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mattino sul brusio della strada piena di popolo, che non osava parlare. Solo qualche singhiozzo scoppiava ogni tanto, soffocato indarno fra le dita convulse, intanto che i vicini sbalzavano sulle punte dei piedi per nascondere all’occhio vigile dei gendarmi quel pietoso. Poi una frase larga e poderosa riempì improvvisamente tutta la strada: le finestre, prima chiuse paurosamente, si gremivano di un’altra moltitudine pallida di una notte d’insonnia, cogli occhi ancora gonfi ed intenti nel condannato, che si avanzava a testa nuda, nudo sotto la lunga camicia bianca. Nessuno poteva parlare, nessuno si muoveva; una pietà disperata sollevava simultaneamente tutti i cuori mandando dal profondo di tutte le anime a tutte quelle labbra frementi un saluto supremo di amore. Quella morte, inventata dall’uomo colla condanna di un altro uomo, annientava istantaneamente nella orribilità del proprio mistero ogni coscienza. Perchè quel solo aveva voluto morire per amore della vita di tutti? E la musica, alta sul rullo dei tamburi, ondulava lungo la strada bagnando le fronti scoperte di quella moltitudine come un vapore intirizzente. Improvvisamente nell’azzurro del mattino la luce rutilò. Perchè compiangere dunque? La morte era più bella così. Infatti, all’apparire della forca nello sfondo della strada, una frase trionfale di guerra erompendo da quella musica di dolore e coprendolo il rullo dei tamburi sollevò tutta quella folla ad un urlo di ovazione.