Il nemico (Oriani)/Parte prima/I
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I.
— Perchè? esclamarono simultaneamente, a voce bassa, Andrea Petrovitch Khartof e Fedor Vassilich Karatajeff.
— Perchè? rispose rattenendosi un istante e gettando sui due interruttori uno sguardo, dentro al quale passò come una luce bianca, Boris Romanovitch Slotkin: perchè? Vi è forse sempre un perchè? Si può saperlo? Perchè tocca a noi questa grande battaglia contro lo czarismo, che dura da quasi mezzo secolo, e nella quale perdemmo tante migliaia di martiri?
— Il progresso.... interruppe con accento ironico Fedor Vassilich Karatajeff.
— Un’altra parola, che sembra contenere il mondo e non lo spiega: domanderesti tu all’alone il perchè la luna acceleri continuamente il proprio viaggio intorno alla terra? Il progresso spiega forse la meta della umanità? Verso la giustizia? Ma, e coloro che saranno morti prima? Perchè a Napoli in questo momento fioriscono gli aranci e nelle nostre strade gelano perfino i discorsi? Perchè qui, a Pietroburgo, la stufa deve sostituire il sole? Quando noi saremo morti, impiccati dopo un processo ancora più ridicolo che ingiusto, più ingiusto che bestiale, che differenza rimarrà fra i nostri cadaveri e quelli dei giudici, che ci avranno condannati? A che ci servirà il progresso, nel quale tu speri? Chi ci dirà il perchè del nostro dramma passato, perchè io dovessi essere il vinto ed essi i vincitori? Chi ci dirà davvero che cosa io abbia perduto, e che cosa essi abbiano guadagnato?
— Hai dunque paura? proruppe Fedor deponendo la grossa pipa sul tavolo, ed allungandosi indolentemente sulla sedia. La sua faccia rossa, coi piccoli occhi cilestri e la larga bocca sensuale, aveva una sprezzante espressione di calma.
L’altro non rispose.
Andrea Petrovich andò a sedersi al pianoforte e, toccandone con la mano sinistra i bassi, ne cavò un accordo cupo.
— Già! esclamò Slotkin: suona, ciò distrarrà il dwornik, e lo convincerà meglio che noi siamo qui per sentire la tua opera su Boris Godunof; e volgendosi a Fedor: mi domandavi se ho paura? Forse! non quella della morte. Di questa è inutile temere, tanto si muore ugualmente: tutte le agonie si assomigliano, la loro differenza non è che nel tempo. Ora che siamo noi tre soli, aspettando gli altri, possiamo dir tutto.
— Hai paura, ripetè l’altro.
— Forse....
— Allora non parliamone più.
Andrea Petrovich Kartof stava seduto al pianoforte colle mani abbandonate sulle coscie e la testa bassa meditando; Fedor Vassilich Karatajeff andò a guardare dalla finestra, e Slotkin rimase presso al tavolo pieno di libri e di fascicoli di musica, in mezzo ai quali un grosso samovar lucente si alzava come un’urna. Nella camera vasta tre larghi divani addossati alle pareti sembravano aspettare gli invitati, mentre in un angolo un’alta stufa di ferro gettava dai fori ricamati dello sportello rossastri lampeggiamenti. Due tende di mussolina persiana, a fondo azzurro con fiori piccoli e bianchi, velavano cupamente la luce filtrante dai doppi vetri e intercettata da una massiccia scrivania di quercia: il pavimento a scacchi, di pino, tenuto con poca cura, era qua e là screpolato e rispondeva con sonorità fesse ad ogni passo; la porta era chiusa. Nell’angolo di contro alla scrivania, sopra un bacile di legno rosso e oro, l’enorme carafa della vodka s’ergeva fra una cintura di bicchieri a calice di varie misure.
Passò del tempo.
I tre non parlavano più.
A un tratto Fedor, che nascosto sotto la tenda guardava dalla finestra, disse:
— Vengono: suona, Andrea Petrovich.
Questi attaccò energicamente una marcia.
— Quanti sono?
— Martino Ivanovich Kepskj, Sergio Nicolaievich Lemm: Sergio ha il violino. Vanno adagio.... Oh! Ecco! vengono anche Michele Ossinskj e Ogareff.
E si ritrasse. Fedor stringeva il crescendo della marcia con troppa nervosità alterandone il ritmo così che quelli, che stavano per arrivare, si fermarono sotto le finestre sorridendo.
— È da un pezzo che Andrea Petrovich storpia così la propria marcia trionfale? chiese Dmitri Alessandrovich Ogareff al dwornik, che passeggiava in sentinella, secondo gli ultimi regolamenti di pulizia urbana, dinanzi al portone della vasta casa.
— No: ha cominciato ora. Vorrebbe dirmi vostra Alta Nobiltà quando la grande opera sarà finita? Mia nipote Catia Ivanovna ha già imparato la romanza del primo atto, che vostra Alta Nobiltà ebbe la degnazione di trasmetterle per mano mia.
— Sta tranquillo, mio caro Giacomo Martinovich Clemens, rispose il giovane conte Ogareff battendogli famigliarmente la mano sulla spalla, l’opera sarà finita entro l’anno. Tu sai, perchè sei figlio di cantante e zio di cantante, che un’opera in musica è un’impresa piena di difficoltà: il nostro giovane Andrea Petrovich supererà Glinka, ma è pigro come uomo e incontentabile come artista; d’altronde Fedor Vassilich va rimutando ancora le scene del libretto. Ora andiamo su per concertare un quintetto. Debbono arrivare altri amici; uno avrà seco il violoncello, l’altro il flauto. Viva la Santa Russia, Giacomo Martinovich: il giorno che la Russia possederà la propria grande opera musicale come l’Italia, la Germania e la Francia, avrà conquistato sull’Europa il primato.
— Viva la Francia! proruppe a bassa voce il dwornik: vostra Alta Nobiltà conosce le mie opinioni; la Russia non ha che tre nemici, i nichilisti, i tedeschi e gli ebrei: i nostri migliori amici sono in Francia.
— Eccoti per una bottiglia di champagne: la berrai alla gloria di Boris Godunof e al trionfo di tua nipote, che vi canterà da principessa Marina Mniscek; e gettando un marengo nel berretto di pelo, che il grosso portinaio fu pronto a trarsi, passò oltre con Ossinskj. Ma sul limitare della porta si fermò, fingendo di accendere lo zigaro, per gettare una rapida occhiata lungo la strada a sinistra. Sulla sua bella bocca di adolescente apparve un sorriso.
— Ah! esclamò: ecco qua il violino col flauto. Mio caro Giacomo Martinovich, i nostri due amici sono puntuali: tua nipote, la bella Catia Ivanovna, comparirà presto sulla scena del teatro imperiale. Essa è bianca come la nostra neve vergine e più bella delle nostre più belle sere, quando poco oltre mezzanotte spunta il sole. Tu amico mio, Michele Ossinskj, che sogni la gloria del Michelangelo italiano, dovresti farle la statuina.
— Se l’ho pensato! questi si rivolge guardando il portinaio con un sorriso: ma la bellezza di Catia è ancora un mistero così per voi, Giacomo Martinovitch, che l’adorate, come per noi che la ammiriamo in silenzio; forse solamente l’angoscia della prima sera, quando canterà davanti al padre nostro, lo Czar, potrà rivelare coll’invisibile bulino della passione il rilievo della sua maschera.
— Maschera?! interruppe il dwornik fra meravigliato ed offeso.
— Maschera, intervenne il conte Ogareff gittandosi dietro un’occhiata ai due suonatori, che avanzavano negligentemente, è una parola di studio. Gli scultori chiamano così l’impronta della fisonomia che ottengono col gesso.
— Ah!
