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La morte era scomparsa, il martire splendeva nell’apoteosi del trionfatore. Invano i tamburi regolavano ancora sommessamente il passo dei soldati, che lo scortavano al patibolo; invano la gente restava allineata ai muri coll’immobilità delle statue, e la distanza dalla forca scemava mentre qualche nota del dolore di prima passava ancora attraverso le fanfare vittoriose come un uccello notturno sperso nel meriggio. La marcia funebre diventata marcia trionfale scrollava tutto colla propria sonorità; vi si sentivano ancora le ultime grida dei vincitori salienti dal fracasso delle rovine fra lo squillo giovanile dei coscritti capitati alla vittoria in quella prima battaglia.

— Ah! scoppiarono gridando Ogareff, Ossinskj e Karatajeff, come avventandosi in quell’ombra cupa della stanza verso una luce invisibile.

Ma la marcia non era finita. Il rullo dei tamburi tornò a battere in cadenza sullo scalpiccio affievolito dei soldati, che si arrestavano disponendosi a quadrato intorno alla forca: un rumorìo di voci oppresse si acquetò subitamente, s’intesero degli scoppi come di finestre spaventate che si chiudessero; poi i tamburi alzarono daccapo il loro rullo, lo crebbero, lo mantennero, lo mantennero, lo mantennero....

Il condannato non aveva potuto parlare.

S’udì un singhiozzo: era il poeta Fedor che piangeva.

Poi disse: