lui a Sign, ed ivi ben inceppato due Guardie co’ schioppi sempre inarcati gelosamente, e giorno, e notte lo custodivano. Furono date moltissime Persone in nota, da’ cui Socivizca si faceva creditore di grosse summe di denaro. Al confronto egli avea troppo coraggio per asserire, ma alla lunga si trovava falsa ogni sua asserzione. A ciò rimediava esso col dire di aversi ingannato ne’ nomi delle Persone, e perciò, diceva che facessero chiamar dell’altre. In simil guisa andò deludendo i Turchi per un mese intiero, nè ciò faceva ad altro fine, che per trovar, se v’era caso, qualche strada di fuggire. Fu scoperta a lungo andare la sua malizia da’ Turchi. Essi fecero venire a Sign sua moglie co’ due figli, un maschio, e l’altro femmina, ch’erano nel Contado di Zara, per condurli a Travnik anch’essi. Ma qual colpa aveano gl’innocenti figli ne’ misfatti del Padre, e la misera moglie in quelli del marito? Tanto è. La Giustizia Ottomana è così. Giunge la moglie co’ figli alla presenza dell’Effendì, Capo de’ Turchi, che custodivano Socivizca. Qual oggetto di tenerezza, e compassione non è per essa veder il proprio marito carico di catene? Le si comanda, ch’ella bacj la mano al Comandante de’ Turchi: Ella ubidisce, fa lo stesso sua figlia, e Socivizca soffre. Ma quando e’ vide, che si comandava a suo figlio la stessa cerimonia „ allontanati di là, infuriato gli disse, non baciare la mano a quel cane “. I Turchi mostrando rimorso, e in atto quasi di domandare scusa a Socivizca, dicevano che ciò si commetteva per pura usanza. Era il giorno ventesimo sesto di Novembre nell’anno MDCCLVIII, quando si stabilisce di ricondur Socivizca a Travnik. Si fa egli escire di casa, ove abitava. I Turchi lo circondano. Uno di essi gli si avvicinò, per condurlo a mano. Socivizca menò alcuni colpi di catena, e lo fece allontanare. Poscia gli disse con voce burbera „ Credi tu anima di cane, che io sia Donna, che mi vuoi condurre a mano? “ Montato poi da per se solo a cavallo, non permise, che all’Effendì, ch’era il Comandante, acciò lo legasse colla corda per di sotto alla pancia del cavallo stesso. La moglie, e i figli furono posti a cavallo anch’essi. Gli abitanti di Sign, vedendoli in istato così deplorabile, fecer loro qualche mica di elemosina. Questa giovò più a Socivizca, come si vedrà in seguito, che tutte le considerabili summe di denaro, che avea depredato per lo avanti. Partì da Sign scortato da’ dieci Turchi, e per maggior sicurezza da quaranta de’ nostri Panduri. Il caritatevole Socivizca impiegò tutta la elemosina, fatagli a Sign, nel far un’abbondante trattamento di acqua vite per istrada a’ Turchi. Essi ammirano la sua cordialità, e a forza de’ brindisi alla sua salute, si ubbriaccano a meraviglia. Oltrepassati i Veneti confini sopra Bilibrigh, Socivizca finse di patir freddo, e domandò qualche cosa da coprirsi, e tosto gli fu portata una Kabanizca vale a dire un feraiuolo. Esso aveasi procurato, non so in qual modo, un coltello, con cui andava tagliando poco a poco sotto la Kabanizca la corda, che lo teneva al cavallo avvinta, e gli riuscì di tagliarla tutta, senza essere veduto da’ Turchi. Giunsero questi, riscaldati più che mai dalla Rakia, verso le ore ventiquattro alla Torre di Prologh, (poco distante da Bilibrigh) ove sta sempre un appostamento Turco. Ivi nacque la contesa, se dovessero fermarsi, o proseguire il viaggio; ma alla fine si appigliarono a questo ultimo partito. Non furono ancora lontani per due tiri di moschetto dalla Torre di Prologh, che Socivizca precipitando per così dire da cavallo, diè la catena sul capo alla Guardia più vicina, e lasciandosi in ballia delle strade lastricate di diaccio, si profondò in un batter di ciglio in un Vallone, e ’l primo albero, che trovò, sotto lui si ascose. I Turchi, che gli diero la caccia, stimavano, ch’esso seguitasse a fuggire, e si erano inoltrati molto innanzi, sperando pur di sentir lo strepito delle catene. Intanto la notte si annerì di più, e quando parve a Socivizca tornò a ripassare con tutta la quiete avanti la Torre di Prologh, e per istrade inusitate poscia s’incamminò verso i Veneti confini. Viaggiando pell’interno delle Montagne tutta quella rigidissima notte, che fioccava la neve da una parte, fischiava il furioso Borea dall’altra, s’incontrò in una truppa di Lupi, che urlavano orrendamente pel freddo anch’essi, e fuggito un pericolo cadde in un peggiore. Si accostò al primo albero per arrampicarvisi sopra, ma il peso delle catene lo strascinava all’ingiù. Quest’erano le sole sue armi, e con queste già si apparecchiava alla pugna, e alla difesa, come gli antichi Eroi, che combattevano co’ rami, e tronchi d’alberi. Ma che? I Lupi gli passarono poco da lungi, senza fargli alcun male. Ecco come si verifica quel proverbio, che un lupo non mangia mai dell’altro. I Turchi pieni di rammarico, e di vergogna, per aversi lasciato scappare dalle mani Socivizca, al novo Sole lo rintracciarono per tutte le parti più secrete del bosco, ove ragionevolmente li poteva credere, ch’egli fosse celato, ma disperato vedendo il caso di trovarlo, condussero con essi loro sua moglie, ed i due figli al Passà di Travnik. Fecero ai figli abbracciar la Fede Maomettana, ma non fu mai caso di persuader la loro Madre. Una delle figlie di Socivizca parve così vezzosa, e bella ad un Turco, che la prese per moglie, dicendo, non è giusto, che sì bel sangue si perda fra’ Morlacchi! Qualche Italiano, che condusse seco una delle nostre Morlacche si sentì far lo stesso epifonema. Chi è più barbaro il Turco, o l’Italiano? Torniamo a Socivizca. Inteso, ch’ebbero i Morlacchi il suo scampo, coniarono una canzone in lode di questo valoroso Eroe della Nazione. Io l’avrei trascritta volentieri quì nel fine, se mi fosse riuscito di poterla aver tutta intiera, non ad altro oggetto, ma solamente perchè si vedesse, come i Morlacchi nostri senz’aver mai studiato di Poesia, e senza neppur saper leggere, sanno compor de’ versi, cui, quando non sono alterati da varie bocche per cui passano, non manca una dovuta sillaba, nè oltre a ciò qualche felice lampo di fuoco d’immaginazione. Il Passà di Travnik irritato a maggior segno della burla, che gli fece Socivizca dopo tante cautele, usate in custodirlo, e molto più stimando un tal successo, come vituperio eterno al nome suo, risolvette nell’animo di volerlo riavere ad