— Per ora, seguitò lo scultore accarezzando il portinaio coll’accento della sua pronunzia di Piccolo Russo, dolce come il provenzale, non ho osato disegnare che il costume di vostra nipote per l’opera. Ho dovuto faticare, sapete, mio caro, proseguì prendendolo famigliarmente per un bottone dell’abito; tutte le opere di Kostomarof e di Solovief non mi hanno bastato: lo studio delle sante iconi di Roublef, il nostro grande pittore, aggiunse ammiccando degli occhi perchè il dwornik era un settario del Raskol e facendogli colle due dita un invisibile segno di croce, contrassegno e simbolo della setta, mi ha giovato un po’ più, e nullameno è insufficiente. Al museo etnografico Dachof di Mosca la raccolta dei vestiti russi antichi non serve a nulla; però vedrete come sarà Catia. La vogliamo irresistibilmente bella per quella sera: sarà l’immagine della nostra Russia, della nuova musica e della nuova scultura: la bellezza del corpo come espressione di quella dell’anima.
Intanto che il portinaio, arrossendo di piacere a questi complimenti, voltava le spalle alla strada, i due suonatori erano già arrivati, e ad un gesto rapidissimo del conte Ogareff, avevano risposto con un cenno negativo.
— Mio caro dwornik, primo dwornik di Pietroburgo, zio della bella Catia Ivanovna, la futura Adelina Patti della Santa Russia, proruppe con un accento gaio il conte Ogareff, la musica purifica l’anima ma asciugando il corpo. Eccoti un biglietto da venticinque rubli: comprerai alla bottiglieria francese Drummond et Fils quattro bottiglie di Sauterne, quindi passa da papà Razumikhine, lo conosci eh! fatti dare una grande carafa di vodka di Odessa. Ci porterai su tutto; oggi è gran prova.
— Vostra Alta Nobiltà mi permetterà di venire ad ascoltare un pezzo, solamente uno?
— No per San Sergio: ti conosco, vecchio mio, lo diresti alla bella Catia; e il conte Ogareff volgendosi ai due nuovi arrivati: su dunque, voi altri; e tu, Giacomo, tira via e più che al passo. Io stesso starò ad aspettarti facendo la tua fazione.
Un sorriso passò negli occhi dei tre giovani, ma il dwornik, già ubbriacato dai complimenti alla nipote e dal danaro regalatogli, non se ne avvide.
— Farò presto.
— Lo spero bene: non voglio andare per te in prigione, se passerà la guardia.
La grande casa a quattro piani, bucherellata da una infinità di finestre, era più bianca di quella prima neve distesa sulla strada come una grossa sabbia, e sulla quale l’orina dei cavalli e l’orma delle scarpe avevano già lasciato frequenti macchie disgustose. La strada, nè larga nè lunga, pareva soffocare sotto il cielo di un turchino plumbeo, davanti al quale gli occhi si abbassavano involontariamente, e oltre il quale nessuna immaginazione avrebbe potuto cercare i fantasmi vaganti dietro l’azzurro di tutti i cieli meridionali. Il freddo era intenso, benchè l’inverno non fosse ancora incominciato.
Il giovane Conte Ogareff, ravvolto in una ricca pelliccia di volpe turchina, coll’ampio bavero abbassato e un piccolo berretto di astracane sulla testa bionda, ricciuta e brinata dal gelo, era rimasto nel mezzo della porta guardando con calma affettata a dritta e a sinistra. Mostrava poco più di vent’anni: aveva l’aria oltremodo signorile, e l’eleganza del suo corpo s’indovinava anche dentro quella grossa pelliccia, lunga sino a mezzo gli stivali e chiusa da alamari di seta, sotto ai quali correva un doppio orlo di pelo. I suoi stivali, di pelle lucida impermeabile, calzavano un piede di donna: nella mano nascosta da un forte guanto di camoscio foderato di pelo nero, che chiudeva col proprio orlo il piccolo vano lasciato dai polsini della camicia sotto le maniche della pelliccia, stringeva una piccola canna dal pomo d’oro.
Fece qualche passo nell’atrio.
La moglie del portinaio era assente, o sepolta nella seconda stanza presso la stufa non si mostrava.
Ogni tanto qualche accordo di pianoforte e di violino scendeva dalle camere del secondo piano, ove stavano raccolti gli amici per la grande opera di Andrea Petrovich su Boris Godunof; ma o attendessero altri, o volessero assaggiar le bottiglie prima di cominciare la prova, nessun pezzo vero era stato ancora suonato.
I radi passanti trottarellavano entro le pelliccie, col bavero rialzato e il berretto sugli occhi, facendo stridere la neve o sollevandola ad ogni passo come una polvere greve: s’affrettavano lungo i muri in silenzio; appena qualche saluto e qualche parola. Dirimpetto all’enorme casa un’altra se ne alzava egualmente silenziosa e senza botteghe.
Un landau chiuso passò al trotto di due vigorosi cavalli neri: l’alito delle loro bocche saliva nell’aria come un fumo; una forma bianca si era piegata un istante agli sportelli per guardare il bel giovane, che fumava una sigaretta dondolandosi elegantemente sugli stivali. Poi altre carrette, due drowski seguirono; una slitta scivolò agitando nell’aria la propria campana, coi cavalli come spaventati.
La sera non era lontana.
Quell’attesa cominciava ad irritare il bel giovane: sul suo viso, che avrebbe voluto mantenersi calmo, passavano a volta a volta impazienze quasi di paura. Tornò nell’atrio, s’accostò al casotto della portineria, spiò: nessuno! Cinque o sei inquilini lo salutarono rispettosamente nell’uscire cercando non senza meraviglia il dwornik cogli occhi: alcuni altri non furono meno sorpresi di non scorgerlo rientrando.
Finalmente, al secondo piano, un accordo più vigoroso parve preludere a un pezzo d’opera; egli uscì, tornò a passeggiare sulla strada fermandosi sotto le finestre; guardò il proprio grosso orologio d’oro a remontoir.
Quando Giacomo spuntò all’angolo con due grandi fagotti, uno nella mano e l’altro sotto il braccio sinistro, il conte gli andò incontro.
— Per San Sergio, quanto hai tardato! Peccato che non sia passata una guardia per farti la contravvenzione; io stesso l’avrei firmata.
— Vostra Alta Nobiltà avrebbe pagato per me, rispose con un fine sorriso il portinaio sotto la lunga barba grigia: ero fuori per i suoi ordini.
— Almeno il vino hai saputo sceglierlo? Non ti hanno ingannato sulle marche?
— Ho detto il nome di Vostra Alta Nobiltà per precauzione.
— Andiamo, andiamo.
L’andito era vuoto: a sinistra salirono quattro rami di scale in legno, umide e buie, delle quali gli scalini, levigati dall’uso e resi lubrici dalla neve lasciatavi dalle scarpe degli inquilini, presentavano più di un pericolo, e si fermarono al secondo piano. V’erano tre porte; batterono a quella di mezzo: un mugik in camiciotto rosso, vecchio, calvo, con una lunga barba bianca si presentò umilmente. Era un servo di Andrea Petrovich.
Molte voci nell’altra stanza si acquetarono tosto.
— Andrea Petrovich, smetti di suonare, gridò con voce allegra il conte Ogareff: Giacomo Martinovich salito colle bottiglie sta ascoltando. È capace di vantarsi con tutti gl’inquilini di avere assistito alla prima rappresentazione della tua opera.
— Non permettergli dunque di entrare, s’intese dall’interno una voce gaia tra uno scoppio di riso: dagli a bere come alla Peri di Moore, sulla porta del paradiso.
— Sciocco! La Peri piangeva.
— Io sono generoso, Giacomo Martinovich Clemens, gridò Fedor: bevete; piangerete un’altra volta per qualcuno peggiore di me.
— Porta la tua scodella, disse il conte Ogareff al mugik.
