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tragedia, non un nome nelle scienze, non un posto nella filosofia. Tutto è sconfinato e uniforme nella Russia, le idee vi si diluiscono: vi abbiamo il socialismo da mille anni, e siamo ancora al mir; il nostro governo è un’amministrazione minuta sino all’invisibile e nullameno più grossolana dell’impero stesso. Vi sono canti finnici e canti ucranici, non vi è nulla di russo; tanto peggio per Ralston che pretende il contrario.
— Tu sogni nel passato, disse Kepskj: la Russia di questo secolo non è più la Russia antica.
— Perchè il dolore vi si è fatto più acuto nelle coscienze di pochi. Si congiura, ecco tutto. Il popolo vi guarda senza comprendervi; la sua anima ha mille anni di servitù. Noi gli promettiamo una libertà, che non sappiamo nemmeno dipingergli: la pittura non è arte russa.
— Tu disperi dunque? intervenne Ossinskj.
— No, ma il dolore è troppo. La Siberia è un continente popolato di prigionieri, la nostra politica rivoluzionaria è un martirologio: non un’idea, non una forza, sulla quale appoggiarsi; l’arte l’avrebbe trovata d’istinto. La Russia non ha arte.
— Che! gridò Andrea Petrovich: i nostri grandi....
— Lascialo sfogare, disse Ogareff picchiando colla costola di un libro nel ventre del samovar per chiamare il servo.
— Stappa le bottiglie e porta i bicchieri. Quale