ogni costo, o vivo, o morto. Spedì subito ambascierie all’Eccellentissimo Signor Carlo Contarini in allora General della Dalmazia, dimandandogli questo Uomo, e in certo modo facendogl’intendere, ch’era suo obbligo di restituirlo. Ma il prudentissimo Generale rispose di non saper dove sa Socivizca, e che le Guardie Turche, che lo aveano in mano, dovevano custodirlo meglio, e fece inoltre loro comprendere, quanta irragionevole fosse la loro ricerca, per averselo lasciato fuggire nel proprio Stato, e finalmente, ch’egli non poteva essere garante della loro poltroneria. Allora gli Ambasciatori Turchi cominciarono a sfogarsi contro i nostri poveri Panduri, facendoli comparire presso l’Eccelentissimo Generale, come complici dello scampo di Socivizca. Per contentar in parte la calunnia degli ostinati Ottomani, si diede qualche legero castigo a questa gente, che poi si scoprì non aver colpa veruna. Ma Socivizca non abbastanza pago di essersi liberato egli solo dalle mani de’ Turchi di continuo pensava alla liberazione della moglie, e de’ poveri figli. Questa era l’unica sua cura, per mettersi poi a vivere in istato tranquillo. Fece più volte intendere al Passà di Travnik, ch’esso era risoluto di non dar ulterior impaccio a’ Turchi, purchè gli si lasciasse la moglie, ed i figli; ma il Passà se ne rideva delle sue proposte, e s’inferociva di più, anzichè divenir mite. Socivizca volle provar di persuaderlo con lettere, e tra le altre, gli fece scrivere una a un di presso del seguente tenore. „ Ò udito dire, o Passà della Bosnia, che ti lamenti della mia fuga. Io ti dimando, nel caso mio, che avresti fatto tu? Ti lascieresti legare a guisa delle bestie vili, e condurre volontariamente da Persone, che arrivate a un certo termine, secondo ogni probabilità, ti dovessero dar la morte? La Natura insegna a tutti di sfuggirla. Io che ò fatto di più, che secondar le sue leggi? Ma qual delitto ànno commesso, o Passà, mia moglie, ed i miei figli, che contr’ogni giustizia, e ragione li trattieni schiavi presso te? Credi forse di rendermi più docile con ciò? T’inganni. Mi rendi più fiero. Ma senti: tu potrai sfogar la rabbia sopra di loro, e non saratti di veruna utilità; io sfogherò l’odio contro i Turchi sudditi tuoi, e ti servirà di sommo pregiudizio. Deh! rendimi, ti prego, il sangue mio. Ottienmi perdono dal mio Sovrano, e non ti rammentare delle passate ingiurie. Io lascierò in pace i sudditi tuoi, e potendo servirò loro anche di scorta. Se mi neghi questa grazia, aspetta da me tutto ciò che può far un disperato. Unirò de’ complici, disturberò il tuo commercio; spoglierò i tuoi mercanti, e da questo punto in poi, se non mi abbadi, fo voto solennissimo di massacrar quanti Turchi mi capiteranno alla mano “. Non è decoro di un Passà badar a lettere di un assassino di strada, ma egli non rifletteva alle conseguenze. Socivizca vedendosi in certo modo deriso dal Passà, cominciò a sfogarsi sopra i suoi sudditi, per non mancar al voto. Si unì dunque per la prima volta dopo lo scampo a venticinque compagni, e andò verso Serraglio, molte giornate al di là de’ Veneti confini. Ivi assalì una Caravana di cento cavalli, e settanta uomini. Usarono tutti prudenza in veder Socivizca con tanti seguaci, e furono presti a voltar le spalle. Un Ebreo solo rimase ucciso, che non seppe fuggire dalla confusione forse di aver previsto lo spoglio di una spropositata summa di suo denaro, che portava la Caravana. Socivizca co’ suoi compagni presero dennaro, e robba di questa Caravana, quanto ciascuno poteva portar in dosso, senza che gli dasse un grave incomodo il peso. E perchè la Serenissima Repubblica di Venezia non avesse da garantire i suoi bottini, ed uccisioni fatte a’ Turchi, non v’è mai stato esempio, che Socivizca abbia fatto strage di essi loro nelle Venete Tenute. Esso, ch’era stato suddito di tutte, e due le Potenze, Ottomana, e Veneta, conosceva a puntino qual differenza passa dalla barbarie, e Tirannia della prima alla dolcezza, ed umanità della seconda, Ma esso era anche molto scaltro. Non faceva mai del male a chi sapeva, che può nuocergli. Tale pell’ordinario è la massima di tutti gli Aiduzci. Ma ciò, che non ànno gli Aiduzci, possedeva Socivizca. L’accortezza del suo ingegno, la direzione, e la sveltezza valevano più, che de’ suoi compagni la forza. Esso insultava i Turchi in casa de’ Turchi stessi, che non sanno essere valorosi, che a casa propria a guisa de’ cani de’ nostri Morlacchi, s’è lecito di farne il paragone. La strepitosa rotta, ch’e’ diede alla già mentovata Caravana, non fece star per altro oziosi i Turchi, che vollero saper di lui. Si cerca Socivizca pe’ Monti, Socivizca pe’ piani, Soçivizca per Valli, Soçivizca per entro i boschi, e Socivizca passa per mezzo delle loro Città, e mercati. Esso, ed i suoi compagni si aveano procurato de’ Turbanti alla Turca, che portavan seco, e se si ponevano in capo, quando volevano passar per Turchi. Con questa trasformazione unitamente a qualche parola Turca, che sapean balbettare, mangiarono nel centro del mercato di Serraglio, ed era ben giusto, che si cibassero quelli, che stettero ore ventiquattro, e più a digiuno. Se poi i Turchi si accorgevano di queste loro trasformazioni, il loro esterminio era quasi certo. Ma chi li à da suppor tanto temerarj di passar in truppa per mezzo i mercati de’ Turchi? Partito Socivizca da Serraglio co’ suoi compagni arrivò in alcuni giorni a Dragovich, sette miglia più sotto le sorgenti della Cettina, ricovero di un Convento de’ Calogeri, e ricapito di tutti gli assassini di strada.4 Ivi lasciò ad un Calogero, nomato Genadia la porzione del suo bottino, ch’era sempre maggiore di quella degli altri, per essere stato egli l’Arambassà, o sia Capo degli Aiduzci. Spesse fiate Socivizca si divideva da’ suoi compagni, ed alle volte per mesi interi non si sapeva di lui. Ciò faceva credere a’ Turchi, che fosse già morto. Ma Socivizca non aspettava altro, che la prospera occasione di massacrarli, e quante volte non si espose esso solo contro due tre, e persino quatro Turchi? Le meraviglie, che di lui si contavano tra’ Turchi parevano incredibili, e si era reso molesto a tal eccesso, che i Turchi stessi supplicavano il Passà di perdonar a questo Uomo, e lasciargli in libertà la famiglia. „ Vuoi tu, dicevano essi al Passà, che si spenga la Fede Maomettana?“ Il Passà però ostinato non dava ascolto alla dicerie altrui, e per la sua ostinazione intanto soffrivano i sudditi suoi di essere massacrati. Era impedito il commercio, e nessuno con libertà poteva eseguire i propri interessi. Ma le molestie di Socivizca non eransi solamente rese intollerabili agli Ottomani, bensì portavano gravissime, e dispendiose conseguenze anche allo Stato Veneto. Era egli quasi divenuto la sorgente di sanguinose turbolenze tra’ confinanti. E chi non sa, che da questi piccioli principj ànno di sovente origine le guerre? Qual importante oggetto non era dunque quello di aver Socivizca nelle mani? Ad ogni ricorso degli Ottomani, si cresceva in Dalmazia la taglia per la sua testa. Erano ben note a lui queste premure, pur nullaostante non cessava di assassinare i Turchi. Correva l’anno MDCCLXFonte/commento: Pagina:Osservazioni di Giovanni Lovrich.djvu/269 in circa, che un certo Acia Smaich, creduto un ferocissimo Eroe fra’ Turchi, si andava vantando, che Sojivizca non era capace di accettare la sua disfida faccia a faccia. Socivizca non soffriva tanto orgoglio in un Turco. Era un giorno con sei de’ compagni a Ticevo, luogo poco distante da Glamoc nello stato Ottomano, quando incontrò una Caravana di dieci Persone, in cui peravventura vi lo Smaich con un suo fratello. Socivizca non cangiava in un Regno un incontro così felice. L’Acia Smaich tosto che vide Socivizca, gli sparò contro un’archibugiata, che lo colpì in mezzo il fronte. Ma o che la sorte erasi dichiarata per Socivizca, o che il destino avea così stabilito, o che il suo cranio era molto duro, la palla di piombo, in vece di sminuzzarlo, ed internarsi, non fece altro che radergli per così dire la cute, e lasciargli un picciolo segno. „ Fu mia fortuna, narravami Socivizca, di aver in quell’istante alzato il capo portandolo all’indietro per osservar i nemici.“ Infuriato allora prese così ben di mira il suo nemico Smaich, che li fece entrare una palla di piombo nella canna del suo schioppo, (prodigj che si raccontano quasi sempre nelle zuffe de’ Cristiani co’ Turchi) ed una nel capo, che morto lo fè cader per terra. Ucciso un Turco sì valoroso, si raccomandarono ai piedi loro gli altri Turchi, cinque de’ quali non potero sfuggir la morte per la caccia, che lor diero Socivizca, ed i compagni. Ottenuta la vittoria, e spogliata la Caravana del meglio, che avea, si travestì Soçivizca con i compagni, facendo che ognuno se ne gisse separato. Così operava egli per sottrarsi alla moltitudine de’ Turchi, che di lui andavano in traccia, e mentr’essi cercavano una partita di Aiduzci, non passava loro per la mente di badar ad un solo individuo. I Morlacchi nostri, avute le nove del pericolo di Soçivizca, e della sua valorosa difesa, non mancarono anche questa volta esercitar i loro talenti poetici nel comporgliFonte/commento: Pagina:Osservazioni di Giovanni Lovrich.djvu/269 una Eroica canzone. Dopo questo fatto Soçivizca se ne stette quieto per due mesi in circa: unitosi poscia a’ quattordici compagni andò sopra Mostar, e stando con essi all’ombra di un albero, osservò camminar da lungi due Turchi per istrada. Erano di parere i suoi compagni di andar in quattro ad assalirli. Questa opinione sembrò vile a Socivizca, e si oppose dicendo „ basto io solo.„ S’inviò verso i due Turchi sempre col guardo fisso in terra. Essi gli chiesero la ragione, perchè con tanta diligenza guardava in terra? Dolendosi esso rispose. „ In questo punto quel ladrone di Soçivizca mi à tolto a viva forza con un suo compagno due de’ miei cavalli, e vado osservando, se posso rinvenirne le traccie “. I Turchi mossi a compassione di questo finto infelice, e per l’odio, che nutrivano contro Soçivizca, cominciarono anch’essi a rintracciar i cavalli, e mentre guardavano in terra, Soçivizca con uno sparo di pistola ne ammazzò uno, e con la sciabla l’altro con tanta celerità, che neppur gli permise di metter mano alle armi, per porsi alla difesa. Pochi giorni dopo a questo fattarello si unì a venticinque compagni, e andò all’assalto di una grossissima Caravana, che partiva da Ragusi per la Turchia portando molti Visclini,5 e felicemente gli riuscì senza troppa fatica di spogliarla, massacrar diecisette Turchi, e condur seco tre de’ vivi. Giunto Soçivizca al primo bosco, due di questi vivi com’erano ne impalò, ed al terzo lasciò l’incombenza di girare gli spiedi, e di arrostirli. Quando furono bene arrosti, tagliò le loro teste, e le consegnò al Turco, che le arrostì, imponendogli di portarle a Travnik al Passà, facendogli noto, che se non gli lascierà i figli, e la moglie, farà lo stesso con quanti Turchi gli si presenteranno, ed „ oh quanto, soggiunse, si accrescerebbe la mia gioia, se mi riescisse di far la stessa funzione al Passà medesimo! “ I suoi compagni credevano ben fatto, che si ammazzasse anche il terzo Turco, ma no, disse Soçivizca: è sempre meglio, che resti qualcuno, che sappia riferire a’ Turchi, quanto siamo noi capaci di fare. “ Così, allora quando i Cartaginesi voleano massacrare tutti i Romani nella famosa battaglia di Canne, pensava l’accorto Anibale esser meglio lasciarne parecchi, perchè alla Patria portassero l’annuncio della disfatta del loro Esercito, e del valore de’ Cartaginesi. Dopo due ore all’incirca d’intervallo, che fu sparsa la nuova fra’ Turchi del fatto barbaro, ed inumano di Soçivizca, si unirono genti da tutti i contorni, e a piedi, ed a cavallo gli uni pe’ monti, e gli altri pe’ piani si misero ad inseguirlo. Socivizca, che non mai ciò s’immaginava, fu trovato in un bosco con tutti i compagni, che si diedero uniti ad esso ad una velocissima fuga. Non si stancarono i Turchi però di dar loro la caccia, ed oltre cinque feriti, ne restò uno morto degli Aiduzci, cui semivivo ancora il proprio fratello tagliò la testa, perchè non avessero i Turchi la compiacenza di conficarla sopra un palo in segno d’infamia. Si salvarono gli Aiduzci a Metcovich nel Primorie, insino a dove furono sempre inseguiti da’ Turchi. Essi deggiono molto alle loro gambe, per aver loro questa volta procurato lo scampo. Socivizca si divise dai compagni. Il solo pensiere de’ Turchi era di trovarlo, ed ucciderlo. In Dalmazia era ancora meno sicuro, che in Turchia. Esso passava de’ mesi intieri ne’ più orridi ripostigli delle Caverne in una perpetua solitudine. Spesso languiva dalla fame pel timore