Questi rientrò nella stanza attigua alla cucina, e ne tornò con una ciottola rossa, di legno, capace di oltre un litro: il conte ve ne versò dalla carafa forse mezzo, e porgendolo al portinaio:
— Alla salute della bella Catia! Attendiamo quassù altri due amici: sono Anatolio Fomitich Giskoff e un giovane maestro francese, che ha già dato un’opera propria a Parigi; guai se li accompagni!
— Vostra Alta Nobiltà non dubiti.
— Allons, partons pour la Sirie, gli intimò sorridendo il conte Ogareff.
Giacomo Clemens votò d’un fiato la ciottola e, prosternandosi in un inchino troppo umile anche per essere fatto al nipote di un ministro di stato, intuonò colla sua bella voce di basso, che avrebbe fatto onore ad un diacono di Santa Sofia, la vecchia canzone francese, nella quale egli metteva patriotticamente tutti gli ideali di conquista russa in Oriente.
— Tu, si rivolse il conte al mugik, mentre chiudeva l’uscio dietro al portinaio ma in modo da essere inteso da questo, attendi un mio ordine per sturare le bottiglie; se la prova non riuscisse, per San Sergio, non beveranno.
Nell’altra stanza il silenzio seguitava.
Quando il giovane conte entrò rigettandosi famigliarmente la pelliccia dalle spalle e scoprendosi in tutta l’eleganza della moda, con un soprabito nero attilato e calzoni scuri entro gli stivali di pelle lucida, tutti lo guardarono simpaticamente. Erano seduti intorno al tavolo: Andrea Petrovich padrone di casa stava al piano, Sergio Nicolaievich Lemm era accanto a Kepskj, che aveva deposto il proprio violino sulla cassa del pianoforte: il poeta Fedor lungo disteso sopra un divano sembrava dormire, Boris Slotkin col corpo sottile e la testa grossa rigettata sulla spalliera della sedia guardava insistentemente al soffitto, quasi per sottrarsi ai discorsi che già s’erano fatti, e stavano per ricominciare; mentre Michele Romanovich Ossinskj, che aveva accompagnato il giovane conte Ogareff, di lui non meno giovane, si era avvicinato alla stufa e si scaldava le mani con atti nervosi.
— Nessuna notizia, Dmitri Alessandrovich? domandarono simultaneamente più voci ma con scoraggiamento maggiore della curiosità.
— Nessuna.
— Povero Rodion! mormorò Fedor levandosi in sussulto dal divano.
Il samovar acceso mandava un alito leggiero di fumo cantando la canzone del the, piena di gorgogli, dai quali ogni tanto saliva uno strido sommesso.
— Un altro, un altro ancora, poi altri daccapo, fino a quando? Forse per sempre! È lungo questo martirologio, seguitò Fedor scuotendo amaramente la testa e agitando una mano quasi a minaccia: chi ne conosce l’origine? La Russia è come un immenso lido, sul quale si siano accavallate tutte le invasioni. Gli Ural, che ci dividono dall’Asia, sono così poco alti che la schiuma delle invasioni orientali rimbalzando alle loro falde e sorvolando le loro creste è sempre discesa sul nostro versante. Da quando è cominciato il martirio del popolo russo? Come il popolo ebreo, esso è entrato nella storia mediante una cattività: la sua vita comincia dall’indietreggiare nel passato dei Tartari, nei quali spira l’ultima idea e s’acqueta l’ultima passione orientale. Il cammino della nostra storia è segnato dai Kourganes delle steppe, sepolcri di tribù dimenticate, sui quali i pastori accendono i fari per la marcia del loro gregge. Che cosa è stata la Russia nella storia del mondo? La nostra razza, che chiamiamo slava dal nome della gloria, mentre i latini dal nostro nome trassero quello di schiavi, che cosa ha fatto al momento che Alessandro colla falange macedone sventrava l’Oriente illuminandolo colla cultura greca, quando Roma riaprendo la strada di Alessandro riuniva tutto il mondo intorno a sè medesima, quando oltre il raggio del pensiero greco-romano l’Oriente accumulava più vaste conquiste, più numerose religioni, più colossali arti, scienze più misteriose e filosofie più profonde che nell’Occidente? Che cosa accadeva nelle nostre steppe? Greggi di uomini e di animali vi pascevano: le pecore vi abbassavano la testa verso l’erba e i pastori verso la terra; l’uomo era più schiavo della bestia. Non abbiamo poemi, perchè la nostra prima vita fu senza gloria, monotona e sconsolata come la steppa.
— Vuoi tu farci una accorante lezione di storia? gridò Martino Ivanovich Kepskj.
— Non s’insegna ciò che non è, rispose amaramente Fedor.
— Tu neghi la Russia?! Beviamo piuttosto, ribattè alzando sdegnosamente le spalle Michele Ossinskj ed appressando la propria tazza alla chiavetta del samovar.
— Si nega forse il dolore? Come si è formata la Russia? Sotto l’Orda mongolica. I primi Kniaz, discendenti di Rurik, furono i servi più abbietti della Orda d’oro. Quale differenza fra San Luigi re di Francia e Sant’Alessandro Newskj! Poi l’Orda si dissipa e la Russia riappare: ma l’Orda svaporando come un’acqua immonda lascia una fondiglia, l’aristocrazia di Mosca. Le due piccole democrazie di Nowgorod e di Pskof spirano sotto la nuova tirannia; fra l’Oriente antico e l’Occidente europeo la Russia rimane senza storia nel passato e senza storia nell’avvenire. Ah! perchè dico questo? Perchè soffoco. Non c’è aria in Russia; l’arte non vi ha mai respirato. La Russia non ha una statua, un quadro, un poema, una tragedia, non un nome nelle scienze, non un posto nella filosofia. Tutto è sconfinato e uniforme nella Russia, le idee vi si diluiscono: vi abbiamo il socialismo da mille anni, e siamo ancora al mir; il nostro governo è un’amministrazione minuta sino all’invisibile e nullameno più grossolana dell’impero stesso. Vi sono canti finnici e canti ucranici, non vi è nulla di russo; tanto peggio per Ralston che pretende il contrario.
— Tu sogni nel passato, disse Kepskj: la Russia di questo secolo non è più la Russia antica.
— Perchè il dolore vi si è fatto più acuto nelle coscienze di pochi. Si congiura, ecco tutto. Il popolo vi guarda senza comprendervi; la sua anima ha mille anni di servitù. Noi gli promettiamo una libertà, che non sappiamo nemmeno dipingergli: la pittura non è arte russa.
— Tu disperi dunque? intervenne Ossinskj.
— No, ma il dolore è troppo. La Siberia è un continente popolato di prigionieri, la nostra politica rivoluzionaria è un martirologio: non un’idea, non una forza, sulla quale appoggiarsi; l’arte l’avrebbe trovata d’istinto. La Russia non ha arte.
— Che! gridò Andrea Petrovich: i nostri grandi....
— Lascialo sfogare, disse Ogareff picchiando colla costola di un libro nel ventre del samovar per chiamare il servo.
— Stappa le bottiglie e porta i bicchieri. Quale libro russo, seguitò, vale una bottiglia di vino francese? La Russia siamo noi, che osiamo negarla: in quattrocento anni la Russia non ha saputo conquistare Bisanzio. Noi siamo un popolo di accattoni.
— Governato da ladri.
Boris Slotkin portò la carafa della vodka sul tavolo presso il samovar versandosene un enorme bicchiere:
— Ecco la vita russa: la Russia non ha trovato altro per resistere allo sconforto della propria inanità.
Il vecchio mugik entrò colle bottiglie, e si ritirava mutamente.
— Resta, mio vecchio Pietro: tu non capisci, tu! Vuoi della vodka o del vino?
Il mugik guardò alla carafa senza rispondere: nullameno tutti restavano cupi.
— Rodion dunque morirà: tutto il partito è incapace di salvarlo.
— Non si può dunque scrollare questo infame impero, che soffoca tutto?
— Aspetta.
— Sono mille anni che la Russia aspetta.
