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— Io sono generoso, Giacomo Martinovich Clemens, gridò Fedor: bevete; piangerete un’altra volta per qualcuno peggiore di me.

— Porta la tua scodella, disse il conte Ogareff al mugik.

Questi rientrò nella stanza attigua alla cucina, e ne tornò con una ciottola rossa, di legno, capace di oltre un litro: il conte ve ne versò dalla carafa forse mezzo, e porgendolo al portinaio:

— Alla salute della bella Catia! Attendiamo quassù altri due amici: sono Anatolio Fomitich Giskoff e un giovane maestro francese, che ha già dato un’opera propria a Parigi; guai se li accompagni!

— Vostra Alta Nobiltà non dubiti.

Allons, partons pour la Sirie, gli intimò sorridendo il conte Ogareff.

Giacomo Clemens votò d’un fiato la ciottola e, prosternandosi in un inchino troppo umile anche per essere fatto al nipote di un ministro di stato, intuonò colla sua bella voce di basso, che avrebbe fatto onore ad un diacono di Santa Sofia, la vecchia canzone francese, nella quale egli metteva patriotticamente tutti gli ideali di conquista russa in Oriente.

— Tu, si rivolse il conte al mugik, mentre chiudeva l’uscio dietro al portinaio ma in modo da essere inteso da questo, attendi un mio ordine per sturare le bottiglie; se la prova non riuscisse, per San Sergio, non beveranno.