di non essere veduto entrare, od uscire delle caverne stesse, per procacciarsi il vitto. Diresti tu, che questo è un’Eremita, anzichè un’assassino di strada. Di quando in quando però non potea a meno di non andar a trucidar qualche pajo de’ Turchi. In questo frattempo il Passà di Travnik, per aver tiranneggiati troppo i sudditi suoi, e per aversi ideato di saccheggiar il Mostar, fu chiamato a Costantinopoli, ove si crede, che gli sia stato reciso il capo. Avea questo Passà, detto Kukavizca, una bella moglie, che in tal’incontro era gravida. Esso la cedette ad un’altro Turco col patto, che quella creaturina, di cui era incinta, si dovesse proclamar col cognome del Passà suo Padre. Pareva a Socivizca, che colla mutazione del Passà, esso dovesse ricuperar la sua famiglia, ma non vi fu mai caso. Dopo le molte infruttuose esperienze, nell’anno MODCCLXII si rivolse al seguente gioco di testa. È permesso di vagar liberamente per le Città Ottomane ai soli Calaicie, (che somigliano a que’ che volgarmente dicon Missinesi) cui è lecito di vender seta, ed altre bagattelluccie di questa sorte. Ciò era ben noto a Soçivizca. Esso dunque vestì uno de’ suoi compagni da venditor di seta, e provvedendolo sufficientemente di mercanzia di questo genere, lo inviò a Travnik. Frattanto più lentamente Soçivizca erasi incamminato con altri quattro compagni per altra strada, per aspettar l’esito in distanza di tre, o quattro miglia da Travnik. Non so per qual accidente i compagni lo abbandonarono, ed ei s’incontrò co’ tre Turchi, che cominciarono a sospettare, e rimbrottargli, ch’egli è un Aiduco. Socivizca, quando si vide in questo imbroglio, e che trovava poco sicuro lo scampo, cominciò scusarsi, e dir che in prova di non essere Aiduco, esso andava verso la Città di Prusazc, ch’era poco distante. I sospettosi Turchi dissero „ eh bene! andiamo in compagnia “. Socivizca s’incamminò con essi loro. Arrivati i Turchi ad un’acqua smontarono da’ loro cavalli per dissettarli. Socivizca allora, contro ogni loro aspettazione, sfoderando la Scimitara tagliò la testa ad uno di essi, e rinovando il colpo, fece lo stesso ad un altro, ch’erasi rivolto per veder cosa è successo. Il terzo era divenuto immobile a foggia di que’ uccelli, che vedendo lo Sparviere non si muovono più di luogo. Socivizca, presolo per mano, lo condusse in un bosco, ed esaminatolo degli andamenti de’ Turchi, lo ammazzò. E non contento di averlo ammazzato lo tagliò in pezzi, e come un cane arrabbiato dava de’ morsi nella carne del morto, non credendo mai di sfogar abbastanza la vendetta, e l’odio, che avea co’ Turchi. Frattanto lo sopraggiunsero i suoi quattro compagni, e quello ch’era andato a Travnik a lungo gire per la Città colla sua mercanzia, s’incontrò nella moglie di Socivizca, e fecegli palese il voler del suo Marito, e com’esso dovea condurla fuori di notte unitamente a suoi figli. La moglie di Socivizca piena di giubilo per una nuova, così inaspettata, andò ad avvertire sua figlia, consigliandola di venir seco; ma la figlia, che avea gustati i piaceri del matrimonio Maomettano, rinunciò di andarsene. Sua madre allora condusse seco solamente il figlio, e col compagno di Socivizca escì in tempo di notte fuori della Città di Travnik. Socivizca, che in poca lontananza stava co’ quattro compagni ad aspettarla, restò sorpreso dalla consolazione di veder la moglie; ed il figlio, quai condusse a Dragovich suo solito rifugio, ove lasciò il figlio sotto la tutela di un Calogero, che gl’insegnò in seguito leggere, e scrivere. Il giorno seguente non attrovandosi più a Travnik la moglie di Socivizca, i Turchi credettero, ch’esso fosse l’autore di un sì famoso ratto, ch’era probabilmente qualche cosa di più pericoloso di quello di Orfeo, che se n’era gito all’Inferno per prender sua moglie Euridice. I Turchi veramente non sono Diavoli, che incantano; ma avrebbono certamente saputo ammazzare l’autore, se l’avessero colto sul momento, che conduceva via la moglie di Socivizca. Indispettiti più per questo fatto, che per tutte le sue insolenze, per lo avanti usate a loro, ricorsero all’Eccellentissimo General della Dalmazia, instando ne’ modi più urgenti, acciò lo facesse prendere, e ammazzare. Ma come si può prendere, od ammazzare un uomo in un luogo, dove nol v’è? I Turchi lo volevano in Dalmazia, e sempre si udivano succedere le sue ruberie in Turchia. Era il nome di Socivizca divenuto così terribile presso i Turchi, che come i fanciulli di tutto tremano nelle tenebre, o come i superstiziosi, che credono di vedere fantasmi, o spetri, che si fingono colla loro immaginazione, così i Turchi credevano di aver sempre Soçivizca avanti gli occhi. Ma la forza degli Ottomani non potè venir a capo di aver nelle mani uno, che gl’insultava entro i proprj confini? La scaltrezza con cui si diportava Socivizca faceva riuscir sempre vani tutti i loro tentativi. Un giorno era capace di ammazzar un Turco in un luogo, ed un’altro esserne per cinquanta miglia discosto. Viaggiava di notte, e riposava di giorno, e nel giro di dieci giorni scorreva alle volte più centinaja di miglia. Quà faceva uno spoglio, e là un’assassinio, e mentre si andavano divulgando le sue prodezze per ogni parte, si sospettava talotta, che elleno fossero di pure chimere. In tal guisa non si sapeva mai dove cercar questo Proteo, che cangiava ad ogn’istante situazione. Faceano la ronda le Guardie Turche pe’ Monti sì di notte, che di giorno per cogliere, se fosse possibile, questo nocivo animale, ma sempre in darno. Eravi un Turco nomato Curbek, che per isprezzo dava il nome di stanislava a Socivizca. Puoffarbacco!Fonte/commento: Pagina:Osservazioni di Giovanni Lovrich.djvu/269 Simil oltraggio Socivizca non poteva soffrire, e fremeva dallo sdegno, per non potersi vendicare. Ma incontratisi una volta a caso Socivizca con sei soli compagni, e Curbek con venti, si azzuffarono fieramente, e quattro de’ compagni di Curbek rimasero morti, esso ferito, e gli altri se ne fuggirono. Dalla parte di Socivizca due compagni furono solamente feriti. Qual infamia non era questa per lo nome Maomettano, che un’Aiduco con alquanti compagni li malttratasse in simil guisa? Qual onore, e qual premio non si acquistava chi avesse ammazzato Soçivizca? Si trovò uno fra’ Turchi, chiamato Vilembegh, che inviò una lettera a Soçivizca, conceputa in questi termini. „ Tu che ti vanti di essere il distruttorFonte/commento: Pagina:Osservazioni di Giovanni Lovrich.djvu/269 de’ Turchi, vieni, se non se’ femmina alla disfida meco. Io t’invito, come più ti piace o solo a solo, od unito a forze uguali alle mie. “ Socivizca, che si vedeva invitato in modo così orgoglioso da un Turco, radunò dodici valorosi compagni, nè desiava altro che il momento d’incontrarsi con Vilembegh, ed in vece di aspettarlo al luogo stabilito, lo attese in un altro. Vedendo il Turco, che Socivizca non era al luogo patuito, andavasi pavoneggiando, e diceva che si era nascosto al suo valore. In questo frattempo si presentò Socivizca co’ suoi dodici compagni contro Vilembegh, che ne avea quaranta; ma il numero delle Persone non isgomentò punto Socivizca nè gl’ispirava la viltà di tornarsene addietro. Si appostò co’ suoi in una infelice situazione, sendo circondato da ogni parte da’ Turchi, ricorse però anche in questa occasione ad un bellissimo stratagemma, ed è che tutti gli Aiduzci si ascosero dietro gli alberi, e le loro berette in qualche lontananza misero sparse quà, e là all’intorno. I Turchi dirigevano le loro archibugiate alle berette6, e nulla ostante, che molte vedevano sparite si vedevano venire le schiopettate dalla parte degli Aiduzci, che ammazzorono otto di loro. I Turchi allora prendendo in certo modo per Istregoni gli Aiduzci, secondo il solito voltarono le spalle, e Vilembegh quel campione, che tanto si decantava restò ferito in un braccio, e se non fuggiva ne’ Veneti confini nel Territorio di Knin, Socivizca lo ammazzava, come un vil poltrone. Il suo coraggio dimostrato in questa occasione unitamente a’ molti fatti precedenti gli conciliarono la stima, l’ammirazione, e l’amicizia di alcuni Turchi, che più volte gli spedirono de’ presenti. Una fanciulla Turca, che udiva risuonare per le bocche il nome di Socivizca, credendo forse ch’egli dovesse essere valoroso in amore, come lo era nelle armi, volle farselo Probatime, e gli donò in segno di amicizia una Marama specie di asciuttamano ricamato di oro alle due estremità del prezzo di dodici Zecchini all’incirca. Socivizca avea per Probatime anche un Turco. Ordinò a questo dodici Kabanizce, e buon vestito di panno per dodici Persone. Si stabilisce il giorno, ed il luogo in cui Socivizca doveva andar a prendere questa robba. Il suo Probatime Turco palesò l’accordo ad un altro Turco ancora. Costui lo riprese fortemente dicendoli „ Tu Maomettano vuoi dar la contribuzione ad un Aiduco Cristiano? Vigliacco che sei! Ricordati di finger di eseguir il tutto, ed uniti ad un numeroso stuolo di Persone andremo ad assalir gli Aiduzci, e se farai altrimenti, io ti accuserò al Passà. “ Infelice amico di Socivizca! O doveva divenir traditore, od aspettarsi una morte sicura. Si determina al tradimento. Al giorno stabilito Socivizca in poca distanza da Glamoz, giunse nel luogo assegnateli dal suo Pobratime. E com’esso non se ne fidava intieramente, andava osservando, se gli venisse tesa qualche insidia, e tutto all’improvviso vide alla lontana una molitudine de’ Turchi. I compagni di Socivizca volevano fuggire, ma esso li disuase.„ Se disse Socivizca, noi si diamo alla fuga, l’incontro de’ Turchi è certo, e la fuga è dubbiosa. Procuriamo d’ingannarli in qualche modo. Appostiamosi in un sito diverso da quello, che abbiamo stabilito coll’amico Turco. All’improvviso si affacciaremo contro loro, scaricando i nostri archibugi. Essi vedendo in noi tanta franchezza, s’intimoriranno, nè si persuaderanno mai, che in sì picciol numero, come siamo noi, potessimo esser i primi ad assaltare. Questo inganno gli porrà in fuga, e questo è l’unico mezzo di salvare le nostre vite “. Così fu fatto. Tesero l’imboscata alla numerosa flotta de’ Turchi, che venivano ad assaltarli, e quando mai eglino non si pensavano, Socivizca ed i suoi scaricarono contro ad essi i loro archibugi, e ne ammazzarono otto in una volta. I Turchi vedendo questa cosa inaspettata, si misero a fuggire, ma pochi de’ più coraggiosi tra essi rimasero per azzuffarsi cogli Aiduzci, i quali per parte loro appigliaronsi pure alla fuga. Eravi un Turco a Cavallo con la scimitarra in mano, cui riuscì di sopraggiugnere Socivizca, che s’era rifugiato dietro un’albero, girandoli sempre attorno, inseguito dal Turco stesso, e per la stanchezza sul punto già di divenir vittima del nemico, se suo fratello con una schioppettata non lo ammazzava. Superato sì grave rischio, Socivizca passò co’ suoi compagni nelle Venete Tenute, e quantunqu’egli fosse Greco di Religione, fece proponimento di non far mai più amicizia co’ Greci, nè co’ Turchi, recandosegli a memoria il fine funesto di un suo fratello, per essere stato tradito da un Morlacco Greco, ed il pericolo, in cui poco anzi era esso incorso per lo tradimento di un suo Probatime Turco. Esso visse dopo ciò per alquanto tempo in somma quiete, ma penetrato avendo, che una grossa Caravana dovea passar da Sign in Turchia, si unì a dieciotto compagni, e andò ad incontrarla sopra Bilibrigh. Era la Caravana scortata da cento, e più Turchi, onde Socivizca non le diede alcun impaccio, ma incontrati in altra parte due Turchi, vivi li tagliò a pezzi. Era un anno all’incirca dopo la fatal epoca del MDCCLXIV, che dominava la peste nel Territorio di Sign, quando molti compagni di Socivizca i più forti, ed i più valorosi parte nello Stato Veneto, e parte nell’Ottomano furono presi, ed uccisi. Una tal mancanza persuase Socivizca di ritirarsi negli Stati Austriaci verso il Fiume Zermagna. Ivi stette un anno poco più, poco meno, senza che mai i Turchi avessero di lui contezza, e già universalmente era supposto in parti molto lontane. Si trovava egli nulladimeno in tutti gli assalti delle Caravane in questo frattempo occorsi, ma il suo nome più non correva, ed era Capo divenuto Zuanne Bussich, detto Rosso, che vive al giorno presente, e molto molesto fino a già parecchi mesi a’ Turchi si è reso, ed a’ Morlacchi del rito Greco ugualmente, per la solita discrepanza, che passa fra’ Morlacchi del rito Latino, e quelli del Greco7. Il soldo, che aveva ingiustamente Socivizca, e con violenza depredato a’ Turchi, lo avea dato a diversi del Contado di Zara, perchè lo impiegassero in mercatura, e con ciò viveva senza grande affanno. Credeva, che di lui più non si cercasse, e perciò si facea lecito passar