— Sì, andate a scuola, proseguì con rabbia crescente Fedor, studiate la storia, il diritto, le scienze; non ve ne mostrano che i frantumi, nullameno quanto basta per comprendere il resto. Uscite di scuola: l’aria, il sole, la neve, la vostra vita, la vita dei vostri, tutto è dello Czar. Proibito di pensare: pena di morte a chi parla: permesso di scrivere, purchè si menta. I tuoi grandi, Andrea Petrovich, i tuoi grandi scrittori russi! Tu li credi grandi? Già.... Puskin! guarda i suoi Zingari; sono zingari quelli? Da lui comincia il pietismo, che ora delira in Tolstoi. Lermontoff? un Byron meno la sincerità della passione e l’originalità del romanticismo. Dostoiewski? un malato che racconta delle malattie. Negrassoff? un lirico, che ha saputo tacere quando per parlare bisognava morire. Tolstoi? che falsifica il mugik, facendone l’apoteosi, e cerca nel cristianesimo la rivoluzione dell’avvenire. Tcherniscewski? Mettilo fra Proudhon e Marx, e vedi che miseria di economista ne esce. Che fare? Intanto non fare romanzi come il suo, e non rispondere così poveramente a Stuart Mill. Herzen? Ecco che cosa può essere un Mazzini russo: un retore eloquente e voltabile; l’esilio, assicurandogli l’impunità, non basta a comunicargli la costanza. Tourguenief? uno squisito dilettante di letteratura; impara l’arte all’estero per dipingere paesaggi e scene russe a distanza. Gogol e Ostrowsky? ecco la satira russa, un riso che non castiga e non diverte. Bielinsky? la critica idealista di un’arte che manca. Solo la Polonia ha poeti, perchè la Polonia odia la Russia e si batte contro di essa. Non possediamo che una leggenda mondiale, Mazzeppa, e ne dobbiamo a Byron e a Hugo i versi più belli. Io sputo sulla Santa Russia.
— Viva la Russia, proruppe Ossinskj.
— Dove la servitù può durare mille anni senza una guerra servile, e la tirannia abbassarsi sotto l’imbecillità senza impiccolirsi. La storia russa non ha che una grande figura: Napoleone I al Kremlino.
— Noi bruciammo Mosca.
— Scempiaggini! La neve sola distrusse la grande armata. Senza la corazza di ghiaccio la Russia cadrebbe ferita a morte nel primo combattimento. Quando si ha la disgrazia di nascere russi, bisogna congiurare per farsi uccidere, altrimenti si è costretti a suicidarsi per sfuggire alla nausea di sè stessi. Io sputo sulla Russia.
— Viva la Russia e morte allo Czar! proruppe a bassa voce, con occhi scintillanti, Ossinskj.
L’altro alzò sprezzantemente le spalle.
— Morte allo Czar! ripetè il conte Ogareff, alzando un bicchiere colmo di Sauterne.
— Già, siamo ai brindisi! replicò Fedor con inflessione così insultante nella voce che tutti impallidirono: ecco il coraggio russo!
— Tu insulti dunque?
— Sì, perchè odio me stesso prima di tutto; mi vergogno di essere russo.
In quel momento Andrea Petrovich, che aveva seguito con visibile compiacenza la discussione, si torse verso la tastiera e, sorridendo ironicamente a se stesso, suonò le prime battute della grande marcia di Glinka nell’opera, — La vita per lo Czar —.
— Tieni, gridò Fedor lanciandogli alla testa senza colpirlo un bicchiere d’acquavite.
Tutti sorrisero.
— La tua musica russa! Non a Pietroburgo certamente Rossini avrebbe potuto scrivere il Guglielmo Tell.
— Un’opera sopra un uomo che non ha mai esistito, ecco l’arte! osservò con voce stridula, ghignando, Sergio Nicolaievich Lemm.
— E che in Russia non esisterà mai. La Russia, che non ha saputo immaginare un Guglielmo Tell, non avrà mai un Garibaldi.
— La Russia, replicò Ossinskj, ha tutto ciò che voi altri le negate.
— Io, intervenne Ogareff, le nego anzitutto l’aristocrazia: dietro di essa si sarebbe formato il popolo. La Russia non ha nobiltà; il suo patriziato non fu mai che di cortigiani e di impiegati, vili i primi, ladri i secondi; l’uno e l’altro tutti due.
— Meglio così! insistè Ossinskj, tanto a quest’ora sarebbe corrotta come tutte le altre aristocrazie d’Europa. Basta guardare la Russia sulla carta....
— Sulla carta di Rittich?! adesso ci farai tu una lezione di geologia, perchè tuo zio fu amico di Krapotkine. Krapotkine! un geologo di cui l’Europa sorride, un rivoluzionario che scrive declamazioni a freddo nella tranquillità di Londra.
— Non rispetti dunque nessuno?
— Nessun russo.
— E i nostri morti, i soli martiri moderni?
— Tu credi ingenuamente che l’Europa ci ammiri, perchè in trenta attentati siamo finalmente riusciti ad uccidere un Alessandro II? Noi valiamo meno degli antenati di Ogareff: essi uccisero più di uno Czar senza tanti sforzi, con un complotto di palazzo. Intanto chi salva Rodion?
— L’epoca dei martiri non è ancora passata.
— Rettorica.... Chi non vince ha torto. Lasciamoli alle religioni i martiri, buoni per farne dei santi quando arrivano finalmente coloro, che vincono. La Russia è vile.
— Più della China, proruppe Ogareff. Nessun popolo ha per il proprio tiranno la fede del popolo russo, ed è un popolo già socialista nelle proprie istituzioni. Perchè congiuriamo? Pel popolo no certo.... almeno io. Io odio lo Czar e l’aristocrazia, che lo sostiene, non amo un popolo, che adora il proprio tiranno e serve a tutti.
— Bisogna educarlo, disse Boris Slotkin.
— Ufficio di pedanti: preferisco ritentare l’impresa di Rodion. Egli ha sbagliato lo Czar perchè il revolver gli ha tremato nella mano.... Forse era troppo freddo quella mattina, aggiunse ironicamente.
— Sei tu adesso, Ogareff, che fai della rettorica; ma il silenzio stesso del popolo russo fra il garrito di tutte le nazioni europee non dice abbastanza che il mondo moderno non ha che un’aspettazione, la Russia? Che facemmo, Fedor, nel passato? Nulla: ecco il nostro orgoglio; tutte le nazioni sono esauste, noi siamo vergini. Che faremo? Tutto. La Russia avrà Dante e Shakespeare, Michelangelo e Galileo, Darwin e Hegel; noi supereremo tutti. Fonderemo Oriente ed Occidente seppellendo autocrazia, monarchia, aristocrazia, democrazia sotto la formula nuova del socialismo, che solo in Russia può trionfare. La rivoluzione dell’avvenire, maggiore di tutte le altre sommate insieme, deve prorompere da un popolo vergine; il vecchio mondo non può che rigenerarvisi, e non tutto; molte nazioni vi scompariranno. Che cosa è l’Italia? La sede dell’ultimo papato e l’ospizio delle prime arti. La Francia si è consunta nella sua doppia missione di unità monarchica al medio evo e di rivoluzione borghese in questo secolo. L’Inghilterra non è che la prima unità mondiale del commercio, ottenuta col monopolio e destinata a perire sotto la libertà di commercio. La Germania è una nazione di allevatori di idee, sempre ultimi nei fatti. Noi ci formiamo. Siamo plagiari, tu credi, Fedor? I bambini lo sono forse? Siamo senz’arte? Ieri sì, oggi no; domani tutta l’arte sarà russa, perchè l’unico materiale nuovo d’arte è russo. Fra mezzo secolo saremo oltre duecento milioni: chi ci resisterà? Duecento milioni di uomini moderni! Gli Czar saranno allora lontani come i Kan di Tartaria lo sono adesso per noi. Ecco perchè tutto quanto ha un’anima oggi in Russia è con noi, pensa, soffre, odia di un odio fatto di amore, è pronto a morire con noi. Sì, Rodion morrà, e dopo di lui moriranno altri ancora, ma la Russia trionferà sul mondo e pel mondo. Ebbene, la nostra vita di ora è più bella di quando la libertà e la giustizia avranno trionfato. Chi sa se la felicità non annoi! Io preferisco la mia epoca; posso essere ucciso, ma posso uccidere affrettando la creazione di un mondo. La creta sotto la stecca dà mille volte più piacere del marmo sotto lo scalpello; il marmo dura, e la creta si sforma facilmente. Che importa? L’uomo non può gustare l’infinito della bellezza e dell’amore che in un attimo.