spesso dalla Zermagna a Ostrovizca, e nel resto del Contado di Zara, ove si poteva adattar benissimo co’ caratteri, e Religione di buona parte di quella gente, che sendo arrivata colà da Monte-nero, conservan molti di essa, oltre il proprio cognome quello di chiamarsi Montenegrini, come in alcune altre parti della Morlacchia. Penetrata ch’ebbe l’attentissimo vivente Collonello del Territorio di Knin Stefano Nakich la dimora di Socivizca nel Contado di Zara, in esecuzione delle Sovrane deliberazioni, mandò un’Arambassà, chiamato Seravizca con trenta Panduri a dargli la caccia. L’Arambassà de’ Panduri lo rintracciò in vano per tutto il Contado di Zara, quando finalmente fu avvertito, che Socivizca si attrovava a Ostrovizca, ove non mancò di portarsi in fretta, e lo trovò giocar a palle con un suo compagno, sendo briachi tutti e due. Il compagno di Socivizca restò ucciso, ed esso si mise a fuggire verso la Torre del diroccato Castello fatto su di un sasso di una elevata collina, ove si rinserrò. Uno de’ Panduri lo ferì in una coscia, ed e’ sarebbesi ben volentieri arreso, se una quantità de’ villici ubbriachi, che ritornavano da’ lavori de’ fieni di Campagna, colle forche di legno non si fossero opposti a’ Panduri, ed in tal modo procurarono lo scampo, e la vita al Socivizca. Esso frattanto così ferito, com’era quando si accorse, che i Panduri più non lo circondavano, montò subito a cavallo, e viaggiando sempre di notte, stette prima per qualche giorno da un pio Parocco per curarsi, poscia si ritirò in una Caverna sopra le sorgenti della Cettina, ch’è quella stessa, che io descrissi debolmente, nel principio delle mie Osservazioni. Ivi seguitò a curarsi per un mese in circa. Sembrava egli il Leone ammalato nella Tana per le continue visite, che aveva, colla differenza, che il Leone veniva visitato da tutte le Fiere, e Socivizca solamente da’ Lupi, voglio dire assassini suoi pari. Ma ricuperata la primiera salute, tornò ad unire una dozina de’ complici più per vendicarsi del torto fattogli dell’Arambassà de’ Panduri a Ostrovizca, che per insolentare i Turchi. Era una volta co’ diversi suoi compagni nello Stato Ottomano, quando gli si presentò un Turco, che avea procurato lo scampo ad un suo fratello, che si trovava presente. Socivizca, ed i compagni lo volevano morto; suo fratello non potendosi dimenticar il benefizio ricevuto lo volea vivo, e mentre che Socivizca faceva orazione (sendo sempre solito a farla avanti il cibo) suo fratello lo lasciò fuggire. Adiraronsi contro lui i compagni per lo scampo procurato al Turco, e specialmente un suo Nipote, che gli lasciò andare una guanciata, cui risposs’egli con uno sparo di pistola, che lo ammazzò. Socivizca allora scacciò da se il fratello, e diede sepoltura al Nipote, di cui la mancanza, e’l disgusto del fratello lo indussero di nuovo a portarsi verlo Zermagna per goder la sua pace. Ma non è tanto facile il cangiarsi di Natura: Di sovente contro la propria volontà si ritorna ai costumi depravati. Così fu di Socivizca. Stava quieto per qualche tempo, e all’improvviso si metteva alla strada. I Turchi se lo aveano dimenticato, e per quanto venissero insultati, non s’immaginavano mai, che Socivizca degl’insulti fosse l’autore. Verso il fine di Giugno l’anno MDCCLXIX Socivizca si era unito a otto compagni coll’idea forse di andar all’assalto di qualche Caravana. Avea mandato uno a provveder della polvere, poichè n’erano privi, sì esso, che molti de’ suoi compagni. Frattanto aspettando il messo che ritornasse colla polvere, si era posto Socivizca co’ compagni a dormire sotto diversi alberi a piedi del mante Prologh in un bosco entro i Veneti confini. Un pastore arrostiva in poca distanza un Castrato. Taluno non si sa, se per utilità, o per odio, che avea contro Socivizca corse ad avvertir quaranta Turchi, che in parecchie miglia di distanza riscuotevano l’erbatico da’ sudditi Ottomani. I Turchi niente rispettando il Jus delle Genti penetraroro in fretta entro i Veneti confini, ed assalirono Socivizca, ed i suoi compagni, che si erano rifugiati all’ombra degli alberi. Non vi si chiedeva gran difficoltà, perchè quaranta Persone ben armate, (come lo erano i Turchi) massacrassero otto Persone, che neppur aveano polvere da potersi difendere. I compagni di Socivizca cominciarono a fuggire chi per una parte, e chi per l’altra, pur nulla ostante tre di essi furono uccisi. Ma mirabile comparisce il valore di un certo Stojan Xexegl, che trincieratosi dietro un albero ammazzò un Turco, e ne ferì quattro, e avrebbe dato forse prove maggiori assai del suo valore, se la polvere non gli fosse mancata, e perciò restò trucidato da’ Turchi. Il pastore, che arrostiva il castrato per gli Aiduzci, fu massacrato anch’esso. Ma che sarà di Socivizca disarmato attorniato da quaranta Turchi armati? Osservò egli da qual parte venivano le schioppettate, e sen volò vero il fumo, sperando, che confuso in esso dileguar si potesse agli occhi de’ Turchi, e così si salvò. Pareva a’ Turchi ancora incredibile, che Socivizca fosse fuggito fra mezzo di essi, e cercavano, se fosse celato fra l’erba. Questo ultimo scampo di Socivizca, che si può annoverare fra’ suoi più destri, dimostra sempre più la sua svegliatezza d’ingegno, che avrebbesi molto perfezionato colla coltura. In questo frattempo si dubitava comunemente, che i Turchi col pretesto di andar a Montenero contro Steffano piccolo, che colà uno così erasi proclamato, non venissero a tradimento occupar le contrade della Cettina, come fecero in altri tempi, laonde per riguardi Politici del Principato erano poste le Guardie ai confini, composte dai Territoriali di Sign co’ loro Capi. Ciò consolava Socivizca oltre modo, per poter vendicar la morte de’ suoi valorosi compagni, che gli erano molto cari. Non potè eseguir però il suo intento, perchè i Turchi, come ognun sa, marciarono direttamente contro i Montenegrini. Socivizca per la vita alpestre, cui menava, ridottolo alla stato di cominciata vecchiezza, tornò a ritirarsi nel luogo solito delle Tenute Austriache. Cominciò a pensar di procurasi colà qualche sorte d’impiego per poter vivere, e per lo denaro, che possiedeva, fu lusingato di ottennerlo. Ei vedeva passar mesi, ed anni, senza poter giugnere al bramato fine. Scappava di quando in quando a far delle sue solite bravure contro i Turchi in compagnia degli Aiduzci, che si aveano scielto per capo un certo Filippo Peovich, già pochi anni appiccato a Zara per i suoi latrocinj. Soçivizca aveva depositato in mano di un Calogero suo Confessore Zecchini cinquecento con altre bagattelle da tenersi in sicuro, frutto delle ladre sue fatiche. Il buon Calogero accortosi, che fra poco tempo Socivizca dovea sortire una carica, se ne fuggì, quattro anni sono, in parti rimotissime. Socivizca lo inseguì fino al Danubio, e non trovandolo, se ne tornò addietro. Un suo cugino da Imoschi lo andò a trovare la State passata, ed essendosi Soçivizca scostato da casa, gli rubò tutti i suoi vestiti, e la famosa Marama, che gli avea donata la sua Posestrima Turca con alquanti soldi, che componevano unitamente a tutto il furto la summa di ottanta Zecchini. Ebbe a lagnarsi meco Socivizca, allorchè lo scorso Luglio seco lui parlai, di questi due latrocinj, così crudeli, dicendo „ciò che io acquistai con violenza, esponendo la vita ad un continuo rischio, due ladri a buona fede, e senz’alcun pericolo è dunque giusto, che mi portin via? Se mi avessero assalito in strada, non mi spiacerebbe. Così mi avrebbero resa la resa la pariglia. Ma questo rubare a buona fede, e senza rischio è il più iniquo rubare del Mondo, poichè non si sa da chi guardarsi. “ È cosa degna da essere osservata, che Socivizca dopo tanti strepitosi spogli, e macelli delle Caravane Turche, non fosse Padrone, quando si mise al quieto vìvere, più di secento Zecchini in circa, i quali, come ora vedemmo, dal Calogero suo Confessore, e parte dal suo cugino furongli depredati. Ma questo è, che quelli, nelle cui mani restano depositati, se ne prevalgono, e a ben considerare gli assassini, che arrischiano la vita, ànno sempre la minor parte de’ loro bottini, anzi al fine de’ conti restano miserabili. Questa miseria, che scoprivasi negli antichi Uscocchi, che depredavano incessantemente, e per mare, e per terra, spogliando ora questo, ed ora quello di considerabili summe di denaro, fece credere all’acuto Politico Fra Paolo Sarpi che vi fosse chi tenesse loro mano.8 L’indole degli Uscochi è passata negli Aiduzci de’ nostri giorni, colla differenza, che questi ultimi sono in minor copia, e per quel che si fa, non arrivano mai al numero di trenta, nè tolgono a viva forza, se non in fra’ Monti, e massacrano più volentieri i Turchi, che i Cristiani, e al contrario gli Uscocchi specialmente ne’ tempi ultimi delle loro Piraterie, non rispettavano nè Religione, nè Nazione. Soçivizca l’avea solamente co’ Turchi, e mi raccontava, che per quanto si può ricordare, esso solo ne massacrò cencinquanta, oltre quelli, che trucidò unitamente a’ suoi compagni. Mille uomini di questa sorte vagliono per dieci mila Turchi. Esso meritava di essere chiamato più feroce di un lupo, ma vi furono degli Aiduzci più feroci ancora, e più forti, senza per altro, che arrivassero ad assassinar tanti Turchi, quanti Soçivizca, e senz’aver la sua scaltra direzione. Tuttochè però esso abbia recato de’ danni considerabili per le sue turbolenze allo Stato Veneto, ne risentono al presente sommo benefizio i nostri Morlacchi, che sono trattati con più umanità, e dolcezza da’ Turchi, che per lo avanti eransi resi intollerabili per le loro Tirranie. Così da un aggregato de’ disordini nasce talora anche l’ordine. Sarebbe nulla ostante ciò da desiderarsi, che questa razza di gente, voglio dir gli Aiduzci si estirpassero una volta, il che mi sembra molto difficile per la ragione, che se anch’essi sono le sorgenti di molti discapiti in generale; in particolare sono le fonti perenni delle ricchezze di alcuni. Ma pria di estirparli converrebbe, che finissero i delitti, che si cangiasse l’avarizia de’ Ministri, e che cessasse la pazza credenza di acquistar quasi una Indulgenza plenaria massacrando i Turchi, come se fossero bestie nauseanti, e non uomini, come noi. I Parocchi della Morlacchia, se non ànno colpa nell’insinuare alla Nazione questi pregiudizj l’ànno certamente nel non isradicarli. Sed quis custodiet ipsos custodes? Si credeva ne’ tempi innocenti, che gli Aiduzci fossero quelli, che tengono lontane dal Principato le armi Ottomane, e v’era la cecità di non veder, che più tosto le addossano. Era ben noto ciò a molti sapientissimi Generali della Dalmazia, che facevano sforzi possibili per aver Soçivizca nelle mani, e levar il motivo di lamentarsi a’ Turchi. Torno a dire, per estirpare gli Aiduzci, od almeno per diminuire il loro numero, bisogna riandare alle sorgenti, vale a dire, a quelli, che li costringono di mettersi a questa vita. A capite bona valetudo dice benissimo il saggio Seneca. E per tornare a Socivizca, esso si attrova presentemente provveduto di sufficienti beni, poichè la Clemenza del Sovrano, sotto cui vive gli assegnò uno stipendio di venti otto Zecchini all’anno, ed alquanti campi di terreno da coltivare, avendolo anche decorato del posto di Arambassà de’ Panduri, ed è molto amato da’ suoi Capi. Così quello, che visse trenta anni incirca suddito Ottomano, e che per venti sette all’intorno fu Arambassà degli Aiduzci nello stato Veneto, già tre anni incirca fu fatto Arambassà de’ Panduri nell’Austriaco. Lo scorso Maggio, che S.A.R. Giuseppe II. vivente Imperatore è stato al triplice confine, e che passò per Grazatc, ove dimora Socivizca dopo aversi fatta raccontar la sua vita, gli donò qualche Zecchino. Ma Socivizca è stato sempre mai poco amante del soldo. Era in tempo di notte una volta esso co’ venticinque compagni internato ne’ monti, ove si era rifugiato per mangiare, quando traviati dalla vera strada due Morlacchi s’incontrarono con lui casualmente, portando seco una grossa summa di denaro di un Mercante. Socivizca cominciò a sospettare, che questi fossero due spie ed interrogatili, perchè erano colà venuti? Restarono attoniti, senza sapersi che dire. Esaminò Socivizca cosa aveano indosso, e trovò de’ soldi, quali avendo conosciuto essere di uno, che gli avea fatto, qualche picciolo bene, lasciò andar i Morlacchi, dopo aver anche dato loro da mangiare, e li fece scortare da’ due de’ suoi compagni, rimproverandoli acerbamente di esser più cauti in avvenire nel portar l’altrui denaro, perchè non sempre troveranno Socivizca. Questo tratto prova quanto esso era grato al suo benefattore, e che non per avidità di denaro esso faceva l’assassino, ma per bravura.