— Bravo! esclamò Andrea Petrovich.
— Chi dubita? Chi dispera fra noi? seguitò con accento entusiasta Ossinskj: tu, Slotkin, sei pessimista, eppure resisti: tu, Ogareff, disprezzi il popolo e arrischi tutto per lui: tu, Fedor, insulti l’anima russa, perchè non la senti ancora pari a sè medesima e alla gloria del proprio avvenire: tu, Lemm, sei uno studente proletario come me, che ha ricusato di entrare nello tchin per non servire a coloro, i quali aggravano la miseria del popolo: tu, Kepskj, hai disertato il ricco negozio di tuo padre per diventare medico e curare le piaghe della povera gente senza speranza di guadagno: tu, Andrea, ascolti nel silenzio del popolo le voci del suo spirito come Chopin....
— No, Chopin era un malato, rispose con impeto Andrea Petrovich, era un romantico. La musica sola può esprimere il sentimento russo di questo secolo. Fedor, tu hai ragione; tutto è assimilazione e imitazione in Russia. Noi viviamo di fronte al patibolo; solo la musica, essendo o prima o dopo la parola, può dare la voce di questa crisi, che è una tempesta sotterranea.
Ma Lemm si alzò, e mescendosi un gran bicchiere di acquavite guardò dileggiando il denso fumo delle pipe.
La stanza sembrava invasa da una nuvola, il samovar si era spento: i bicchieri, sparsi sul tavolo, lo avevano largamente macchiato, mentre il calore della stanza saliva ad infiammare tutte le teste già eccitate dai discorsi e dal bere.
— Chi salva Rodion? esclamò da capo Fedor con ostinazione di amore. Anche tu, Ogareff, perchè dargli un cavallo simile?
— Me lo rinfacci? Lo sai pure: venne da me Petrovskj a chiedermi il miglior cavallo; lo diedi.
— L’aiutante dello Czar, che cavalcava dietro la sua carrozza, ha nullameno potuto raggiungerlo; l’aiutante aveva un cavallo inglese. Che cosa valgono i cavalli russi? ripetè due o tre volte con caparbietà pessimista. D’altronde Rodion ha avuto torto: perchè ritentare sullo Czar il colpo fallito da Mirsky contro il generale Drenteln? Ah era bello! incontrare a cavallo, trottando, la carrozza dello Czar, freddarlo con un colpo di revolver e salvarsi al galoppo.... Troppo bello.... Povero Rodion!...
E questo nome ricadeva ogni tanto sulla conversazione spegnendola.
La sera calava sulla strada: nella vasta stanza l’aria non era più che un fumo, nel quale si confondevano mobili e persone, ma nullameno tutti seguitavano a fumare. Ogareff si era seduto famigliarmente sul tavolo, Andrea Petrovich non aveva lasciato il pianoforte, Lemm era andato ad appoggiarsi alla scrivania. Così piccolo e poveramente vestito, spariva quasi entro una vecchia giacca troppo ampia, che gli faceva una figura goffa; ma la sua faccia acuminata di volpe, a certi momenti, quando la luce della finestra vi cadeva di sbieco, diventava sinistra.
— Che facciamo qui? chiese improvvisamente: tu, Ogareff, mi avevi detto che avresti tentato un espediente tuo per salvare Rodion.
— L’ho fatto; aspetto la risposta qui.
— Qui!
— Oh! esclamarono in coro: da chi? Perchè non dirlo subito? Come lo sapevi tu solo, Sergio Nicolaievich?
— Aspettiamo, disse solennemente Ogareff.
— La solita parola russa, aspettiamo: ribattè Fedor.
— Finiscila dunque colle tue impazienze di artista, gli si volse Lemm. Tutti così voi altri creatori di frasi; credete di aver fatto qualche cosa quando l’avete detta, come se i fatti potessero svolgersi nella vita colla stessa imbecillità compiacente, colla quale si atteggiano nei vostri libri. L’arte non è che virtù d’istrioni e vizio di parassiti.
— Tu ebreo puoi dire così.
— Io, ebreo, ti dico che l’arte è il più vile dei lussi, perchè non ha mai divertito che i padroni; una statua di Michelangelo non vale un’oca, che almeno possa cuocere. L’italiano Sobrero, inventando la nitroglicerina, è stato più utile di Dante: domandalo al cadavere di Alessandro II. Dante ha potuto sognare di scendere all’inferno, Sobrero vi ha cacciato davvero Alessandro II. Finiamola una volta con queste aristocrazie delle arti e delle scienze: il popolo ha bisogno di ben altro, il paradiso deve essere sulla terra.
— Tu ne farai una cucina.
— Sarà sempre meglio che un tempio o un museo.
— Perchè non piuttosto una banca? replicò Fedor piccato.
— Vuoi dunque dirmi che sono nato ebreo? e la sua voce, invece di alzarsi, si assottigliò in un sibilo.
Tutti lo guardarono: parvero temere una contesa. Ma Sergio Nicolaievich Lemm, sempre appoggiato alla scrivania, seguitò:
— È vero, sono ebreo. Gli ebrei hanno fondata la oligarchia dei capitalisti per diventare i tiranni dei tiranni. Siccome non hanno patria, non concepiscono lavoro e capitale che nella forma più astratta e potente del denaro. Vedi, anche in ciò sono un popolo monoteista; ma questo popolo ha almeno ucciso un Dio, quello che oggi ancora adorano tutte le nazioni civili. Riconoscigli questo merito; colla morte di Cristo ha fornito un tema non ancora esaurito a tutti i poeti.
— Alla salute degli antichi deicidi, proruppe Ogareff alzando il bicchiere.
Ma nessuno rispose.
Evidentemente quella seduta, omai troppo lunga, cominciava ad opprimerli. Si erano riuniti presso Andrea Petrovich per parlare di Rodion, lo studente, che aveva attentato alla vita di Alessandro III, e che nessuno di essi conosceva personalmente, nemmeno Ogareff, quantunque si fosse temerariamente compromesso cedendogli il migliore dei propri cavalli sulla semplice richiesta di un altro studente. Ma secondo il solito non avevano che ciarlato. Erano tutti giovani; Slotkin, il più vecchio, passava di poco i venticinque anni, e non era ascritto neppure egli al nichilismo. Ma la veemenza delle loro opinioni, infiammate dai ricordi dei grandi drammi nichilisti, li preparava forse inconsciamente a qualche non lontana catastrofe, sebbene nel rilassamento sopravvenuto al partito dopo l’uccisione di Alessandro II, e nella ripresa tremenda delle persecuzioni poliziesche, nessuna impresa fosse ancora stata loro proposta.
Diventati amici a scuola e costretti a vivere separati dalle diversità delle loro condizioni, non si riunivano che rade volte con molte precauzioni in casa di Andrea Petrovich per concertare qualche pezzo della sua Opera su Boris Godunof, o dal conte Ogareff al primo piano del suo magnifico palazzo sulla prospettiva Newsky.
— Chi porterà questa risposta? tornò a domandare Lemm.
— Olga Petrovna.
— Naturalmente non verrà, osservò Lemm, che aveva per le donne un disprezzo anche più violento che per l’arte.
L’altro invece di rispondere andò a gittarsi sul divano.
— Io dormo.
Si fece silenzio: la camera era diventata quasi buia.
Allora Andrea Petrovich cominciò a suonare. Alle prime battute un brivido corse per la stanza, nella quale solo la luce rossastra della stufa si agitava a quando a quando sinistramente. Andrea Petrovich stava colla testa curva sulla tastiera, volgendo le spalle a tutti, immobile nell’ombra. Poi un’eco lontana di tamburi parve scandire la marcia funebre di Rodion guidato al patibolo da un battaglione di fanteria. Si sentiva il passo dei soldati battere in cadenza sulla neve col rullo scordato dei tamburi, mentre dalle campane delle chiese cadevano rintocchi d’agonia per l’aria fredda del mattino sul brusio della strada piena di popolo, che non osava parlare. Solo qualche singhiozzo scoppiava ogni tanto, soffocato indarno fra le dita convulse, intanto che i vicini sbalzavano sulle punte dei piedi per nascondere all’occhio vigile dei gendarmi quel pietoso. Poi una frase larga e poderosa riempì improvvisamente tutta la strada: le finestre, prima chiuse paurosamente, si gremivano di un’altra moltitudine pallida di una notte d’insonnia, cogli occhi ancora gonfi ed intenti nel condannato, che si avanzava a testa nuda, nudo sotto la lunga camicia bianca. Nessuno poteva parlare, nessuno si muoveva; una pietà disperata sollevava simultaneamente tutti i cuori mandando dal profondo di tutte le anime a tutte quelle labbra frementi un saluto supremo di amore. Quella morte, inventata dall’uomo colla condanna di un altro uomo, annientava istantaneamente nella orribilità del proprio mistero ogni coscienza. Perchè quel solo aveva voluto morire per amore della vita di tutti? E la musica, alta sul rullo dei tamburi, ondulava lungo la strada bagnando le fronti scoperte di quella moltitudine come un vapore intirizzente. Improvvisamente nell’azzurro del mattino la luce rutilò. Perchè compiangere dunque? La morte era più bella così. Infatti, all’apparire della forca nello sfondo della strada, una frase trionfale di guerra erompendo da quella musica di dolore e coprendolo il rullo dei tamburi sollevò tutta quella folla ad un urlo di ovazione. La morte era scomparsa, il martire splendeva nell’apoteosi del trionfatore. Invano i tamburi regolavano ancora sommessamente il passo dei soldati, che lo scortavano al patibolo; invano la gente restava allineata ai muri coll’immobilità delle statue, e la distanza dalla forca scemava mentre qualche nota del dolore di prima passava ancora attraverso le fanfare vittoriose come un uccello notturno sperso nel meriggio. La marcia funebre diventata marcia trionfale scrollava tutto colla propria sonorità; vi si sentivano ancora le ultime grida dei vincitori salienti dal fracasso delle rovine fra lo squillo giovanile dei coscritti capitati alla vittoria in quella prima battaglia.
— Ah! scoppiarono gridando Ogareff, Ossinskj e Karatajeff, come avventandosi in quell’ombra cupa della stanza verso una luce invisibile.
Ma la marcia non era finita. Il rullo dei tamburi tornò a battere in cadenza sullo scalpiccio affievolito dei soldati, che si arrestavano disponendosi a quadrato intorno alla forca: un rumorìo di voci oppresse si acquetò subitamente, s’intesero degli scoppi come di finestre spaventate che si chiudessero; poi i tamburi alzarono daccapo il loro rullo, lo crebbero, lo mantennero, lo mantennero, lo mantennero....
Il condannato non aveva potuto parlare.
S’udì un singhiozzo: era il poeta Fedor che piangeva.
Poi disse:
— Ora sono sicuro; nessuno può salvarlo. Tu, Andrea Petrovich, non avresti potuto scrivere per lui questa marcia funebre se non fossi stato certo della sua morte.
— Potremo almeno accendere il lume, osservò Kepskj.
— Tant’è andarcene tutti, tornò a dire Lemm, che non si era mosso dalla scrivania: Olga Petrovna non verrà.
— Attendetemi, ribattè Ogareff con impazienza; e così al buio, afferrata la pelliccia dal divano, uscì sbattendo duramente l’uscio.
— Bella congiura che facciamo qui! mormorò Stolkin, che non aveva ancora parlato: se capitasse la polizia, sarei curioso di sapere che cosa risponderemmo. La scusa della tua opera, Andrea Petrovich, mi pare magra assai; anzitutto, nemmeno hai cominciato a scriverla.
Un silenzio si appesantì sulla stanza. Lemm dalla finestra spiava nella strada, per la quale passavano frettolosamente poche ombre; i fanali non v’erano ancora accesi. Andrea Petrovich era andato nella cucina per ordinare al servo di portare un grosso lume a petrolio: quando questi entrò, Lemm chiuse nervosamente gli scuri della finestra. Allora tutti si guardarono. Il tavolo troppo bagnato di vino e d’acquavite, nel calore della stanza, esalava un acre odore di bettola; le pelliccie erano gettate sui divani e sulle sedie con poca cura: la cassa del violino di Kepskj, nera, stava ancora al medesimo posto sul pianoforte, e l’astuccio del flauto era appoggiato ad una bica di libri sul ringhierino della scrivania.
— C’è ancora della vodka? domandò Ossinskj per rompere il silenzio.
— Sì.
— Finiamo la carafa.
— Aspetta, disse Andrea Petrovich esaminando le bottiglie del Sauterne: vediamo se fosse rimasto un bicchiere di vino per Olga Petrovna.
— Non verrà, s’ostinò a ripetere Lemm.
Ma come a smentirlo s’intese aprire l’uscio sulla scala: tutti tacquero. Ogareff e Olga Petrovna entrarono; Ogareff era più pallido di lei.
— Nulla? domandò soffocatamente Fedor.
Ogareff non rispose. Tutti avevano già compreso.
— Lasciatemi sedere, disse Olga Petrovna niente meravigliata di essere accolta come un uomo, senza quella qualunque galante cortesia, che le donne giovani e belle sono abituate a trovar sempre. Fedor in piedi le allungò una sedia, mentre Andrea Petrovich, riuscito finalmente ad empire quasi un bicchiere preso a caso sul tavolo fra quelli ove tutti avevano bevuto, glie lo porgeva.
— Ecco, incominciò Olga Petrovna slacciando gli alamari della sua corta pelliccia e staccandosi dalla testa bionda il berrettino di lontra; voi, Lemm, lo sapete; credo di avervelo detto altra volta. Tre mesi fa salvai dalla difterite il figlio unico di Elia Romanovich Teghew, carceriere nella fortezza Pietro e Paolo: sua moglie Polia è affetta da una metrite, l’ho in cura anche lei; l’ho quasi guarita. Oh! esclamò, ma è caldo qui dentro! e si alzò per trarsi la pelliccia; Fedor l’aiutò tirandole simultaneamente ambe le maniche per di dietro.
— Buono il vostro vino! Elia Romanovich è ancora più pazzo per sua moglie Polia che per il suo piccolo Sergio; io glie l’ho resa, mi capite, si rivolse a Lemm, del quale la faccia scarna esprimeva nella sua fissità una ironia malevola. Elia Romanovich non poteva usare di Polia.
— Ora.... interruppe Slotkin.
Ma Olga senza badargli seguitò:
— Ero d’accordo con Ogareff; egli mi aveva detto: offri sino a trentamila rubli in contanti, subito, ad Elia Romanovich se acconsente a far fuggire Rodion. Il disegno era questo: Rodion è nella medesima cella, ove rimase due anni Krapotkine, e vi è guardato a vista da un soldato perchè non si suicidi; il soldato riceve la muta ogni sei ore. Nel lungo corridoio, ove dà la cella di Rodion, un altro soldato monta in sentinella colla baionetta inastata e il fucile carico. Elia Romanovich, quando porta da mangiare ai condannati, è sempre accompagnato da un secondino carico di una cesta. Avevamo pensato così: Rodion sulle dieci di sera avrebbe finta una leggera indisposizione, e pregato il sergente di guardia, che andrebbe a cambiargli il piantone, di chiedere una tazza di brodo. Eravamo sicuri che la domanda sarebbe stata esaudita dal direttore perchè Rodion deve essere impiccato posdomani.