Socivizca ora arriva alla Età di anni sessanta uno, ed è robusto anzi che no, e promette di vivere altri trenta. Esso stà tranquillamente nella Villa di Gracazc nello Stato Austriaco, quaranta miglia all’in circa distante da Knin. Il suo taglio di viso è lungo, la statura mediocre, gli occhi azzurri, e la portatura feroce. Uniformi alla sua vita erano anticamente i costumi de’ Morlacchi, e Ovidio de Ponto ne dà qualche idea. „ O gli uomini osservo, dice Ovidio: appena sono degni di aver questo nome, ed ànno più ferocia de’ Lupi. Non temono leggi: ma la giustizia cede alla forza, e le leggi cadono vinte sotto la spada. Tutti col sangue cercano la preda, e senza questa il vivere, stimano una cosa vergognosa. Senza che tu li tema a prima vista ti possono divenir odiosi. Fiera la voce: truce l’aspetto: verissima immagine della morte.„ Tali sono i Montegrini di oggi giorno. Quindi è, se taluno dicesse, che gli Aiduzci in qualche tempo ànno formata una Nazione, non ragionerebbe male. Le azioni eroiche, che cantano i Morlacchi degli antichi Campioni della Nazione, io suppongo poco dissimili da queste di Socivizca. S’egli fosse nato ne’ tempi rimoti, forse di lui ora si canterebbe ciò, che si sente a cantare di Marco Kraglievich, e di molti altri; e se a giorni nostri si distinse Socivizca co’ fatti mirabili sopra tutti gli assassini di strada, in altri tempi si avrebbe forse acquistato uno Scettro.
FINE.
Note
- ↑ Stanislavo, e corrottamente Stanislao è un nome, che cominciò adoprar la nostra Nazione, quando si mise a combatter per la gloria, per cui fu proclamata anche Slava, cioè gloriosa. Stanislavo significa uno che si ferma per la gloria; così Radoslavo uno, che opera per la gloria; Vladislavo uno che regge per la gloria, ec. Questi nomi soli bastano per provare, che la Nazione nostra si attribuì anticamente il nome di Slava. E se si trova, ch’ella si chiamava anche Slova, e Slovinska non è che questi termini vogliano significar diversamente, che Slava, e Salvinska per la ragione, che l’a da certe popolazioni Slave si convertiva in o. Gl’Isolani di Brazza conservano oggi giorno la consuetudine di mutar l’a in o, e perciò quando vogliono dire Brat dicono Brot. Così gl’Inglesi, che ànno molte parole analoghe alle nostre Illiriche, e molte le stesse, per dir Brat dicono Brother, per dir Mater, ch’è termine Illirico corrotto da Matti, dicono Mother ec. Queste ed altre simili riflessioni mi faceva il coltissimo figlio di Milord Harvei, con cui ebbi l’onore a Padova di ragionar più volte su questo punto. Premesse queste cognizioni, se taluno si udrà dire, che la Nazione nostra non si chiamò da principio Slava, ma Slova, ed uno della Nazione non Slavo, ma Slovo, o Slovak, e da ciò dedurrà, che Slovak è termine corrotto da Clovek, ora Covik uomo, a questo si potrà suggerire, che prima di azzardar una etimologia, specialmente di una lingua forestiera, bisogna saper bene i diversi modi delle pronuncie della lingua stessa, altrimenti urterà ne’ scogli delle corbellerie, e s’illumini finalmente, che Slova, e Slava, e tutti i derivati, o composti da questi due nomi sono Sinomini.
Oltre Stanislavo, Radoslavo, Valdislavo ec. vi sono d’altri nomi Illirici antichi, che ànno significati particolari, e che tutti non li sanno. Questi sono Radimiro, Zuonimiro, Cascimiro, Budimiro ec. corrotti da Radimir, Zuonimir, Cascimir, Budimir ec. e che significano: Facitor della pace, annunciator della pace, Narrator della pace, Imponitor della pace ec. I Re, ed i Bani da principio erano probabilmente i soli decorati di questi nomi. - ↑ Aiduco si prende per assassino di strada.
- ↑ Vuk significa lupo.
- ↑ Tuttochè i Calogeri non abbiano rimorso di dar rifugio agli assassini, nullaostante osservano inviolabilmente il digiuno, e non mangiano altro mai, che latticinj, e pesce. I Morlacchi che per mal fondata opinione credono quasi delitto mangiar delle uova di Venerdì, e Sabbato, se ne ridono de’ Calogeri, perchè non mangian polli, mangiando uova, mentre dicono essi, questo è un mangiar i polli in erba, e non mangiarli maturi. I Calogeri di Dragovich specialmente per le buone Trote, che si pescano nella Cettina, mangian quasi sempre pesce, e ciò danno ad intendere di far ad oggetto di mortificarsi col cibo, e per viver più sobrj, e più casti. Ma s’è vero, come vogliono alcuni Fisici, che il pesce sia più tosto atto alla generazione, si può dir col celeberrimo Montesquieu, che i Calogeri nostri operano contro la mente de’ loro Istitutori.
- ↑ Visclini sono monete di Ragusi, che corrono un Ducato Veneto di argento, e cinque soldi all’incirca che non contengono il valore di un quarto di Filippo, per quanto fu osservato dopo replicate esperienze. Il nome che portano pare che dinoti la loro scelerata qualità, poichè Visclini corrisponde quasi al dir cagnolini. Questa moneta si spaccia molto nello Stato Ottomano, e mensualmente n’esce di Ragusi una summa, per quanto dicesi, considerabilissima.
- ↑ Questi fatti sembrano Romanzeschi, ma la necessità, l’entusiasmo della gloria, l’amor della vita che dominano negli Aiduzci, li fanno diventar ingegnosi per forza. Le Opanke, cioè le scarpe degli Aiduzci nella punta finiscono con una specie di becco all’insù. Quando sono le nevi per terra, si fanno essi le scarpe co’ becchi in su sì dalla punta de’ piedi che dalla parte delle calcagna, acciò i nemici non possano rinvenir le loro traccie. Questo è aver la finezza a un di presso simile a quella di Caco, che rubò i Bovi ad Ercole, e strascinolli nella sua Caverna per la coda.
- ↑ Io avea detto, parlando degli Aiduchi, ne’ costumi de’ Morlacchi, che Rosso fino a già un anno fu Capo di venti compagni in circa. Questi si acquietarono, e rimase Rosso solo. Ora si dice, ch’e’ fa de novi complici, e di novo sul punto di rendersi molesto più che mai. Ecco verificata la mia opinione parlando degli aiduchi, che „ se v’è un Capo facinoroso, e di cui il nome è in grido, ogni tentativo è vano (cioè di annientar gli Aiduchi) finchè non si spegna, o ammolisca il Capo stesso.„ Ma se non si può spegnere, che si deve fare? Vi pensino i saggi.
- ↑ Se un Morlacco accetta in casa uno, o più Aiduchi, in simil caso esso non tiene loro mano, e l’accusarlo di complicità sarebbe un distaccarsi dal retto pensare. Ma quelli, che sono indurati nella opinione di creder complici i Morlacchi, che ricevono nelle loro capanne gli Aiduchi, mi dicano, se (separati per così dire dal commercio intiero delle popolazioni) venissero essi visitati da una partita di Aiduchi, darebbono loro accetto nelle proprie capanne, o no? La ragione naturale abbastanza c’insegna quel, che ognuno, farebbe in tali incontri.