Olga si fermò: la voce le tremava, il suo bel viso pallido, un po’ slavato, si velò improvvisamente di dolore; parve che un nodo le stringesse la gola.
— Tira via, Olga, le disse a denti stretti Ossinskj che, allungati i gomiti sulla tavola fra i bicchieri, colla faccia sopra ambe le palme, le divorava convulsivamente sul viso quel racconto.
— È stato inutile: il disegno era questo. Elia Romanovich avrebbe offerto a Rodion, come per compassione, anche una piccola bottiglia di vino; Rodion ne avrebbe versato prima un bicchiere al piantone, poi un altro al secondino, deponendo la bottiglia e fingendo di volerne bere il resto dopo la tazza di brodo; nel vino ci sarebbe stata una forte dose di cloralio. Quindi Elia Romanovich avrebbe aiutato Rodion a mettersi gli abiti del secondino caduto addormentato come il piantone: sarebbero usciti dalla cella. Elia sarebbe disceso giù alla portineria; sulle dieci il picchetto è tutto nella stanza di guardia, a fianco della porta, e giocano. Elia avrebbe detto forte al sergente, schiudendo l’uscio: usciamo con Ivano Gravilitich a prendere dei sigari e della vodka. La sentinella avrebbe aperto senza sospetto, fuori nella strada....
Olga si volse con uno sguardo dolce ad Ogareff:
— Ci saresti stato tu colla tua telega e i tuoi cavalli più veloci.
Tutti guardarono Ogareff seduto sul divano colla fronte fra le mani.
— Ebbene, impossibile! Ha ricusato i trentamila rubli! Gli avevo già portati i passaporti falsi per lui, per la moglie e il piccolo Sergio; l’ho minacciato di abbandonare la cura di Polia, che ricadrebbe ammalata, così che egli non potrebbe più usarne; gli ho rinfacciato la guarigione del piccolo Sergio, che il suo medico Bouslaief aveva spacciato prima che io lo visitassi; ho pregato, ho pianto. È stato inutile.
— Vigliacco! mormorò Fedor.
— Sì, vigliacco: ha paura.
— Rodion sa del tentativo? chiese Kepsky.
— No.
— Quale opinione dovrà farsi del partito!
— Per un soldato, che muore, la guerra non s’arresta, ribattè Ossinskj.
Nessuno più parlò, ma una impazienza si dipinse sulle faccie di tutti. Evidentemente il loro convegno era terminato dopo quell’infelice comunicazione, per la quale Ogareff li aveva radunati in casa di Andrea Petrovich. Un profondo abbattimento umiliava ora il giovane conte, rendendolo come dubbioso di risollevare il volto. Salvare Rodion a lui sconosciuto, e pel quale si era temerariamente compromesso prestandogli mediante una finta vendita ad un sensale ignoto il proprio migliore cavallo; salvarlo, mentre lo stesso Comitato Esecutivo l’abbandonava, sarebbe stato il suo trionfo presso gli amici, e il suo ingresso forse nel Comitato medesimo, che nessuno di loro ancora conosceva.
— Ogareff, disse con voce commossa Fedor: tu piangi!
L’altro, per non mostrare le lagrime, si mise a frugare nella pelliccia rigettata sulla spalliera del divano, cercandovi il porta-sigarette. Olga gli abbracciò il collo per di dietro dandogli un bacio sulla guancia.
— Mio caro Dmitri, quanto sei buono!
— La seduta accademica è levata, proruppe con la sua vocina sardonica Lemm.
— Un momento, ribattè Ogareff con un sussulto nervoso sotto la sferzata, sciogliendosi con poca galanteria da quell’abbraccio: i suoi occhi, ancora bagnati di lagrime, gettavano fiamme. Leo Kriloff non si è ancora veduto: aspettiamo, forse ci recherà qualche notizia.
— Quale? Tutto è perduto, intervenne Slotkin appoggiando con un’occhiata Lemm.
— Chi ha maggior paura può uscire pel primo, disse Ogareff alteramente, dominandoli tutti colla signorilità di una posa involontariamente scultoria: quindi si curvò sul lume a petrolio per accendervi un grosso sigaro d’avana, che finalmente aveva trovato in una tasca.
— Accademia letteraria e parata teatrale, replicò Lemm senza mostrarsi offeso; sediamoci dunque per l’ultimo atto.
Ma gli altri restavano in piedi nervosi. Ossinskj s’era accostato ad Olga e, cingendole famigliarmente la vita, le domandava con chi passerebbe la sera.
— Ho due malati ancora da visitare.
— Vuoi venire a cena con me al Recreo? questa sera vi si annunzia una nuova ballerina spagnuola.
Olga accettò con un sorriso, guardandolo nei begli occhi neri.
Il disordine della stanza si era fatto più vivo. Alcuni stavano seduti come a disagio sulle sedie, mutandovi incessantemente posa senza potervisi calmare: Ossinskj, col viso rosso per la troppa vodka bevuta, era tornato alla stufa quasi per equilibrare nel calore della sua irradiazione l’ardore, che gli bruciava le vene: Kepskj seduto sopra un divano si batteva la pipa sul ginocchio. Slotkin gironzava intorno alla scrivania torturandone i libri, mentre Fedor in piedi, col ventre appoggiato allo spigolo della tavola, fissava nella fiamma del lume a petrolio gli occhi lucenti e sbarrati.
— Siamo tutti vili, esclamò. Il Comitato Esecutivo chi lo conosce? Chi lo compone? Perchè non salva Rodion come salvò Krapotkine, Vera Zassulic, Giovanni Bokanosky, Leo Deuc e Jacopo Stefanovich? Gli studenti delle università dovrebbero essere già insorti per Rodion. Noi che non siamo niente, che non siamo nemmeno in rapporto col Comitato Esecutivo, che cosa facciamo qui a parlare di Rodion? Abbiamo paura: tu, Slotkin, ne hai forse meno di noi, seguitò con amaro sorriso, perchè hai osato almeno dire con noi ciò che non osiamo confessare a noi stessi. Sì, abbiamo paura; bisognava già aver fatto qualche cosa. Tu, Ogareff, sei migliore di noi; hai tentato di agire solo, arrischiando tutto. Hai ragione, siamo vili.
— Piangi, piangi, bambino, gli rispose sprezzantemente Lemm, i poeti son tutti così: tu hai paura della morte di un altro.
In quel momento suonò il campanello della porta: Andrea Petrovitch e Ogareff si slanciarono contemporaneamente fuori della stanza, tutti gli altri ammutolirono. Kepskj e Lemm si misero le mani in tasca, forse tastando un’arma.
— Tanto meglio se fosse la polizia! mormorò Fedor.
Si udivano dall’altra stanza le voci di Andrea Petrovich e del dwornik: poi scesero tutti, Ogareff e Pietro il mugik lasciando l’uscio aperto. Che cosa era? Slotkin, appoggiato alla scrivania, stese la mano verso gli scuri della finestra per aprirne uno e spiare sulla strada, ma si rattenne. Quell’attesa di appena un minuto diventava insopportabile.
— Suona, sussurrò con voce strozzata a Kepskj, indicandogli il violino sulla cassa del pianoforte.
Questi scrollò le spalle come giudicando inutile l’espediente, ma nullameno si alzò; la sua mano girando la chiavetta nella piccola serratura, della quale la piastrina intagliata d’ottone spiccava sul nero della cassa come un gioiello, tremava. Molte voci salivano.
Kepskj s’affrettò. Le prime note furono tremule, le voci arrivavano già all’uscio. Allora Kepskj pallidissimo si avvicinò al tavolo e, atteggiandosi a vero suonatore, attaccò vigorosamente l’aria del gran duetto d’amore nel terzo atto del Faust, mentre gli altri gli si stringevano attorno. Olga Petrovna, quasi obliata in quel momento, ma più indifferente di tutti, si accomodava un riccio sulla fronte.
— Aspetta dunque, Kepskj, gridò Andrea Petrovich dal pianerottolo: finalmente è arrivato Kriloff col violoncello.
Kepskj abbassò il violino senza che alcuno rispondesse: s’intese il rumore di una gran cassa che sbatteva nell’uscio entrando, poi la voce del dwornik che salutava Ogareff fra un rumore di passi, e finalmente l’uscio si chiuse. Il mugik entrò colla grande cassa del violoncello sulla schiena; dietro di lui, a gruppo, tornarono Ogareff, Andrea Petrovich, Leo Kriloff e un altro.
Slotkin fu il primo a gridare:
— Tu Loris! e si slanciò per abbracciarlo.
— No, questi ribattè: per ora non sono Loris Nicolaievich Repnine, bensì Monsieur Leon Blondel parigino, maestro di musica e direttore d’orchestra; così almeno abbiamo detto con Kriloff al dwornik.
— Tornato da quando? domandò l’altro, al quale la voce fredda del nuovo arrivato parve imporre rispetto.
— Presentami invece a questi signori, che non ho l’onore di conoscere, e dei quali sono venuto a fare la conoscenza.
Era vestito di un’elegante pelliccia di martora dorata e teneva il berretto di schoner in mano, girando sull’assemblea uno sguardo dominatore. I suoi occhi, di un colore indefinibile in quella luce fumida della stanza, erano pieni d’iridi e di fosforescenze come quelli dei gatti. Pareva assai giovane. I suoi lineamenti femminili, che una tenuissima e rada lanuggine alle labbra e alle guancie non bastava a virilizzare, acquistavano dall’energia dei sopracigli, di un colore più carico e leggermente aggrottati sotto la fronte alta e ripida, una durezza quasi antipatica. La mano, colla quale teneva il berretto, era sguantata, corta e larga, ma secca e nervosa come un artiglio.
Tutti lo fissavano: Olga Petrovna si era alzata involontariamente.
Slotkin gli presentò tutti quei giovani pronunciando semplicemente il loro nome: a quello di Olga Loris rispose collo stesso lieve inchino del capo, all'altro di Ogareff alzò la mano come per dire: è inutile, e salutò il giovane con un sorriso.
Nessuno aveva teso la mano: si sarebbe detta una presentazione di studenti ad un superiore.
— Ora, disse Loris, prima che Slotkin spiegasse a tutti chi egli fosse, dovremo scambiarci gli indirizzi. Il mio non posso darlo ancora: sono sceso all'Hotel de Londres, ma non ci resterò.
— Arrivi di lontano? chiese Slotkin.
— Da Parigi, rispose senza voltarsi. Avevo scritto a Kriloff: non ne avevi dunque parlato a questi signori? Tanto meglio! Sarà più facile intenderci. L'ultimo attentato di Rodion mi ha persuaso della necessità di ritornare in Russia. Ho saputo tutto a Parigi: chi era Rodion, come concepì l'attentato, chi ve lo spinse: so chi ora l'abbandona. Voi non conoscevate Rodion, signori, e il suo sguardo girò sulla piccola assemblea; nullameno siete i soli a Pietroburgo, che si radunino per constatare che non vi è nessun mezzo di salvarlo.
— Proprio nessuno? chiese Fedor, già soggiogato dal tono di quelle parole.
— Vi fosse pure, bisognerebbe rifiutarlo.
Nella stanza corse un fremito. Kriloff, che aveva finalmente aperta la cassa del violoncello, si volse anch'egli; Olga Petrovna incontrando lo sguardo di Loris abbassò il proprio.
— Quando si attenta alla vita di uno Czar bisogna esser sicuri di non sbagliare il colpo, altrimenti si rende spregevole la propria idea e simpatico il tiranno, che si doveva uccidere. Rodion ha meritato la morte: lo Czar non avrebbe che a graziarlo, perchè il ridicolo lo costringesse a suicidarsi. Noi andremo ad assistere alla sua esecuzione nel campo di Smolensko; è necessario che nessuno per ora ci sospetti. Un’impiccagione, esaminata a sangue freddo, basterà a guarire quanto rimane in voi del vecchio romanticismo nichilista.
Kriloff, che meglio di ogni altro, conosceva Loris, lo guardò stupefatto di ammirazione: Ogareff ed Ossinskj si consultarono con uno sguardo, Lemm come affascinato fece un passo verso di lui.
Egli pareva già intimo loro e, per lungo unanime accordo, maggiore di loro.
Fedor smarrito spiò nel volto di Olga: non osava rispondere.
Allora Kriloff, piegandosi sulla cassa aperta del violoncello, ne trasse molte copie di uno stesso libro, che depose sulla tavola. Era l’ultima opera — Paroles d’un révoltè — del principe Krapotkine, stampata a Parigi e introdotta in Russia chi sa con quali rischi.
Loris gettò un’occhiata sopra un volume.
— Ancora un libro, disse lentamente: il loro tempo è passato come quello dei regicidii; le rivoluzioni non si fanno con mezzi così piccoli. Rodion, come Solovieff, trascorse la notte prima dell’attentato in un postribolo: i tiratori svizzeri si frenano invece con un mese di dieta e di castità per concorrere al gran premio nazionale.
S’interruppe con un gesto sprezzante.
— Avete le vostre carte da visita signori? Vi farò avvisare da Kriloff e da Slotkin dove si potrà radunarci. Ora sarà meglio che usciate per non destare sospetti. Come siete soliti, in questa casa, a regolare la vostra ritirata?
Tutti si affrettarono a trarre i biglietti da visita: Olga, che non lo aveva, scrisse colla matita il proprio indirizzo sotto quello di Ossinskj.
— Io, disse Lemm, parto forse domani per Mosca.
— Ci sarà da fare colà; e gli stese la mano, che l’altro strinse con evidente soddisfazione.
Cominciò la partenza: Loris, in piedi presso la porta, ricevette il saluto di tutti. Quello del conte Ogareff fu più amabile; evidentemente Loris distingueva il giovane conte dagli altri.
Andrea Petrovich, che non aveva ancora parlato, appena rimasto solo con Kriloff e con Loris, sentì come un imbarazzo: l’improvvisa autorità di quel nuovo arrivato, conosciuto solamente da Kriloff e da Slotkin, accettata senza protesta da tutti, gli si aggravava sul capo.
Ma Loris scorgendo molte copie del volume di Krapotkine sul tavolo, malgrado che ognuno di quelli se ne fosse andato nascondendone più di una sotto gli abiti, gli disse:
— Gettatele subito nella stufa; è inutile compromettersi per simili scempiaggini.
L’altro ubbidì, quasi con troppa fretta, senza che Kriloff s’opponesse.
— Ora scendiamo dal dwornik per spiegargli come io non abbia potuto dirigere nessun pezzo della vostra opera su Boris Godunof.
La spiegazione fu delle più facili.
Nella strada, al lume di un fanale, scorsero una figura d’uomo ferma nello sforzo di accendere indarno più d’un fiammifero per bruciare la punta dello sigaro.
— È Ogareff, mormorò Loris.
Poi, quando gli furono vicini:
— Ci aspettavate, conte?
L’altro, che non s’aspettava di essere chiamato con questo titolo, sorrise.
— Volevo pregarvi di venire a pranzo da me.
— Sarà meglio che accettiate voi il mio invito: ci faremo vedere in un camerino del Caffè Inglese. La prudenza è adesso di rigore.